Larga repercusión tienen las palabras”([1])Jorge Luis Borges
Qualche nota introduttiva.
L’espressione abbandono attivo presenta una ambiguità.
Il primo termine – abbandono – evoca primariamente il lasciare e l’esser lasciato, il lasciarsi andare, la passività mentre il secondo – attivo – evoca l’azione, la decisione… l’attività, appunto.
Taluni – ascoltatori o lettori – potranno trovare nell’espressione la configurazione di un ossimoro[2] e qui mi piace ricordare quanto scritto da Jorge Luis Borges:
“Nella figura retorica chiamata ossimoro, si applica ad una parola un aggettivo che sembra contraddirla; così gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti di un sole nero”
Luce oscura e sole nero… immagini s-paesanti ed in un certo modo de-stabilizzanti; qui osservo che altri potranno scorgere nell’espressione in questione un’aporia[3], ovvero una difficoltà, una strada senza uscita, un concetto contraddittorio che getta il soggetto in un momento di vuoto.. ma in quel vuoto si può cercare il senso.
Nel percorso analitico di matrice junghiana l’ abbandono attivo allude a quella particolare dimensione interiore in cui il soggetto modula e fa interagire passività e attività rispetto ai contenuti dell’inconscio ed agli accadimenti esterni.
Di questo scriverò brevemente.
Sintetica storia di una scoperta.
Nel 1973 iniziai la mia analisi personale con Aldo Carotenuto, analista junghiano di cui molto si è detto e scritto, spesso rasentando i più opposti estremismi, ed al quale abbiamo dedicato un numero della nostra rivista [4].
In quel percorso, durato quattro anni, andavo scoprendo me stessa ed il senso del mio agire anche attraverso i sogni che venivano analizzati.
Capitò allora, più di una volta, che taluni sogni presentassero immagini non facilmente decodificabili, o significati contraddittori, o ancora che – discorrendo sui sogni medesimi – non riuscissimo a trarne un messaggio.
In quei frangenti, Carotenuto mi invitò ad adottare un atteggiamento di abbandono attivo.
Pressochè in tutti i percorsi analitici, ed in special modo quando si tratta della propria prima analisi personale, a volte le parole dell’analista (poche e centrate) lasciano una traccia profonda, non si dimenticano, e – per usare l’espressione di Carlo Levi [5] – restano ferme come pietre.
Con questo vissuto accolsi e memorizzai l’abbandono attivo.
Accogliere e ricordare, però, non significa sempre aver compreso ed in effetti l’ abbandono attivo aveva aperto in me una ridda di dubbi e domande: non afferravo pienamente il senso, ne scorgevo l’ambiguità di significato, mi sentivo s-paesata in quanto non capivo dove collocarmi, dove fosse e cosa fosse quella posizione / dimensione allusa da Carotenuto come utile.
Dello spaesamento e della sensazione di impasse parlai in analisi, chiedendo lumi, chiedendo di farmi capire meglio e la risposta fu che era opportuno lasciar agire anche lo spaesamento, che poi il senso sarebbe emerso…
L’analista aveva visto giusto: a poco a poco imparai ad accettare l’abbandono attivo anche se non lo comprendevo come il mio bisogno di precisione avrebbe voluto.
Andavo ragionando sull’espressione abbandono e attivo, ne coglievo la almeno apparente contraddizione, perché il primo termine – abbandono – mi evocava dimensioni di passività in contrasto con quelle evocate dal secondo termine.
Come dovevo dunque pormi rispetto all’ambiguità e complessità di alcuni sogni?
Come poteva la posizione di abbandono attivo, che sentivo di per sé ambigua, aiutarmi a coglierne via via il senso?
Poi, nel corso del tempo, compresi che la passività e l’attività possono coesistere, convivere, dare spazio e luogo ad un tertium.
Rispetto ai sogni critici, potevo lasciar aperta la porta ad ogni interpretazione possibile che fosse man mano emersa, potevo semplicemente aspettare che un significato si delineasse e nel contempo potevo cercare associazioni, immaginare, esaminare i sogni nella loro sequenza..…
Si poteva essere – contemporaneamente – attivi e passivi.
