in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008
Amedeo Caruso: Professor Galimberti, grazie per aver accettato l’invito del Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto. Noi siamo lieti di ospitarLa anche per via video al nostro Convegno che, come sa, si intitola Dalla Maieutica al Transfert. Consulenza filosofica e psicoterapia a confronto. È stato proprio Lei a portare la consulenza filosofica in Italia, vero?
Umberto Galimberti: Sì. Sono stato io perché ho avuto l’impressione che la psicoanalisi perdesse un po’ i colpi. Le ragioni per cui li perde sono che la psicoanalisi è un grandioso sistema fondato sulla metafora della sessualità. Ma ora la metafora della sessualità ha perso potenza perché il sesso non è più un tabù, è diventato pratica abituale. Allora bisogna organizzare altri tipi di scenari che non siano rigorosamente riferiti a quelle due pulsioni della specie che per Freud costituiscono la base dell’inconscio: sessualità per la riproduzione e aggressività per la difesa della prole. Credo che attualmente le forme del disagio siano cambiate. Siamo passati da una società della disciplina, dove il conflitto era tra permesso-proibito, a una società dell’efficienza dove il conflitto è tra ce la faccio-non ce la faccio a raggiungere gli obiettivi che mediamente mi si pongono, sia a livello personale che a livello di apparati. Allora, in un contesto di questo genere, la stessa depressione ha cambiato forma: non è più organizzata su un complesso di colpa, ma su una sensazione di inadeguatezza. Questo perché la nostra società diviene sempre più americana, perché le nostre prestazioni devono essere sempre al massimo livello, perché tutti gli apparati tecnici alzano ogni anno l’asticella. E in questo contesto lavorare con apparati psicoanalitici che fanno riferimento a sessualità, aggressività e a divieti superegoici, potrebbe non essere più così efficace. Il problema sta nel reperire un significato alla propria esistenza a partire da un riconoscimento della propria identità. E questa identità ci viene data dal riconoscimento degli apparati di appartenenza. Se gli apparati di appartenenza ci negano o non ci riconoscono, anche la nostra identità va in frantumi. Di qui tutte le forme del disagio. Questi sono gli effetti dell’età della tecnica. E l’età della tecnica ha determinato degli scenari che la psicoanalisi non aveva previsto. Quindi noi, in qualche modo, dobbiamo incominciare ad aprire un dialogo tra l’apparato psicoanalitico, che è un apparato molto significativo, e la novità tecnologica. Io ipotizzo addirittura un inconscio tecnologico, ma di questo parlerò in seguito.
Ho letto con attenzione il Suo penultimo libro, La casa di Psiche, che si occupa in parte di questo argomento. Adesso la consulenza filosofica è à la page, è di moda, ma quanto tempo fa Lei ha cominciato a concepirla?
Lo spunto me lo ha dato Benasayag. Questi è un filosofo argentino che ha aperto a Parigi uno sportello per i giovani che vivevano un disagio psicologico e avevano per questo bisogno di aiuto. La conclusione a cui è giunto Benasayag è stata che questi ragazzi vivono un disagio psicologico perché non hanno un futuro. Il futuro che per noi era un futuro promessa per loro è diventato un futuro incertezza. Quindi il futuro non retroagisce per motivare i comportamenti attivi e produttivi come ben poteva retroagire per noi sapendo quello che poi avremmo dovuto fare. I ragazzi che andavano allo sportello non è che dicevano: “senta, dottore, scusi ma sono vittima di una crisi storica.” Però è questa la vera ragione. Allora bisognava entrare in questo nuovo scenario ed io l’ho fatto attraverso la configurazione della consulenza filosofica che è molto sviluppata in America, Francia, Germania, Olanda ed Israele ma non in Italia. Da noi la filosofia è sempre rimasta accademica, giocava con cinquecento parole: essere/non essere, principio di non contraddizione e cose di questo genere. Ma la filosofia è nata come pratica filosofica. Cosa faceva Socrate? Insegnava ai giovani che cosa è giusto, cosa è bello, cosa è vero, cosa è santo, come si conduce la retta vita, come si organizza la città…
Come si ricerca la verità…
Governo della città e governo di sé. Allora abbiamo organizzato un nuovo scenario e sono nate due società private: la Sicof e Phronesis. Poi ho pensato che era necessario dargli un ordine istituzionale, allora ho istituito un master a Venezia. Adesso ne sono nati anche a Roma, a Cagliari e a Bari. Il primo a mettere in circolazione la consulenza filosofica è stato Achenbach una ventina d’anni fa in Germania. Però ritengo che se assumiamo come riferimento Achenbach e gli altri che se ne occupano, i presupposti teorici di questo sapere siano molto modesti. Ho pensato che la consulenza filosofica, forse, si radica in scenari molto più potenti che hanno i nomi di Jaspers, Heidegger, Husserl, Merleau-Ponty, Sartre… Cioè tutto questo filone in cui si usano le categorie della filosofia per l’interpretazione del disagio. Allora torniamo indietro e andiamo a vedere che c’è della letteratura più potente di quella che oggi passa come consulenza filosofica e vediamo di agganciare la consulenza filosofica a questo scenario.