Imparavo a conoscere – ante litteram – la sintesi degli opposti.
Approfondimenti successivi.
Quando poi, iniziato il training per diventare analista, iniziai a studiare il pensiero di C. G. Jung, ritrovai in più punti rispecchiato il mio vissuto di allora, la perseveranza e l’intensità con cui investivo il dilemma cercando di approfondirlo…
Per esempio, in quanto Jung sostiene a proposito del tipo introverso, “gli elementi che debbono venire connessi rimangono costellati per parecchio tempo, quanto basta per rendere possibile la loro astrazione[6]”, trovai la risposta alla domanda che pure mi ponevo.. se non fosse sintomo di nevrosi anche il lungo interrogarmi sul significato del dilemma in questione.
In successivi scambi, quando ormai eravamo divenuti colleghi, Carotenuto mi accennò al fatto di aver appreso e mutuato il concetto di abbandono attivo dalla viva voce del suo analista Ernst Bernhard[7].
Bernhard, infatti, non amava scrivere e quanto del suo pensiero è arrivato a noi si deve in gran parte all’ intelligente opera di selezione e raccolta fatta da una sua allieva, Hèlène Herba Tissot[8], e – recentemente – alla pubblicazione dell’Epistolario, Lettere a Dora, a cura di Luciana Marinanageli[9].
Davanti a me le possibilità di conoscenza andavano ampliandosi, scoprivo ulteriori sentieri in cui addentrarmi.
Bernhard, a sua volta, era rimasto particolarmente colpito dall’idea della divina provvidenza e della tensione individuale che l’uomo può cercare nell’abbandonarsi ad essa, allorquando aveva scritto la prefazione al piccolo libro del gesuita Jean-Pierre de Caussade.[10]
Bernhard poneva in secondo piano il lato generico e dogmatico dell’opera e valorizzava l’anelito verso una esperienza religiosa individuale, anche laicamente intesa come processo di integrazione della coscienza; processo simile al Bhakthi yoga indiano o al Taoismo, ma simile anche allo junghiano processo di individuazione.
Lo stesso Carotenuto si soffermò sul rapporto tra Bernhard e de Caussade nell’articolo L’opera esige la vita [11], pubblicato nella Rivista di Psicologia Analitica.
I limiti editoriali mi chiedono di non addentrarmi oltre; lascio quindi al lettore interessato queste ulteriori tracce da seguire…
L’esperienza clinica.
Nel corso della mia attività clinica, ormai più che trentennale, ho più volte passato ai pazienti il messaggio dell’abbandono attivo come dimensione possibile in cui cercare di situarsi, verificandone l’ampia valenza e l’utilità euristica e maturativa.
Quasi sempre ho visto il paziente accogliere la proposta con sorpresa, spesso con lo spaesamento che io stessa avevo attraversato, talvolta aprendo una serie di domande e interrogativi cui non davo precisa risposta.
In grande sintesi, posso dire che la più parte dei pazienti ha dapprima accettato con riserva la dimensione / posizione proposta, poi l’ha cautamente sperimentata, con progressive acquisizioni di senso; per non pochi l’abbandono attivo è stato un modo nuovo (e impensabile prima) di porsi non solo rispetto ai propri sogni e ai segnali dell’inconscio, ma anche rispetto agli accadimenti del concreto vivere.
Riuscire a tenere insieme l’attività e la passività, accettare di situarsi nella zona grigia del non pienamente compreso razionalmente è fatto non da poco.
Significa molte cose: accettare i limiti della comprensione razionale, dare spazio seppur temporaneamente all’ambiguità ed all’ambivalenza, addivenire ad una visione nuova di sé e di sé nel Mondo rinunciando al potere (talvolta dittatoriale) del logos e del pensiero.
Procedere anche nel buio, o nella penombra, senza avvalersi dei consueti parametri di riferimento, sapendo relativizzare e sdrammatizzare anche lo spaesamento ed il momentaneo squilibrio, dandosi però la fiducia che nuove modalità emergeranno e diverranno disponibili.