Quindi, Professore, come usa oggi la Sua esperienza psicoanalitica?
Io ho fatto un percorso molto strano. Innanzi tutto istituzionalmente sono uno junghiano. Però quando sono diventato psicoanalista ritenevo di non sapere quasi niente. Allora ho deciso di andare a vedere le cose su grande schermo. Cioè sono andato in manicomio per tre anni. Per fortuna in questo manicomio c’era uno psichiatra allora ignoto che io ritenevo fosse un genio. Questo psichiatra si chiama Eugenio Borgna. Con lui abbiamo fatto un bel lavoro di pratica clinica, e dopo essere passato attraverso questa pratica clinica mi sono detto: “va bene, adesso sono a posto!”
Così Lei ha cominciato a lavorare nei manicomi?
Sì. Dopo questa esperienza ritenevo di avere acquisito una certa sensibilità poiché avevo visto la psicosi. In fondo la differenza tra nevrosi e psicosi è sostanzialmente quantitativa. Inoltre avevo già delle precondizioni per questo scenario perché sono stato allievo di Jaspers nel sessantadue. Andavo a trovarlo nei weekend, e lì ho cominciato a ritenere che la psicologia e la filosofia dovessero parlare molto più seriamente di quanto non facessero a livello istituzionale. Quindi mi ero fatto una base fenomenologica a partire da Jaspers, Binswanger, Vygotskij, Lévi-Strauss… Era, il mio, uno junghismo corrotto dalla fenomenologia. Poi, quando mi sono messo a fare il Dizionario di Psicologia, mi sono innamorato di Freud: altra corruzione! Quindi, mi sono sintonizzato sulla consulenza filosofica e alla fine cosa è risultato? Che probabilmente si deve adattare una terapia o un’altra a seconda di chi si ha davanti. Non c’è una psiche oggettiva. Ogni psiche è soggettiva, sensibile a certi linguaggi piuttosto che ad altri. Allora in questo contesto un certo eclettismo funziona meglio che la rigidità di una scuola.
Lei definisce Freud il più grande teorico del desiderio.
Sì, un filosofo…
“Colui che ha visto più a fondo perdendosi in quel fondo per scoprirvi un attributo di Dio”. Queste sono delle bellissime riflessioni che Lei ha fatto e io Gliele rileggo perché le ho sentite molto vere. “Animato da un desiderio di onnipotenza l’uomo lo iscrive nel suo destino di morte che dice impotenza. Da questa condizione non si può guarire”. E Lei dice che molte figure di sofferenza sono iscritte in questa condizione. “Troppi si concedono alle psicoterapie per una ragione o per un altra ma tutte si rivelano figure di un desiderio infinito. Gli uomini sono spesso ammalati di desideri infiniti, ma siccome sono mortali, e il loro corpo racconta ogni giorno questo destino, si fanno curare con l’unico scopo di non vedere questa verità che la memoria ricorda come sottofondo depresso in ogni biografia”. Io l’ho trovato struggente e vorrei che lo commentasse.
Io non sono cristiano, sono greco. Tra la grecità e il cristianesimo c’è un abisso. Tutti coloro che ritengono che la grecità sia l’anticamera del cristianesimo – come fanno i cristiani – o che il cristianesimo sia conciliabile con la ragione greca – come fa Ratzinger – o non hanno capito il cristianesimo, o non hanno capito la grecità. La grecità è una cosa molto seria. Innanzi tutto non chiama l’uomo uomo. Pur avendo due parole a sua disposizione, àntropos e anèr, non le usano quasi mai. Usano sempre la parola brotós all’epoca di Omero e la parola thànatos all’epoca di Platone. Cioè l’uomo è il mortale, punto. Si prende seriamente in mano la morte e si guarda in faccia il dolore con serietà a partire dal concetto di natura. La natura per i greci non era una creatura di Dio, ma era quello sfondo immutabile caratterizzata dalla possibilità della continuazione della sua vita alla sola condizione che muoiano le sue determinazioni. E tra queste determinazioni c’è anche l’uomo. La natura può vivere se tutti quelli che nascono e crescono, muoiono. Per cui la vita della natura è antitetica al desiderio umano di sopravvivere. Dopodiché gli uomini, all’interno di questo universo molto limitato che è la loro esistenza, quando il dolore non li prende possono espandere la vita il più possibile. Ma quando li prende il dolore lo devono reggere. Reggere il dolore vuol dire non mettere in scena tutte quelle scenografie del dolore che sono invece classiche del cristianesimo. E giustamente per il cristianesimo perché mentre per il greco il dolore è costitutivo della vita, per il cristianesimo il dolore è un’espiazione di una colpa e una caparra per l’eternità. Per questo nasce tutta quell’enfasi intorno al dolore. Basta confrontare la morte di Socrate con la morte di Gesù per confrontare questi due scenari totalmente differenti. A Socrate, quando è in carcere, Fedone dice: “Possiamo andarcene. Qui fuori c’è una barca, io ho parlato con i Trenta Tiranni e va bene anche per loro: così non si uccidono i filosofi e non si fa scandalo nella città”. E Socrate risponde: “Insomma, quello che avevo da dire ve l’ho detto, ho concluso il mio ciclo, non fatemi offendere la Legge che vi ho sempre insegnato a rispettare, datemi la cicuta e non parliamone più”. Fine. Questo è il greco. Gesù invece comincia con l’ultima cena, “Uno di voi mi tradirà”, la flagellazione, la corona di spine, tre volte che cade, la freccia nel costato, “Dio mio perché mi hai abbandonato”… Questa è la scenografia del dolore. Perché? Perché per i cristiani il dolore ha un senso. Allora, se ti metti in una prospettiva greca, dal dolore non puoi guarire. Invece vedo nella psicoanalisi, per quel tanto che presume di guarire il dolore, una traccia della tradizione giudaico-cristiana. Freud per altro era ebreo. Ecco, accuso i cristiani non solo di pretendere di eliminare il dolore, ma addirittura di avere una vita al di là della vita. Quindi il desiderio è infinito perché non ha limite e la morte è semplicemente una sorta di trapasso, di apparenza. Ma la morte è una cosa seria. Finisce l’accadimento umano della tua umanità, dei tuoi affetti, dell’amore per te. E devi accettare questa fine.
Abstract
Amedeo Caruso intervista Umberto Galimberti Professore Ordinario di Filosofia della Storia e Psicologia Dinamica all’Università di Venezia. Galimberti è stato il primo a introdurre la consulenza filosofica in Italia. Durante questa conversazione il Docente Universitario afferma la necessità del dialogo tra psicoanalisti e filosofi ed auspica che i consulenti filosofici si sottopongano a psicoterapia. Nel corso del dialogo vengono affrontati dall’Eminente Filosofo temi importanti come l’educazione dei giovani e la preparazione psico-filosofica per tutti alle difficoltà della vita. Il Filosofo – Psicologo Galimberti espone quindi il Suo concetto di grecità, antitetico al cristianesimo e lontano dalle società consumistiche occidentali. All’intervista partecipano altri psicologi del Centro Studi, i dottori Enrico Santori e Marianna Stinà e la studiosa Annamaria O. che rivolgono domande psico-filosofiche pertinenti e stimolanti al Professore che risponde con generosità e saggezza.