L’abbandono attivo configura e richiede anche la rinuncia alla sicurezza del noto ed il coraggio di avventurarsi nell’ignoto.
Più di un paziente mi ha man mano dato atto, anche esplicitamente, di aver iniziato a relazionarsi in modo nuovo nei confronti del proprio inconscio e nei confronti del vivere grazie alla progressiva accettazione e integrazione della dimensione in oggetto.
Brevi conclusioni.
Nel percorso analitico di matrice junghiana l’ abbandono attivo allude a quella particolare dimensione interiore in cui il soggetto modula e fa interagire passività e attività rispetto ai contenuti dell’inconscio ed agli accadimenti esterni, anche talvolta rinunciando alla consueta centralità del proprio Io.
A partire dalla mia personale esperienza e via via nel corso del lavoro clinico come analista, l’abbandono attivo (e la dimensione psicologica che esso costella) si è manifestato come forza propulsiva.
Una indicazione di percorso apparentemente ambigua e scarsamente comprensibile, che può aprire una benefica crisi nel paziente e nello stesso lavoro analitico, rivelandosi poi elemento capace di ristrutturare abituali ma spesso non funzionali coordinate mentali e di comportamento, aprendo la via all’integrazione di molte parti di sé, talora anche celate nell’ombra.
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[1] Jorge Luis Borges, «El arte narrativo y la magia», in Obras completas 1975-1988, vol. I, p. 231, Buenos Aires, Emecé, 1996.
[2] ossimòro (alla greca ossìmoro) s. m. [dal gr. ὀξύμωρον, comp. di ὀξύς «acuto» e μωρός «stupido», con allusione al contrasto logico]. – Figura retorica consistente nell’accostare nella medesima locuzione parole che esprimono concetti contrarî: lat. concordia discors, festina lente, strenua inertia; ital. una lucida pazzia, un silenzio eloquente, tacito tumulto, ghiaccio bollente… http://www.treccani.it/vocabolario/tag/ossimoro/
[3] aporìa s. f. [dal gr. ἀπορία «difficoltà, incertezza», der. di ἀπορέω «essere incerto»]. – In filosofia, difficoltà di fronte alla quale viene a trovarsi il pensiero nella sua ricerca, sia che di tale difficoltà si ritenga raggiungibile la soluzione sia che essa appaia intrinseca alla natura stessa della cosa e quindi ineliminabile: le a. eleatiche; la discussione aristotelica delle a. del concetto di moto; un’a. insolubile. http://www.treccani.it/vocabolario/aporia/
[4] Per Aldo Carotenuto, Giornale Storico del Centro Studi Psicologia e Letteratura, vol. 2 – aprile 2006, fascicolo 2, Giovanni Fioriti EDITORE, Roma
[5] Levi, C., Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, Editore EINAUDI (Saggi), Torino, 1956
[6] Jung, C.G., I tipi nella psicopatologia, in Tipi psicologici, Opere, vol. VI, Boringhieri, Torino,1981, pag. 279
[7] Ernst Bernhard, medico pediatra berlinese, portò in Italia il pensiero di C.G. Jung e ne fu promotore ad ampio raggio, anche fondando, nel 1961, L’Associazione Italiana per lo Studio della Psicologia Analitica (A.I.P.A).
[8] Erba Tissot, H., (a c. di), Mitobiografia. Ernst Bernhard, Adelphi, Milano, 1969
[9] Marinangeli, L. (a c. di), Ernst Bernhard. Lettere a Dora dal campo di internamento di Ferramonti (1940-41), ARAGNO Editore, Torino, 2011
[10] De Caussade, J.P., L’abbandono alla divina provvidenza, Astrolabio, Roma, 1951
[11] Carotenuto, A., L’opera esige la vita, in Maestri scomodi. Ernst Bernhard, Buber e Jung, Rivista di Psicologia Analitica, nuova serie n. 2, 54/ 96