Articolo pubblicato su L’anima fa Arte n.6
In questa nuova sezione della rivista raccoglieremo testimonianze di professionisti della clinica analitica. In questo numero abbiamo intervistato la dott.ssa Simonetta Putti, analista junghiana e psicoterapeuta che ha vissuto a stretto contatto con Aldo Carotenuto. Vi auguro una buona lettura.
Come nasce Simonetta Putti come psicologa e, precisamente, come analista junghiana? Qualora fosse possibile, potrebbe raccontare un episodio della sua infanzia in cui è possibile vedere all’opera il suo Daimon di archetipica memoria.
Verso i 23 anni mi aggiravo in un profondo malessere… Come se la vita mi ponesse davanti due strade: fare la malata o l’analista. Ho scelto la seconda. Probabilmente per questo mi sento in accordo con l’archetipo del guaritore ferito. Che io sia poi diventata un’analista junghiana credo sia stato un caso… avevo altrettanta attrazione per Freud, ma allorquando decisi di intraprendere un’analisi mi fu proposto Aldo Carotenuto.
Il mio Daimon, se così vogliamo chiamare un parametro sostanziale per me, è la ricerca della verità. Non assoluta, ma soggettiva, diciamo pure con la ‘v‘ minuscola. Posso citare un episodio dei miei 5 anni: i genitori mi mandarono anticipatamente in prima elementare, in una scuola gestita da suore orsoline, seppure gli insegnanti erano laici. Un giorno fui convocata con urgenza nella stanza della preside, che mi fece ripetuti e duri rimproveri perché io avevo confidato ad una piccola compagna di classe che i bambini nascono nella pancia della mamma. La madre di quella bambina si era poi sentitamente lamentata con la preside. Io sapevo di aver comunicato la mia verità e sentirmi rimproverata di questo era per me inaccettabile, soprattutto in quanto il rimprovero veniva dalle suore, che sempre andavano ripetendo che dio è verità e vita. Da lì iniziò una profonda frattura con la religione istituzionale, un conflitto che io sciolsi – crescendo – optando appunto per la verità soggettiva.
Come coniuga, nella sua esperienza, la cultura junghiana, la cultura fiosofica, neuroscientifica e – non ultima per importanza – la cultura archetipica?
Ho conseguito l’abilitazione ad essere analista presso l’a.i.p.a (associazioe italiana per lo studio della psicologiaanalitica) e sono stata accettata inizialmente con la mia laurea in filosofia. Soltanto dopo alcuni anni mi fu imposta la laurea in psicologia. Ho avuto così due prospettive dalle quali guardare ed ho percorso la fase di training sentendomi in sintonia con jung. Ma questo amore non è mai stato esclusivo, ha sempre lasciato spazio ad altre conoscenze (freud, la kleyn, racker, neumann, guggenbuhl craig, buber, callieri…) rapidamente mi sono configurata una concezione dell’uomo come unità somato-psichico-culturale e in questa ottica ho mantenuto un vivo interesse per il soma in senso lato. Non a caso lo jung che amo di più è quello che scrive come medico; sempre con cautela, invece, ho camminato nei territori della psicologia archetipica, che – a mio parere – non raramente sposta il gradiente dell’attenzione troppo in alto, con il rischio di intellettualizzare e dar luogo, quindi, ad una personalità unilaterale…
Un aspetto molto discusso della psicoterapia di oggi è la web therapy. Pensa che questo tipo di terapia possa avere un futuro nella nostra professione? Qual è il ruolo – oggi – svolto dal linguaggio universale dei social media e quali – se vi siano – sono i difetti e i punti di forza della tipologia di comunicazione globalizzata?
La comunicazione è uno dei miei prioritari interessi e questo comporta una passione per le tecnologie che la sostengono. Ho avuto l’avventura (e la fortuna) di partecipare già nel 1999-2000 alla ricerca sperimentale Psychoinside, diretta da Tonino Cantelmi, ed ho potuto verificare la possibilità e fruibilità di un aiuto psicologico on line. Per i primi anni del 2000 ho condotto svariate terapie on line sino a quando – nel 2004 – l’ordine psicologi lazio mise sotto veto il settore. Ritengo che in Italia ci sia un grave ritardo rispetto a questa branca correlata allo sviluppo delle i.c.t.. La web therapy, se condotta con rigorosi parametri etici e deontologici – può consentire anche ai soggetti disagiati (per territorio e /o per handicap) di avvicinarsi alla conoscenza di sé. Penso che la web therapy possa costituire un ponte transitabile, che può accompagnare il soggetto anche ad una successiva terapia tradizionale.
In Italia si assiste da molti anni a schieramenti rigidi tra tecnofobi e tecnofili e probabilmente questo conflitto non ha giovato al progresso delle ricerche e della conoscenza: ci si è prevalentemente arroccati nella difesa del noto e questa posizione si riflette sul web nelle sue diverse declinazioni. Prevale una cultura del negativo, ovvero la denuncia di guasti e rischi dimenticando le amplissime opportunità che tali media offrono. Così è per i social network: pensiamo a facebook. Lo si giudica prevalentemente come una piazza virtuale in cui gli utenti perdono tempo, o si esibiscono narcisisticamente o scaricano le proprie irrisolte aggressività.
Io amo sempre distinguere: quanto sopra detto può accadere, ma attraverso facebook si possono scambiare informazioni utili, ed anche fare cultura, lanciando semi che l’utente accorto può cogliere.
I vantaggi sono chiaramente quelli di un facile accesso, di una disinibizione garantita anche dalla possibilità di anonimato e comunque di una facilitazione della comunicazione correlata alla distanza.
Gli svantaggi sono rappresentati dalla possibile violazione della privacy, dal rischio di entrare in contatto con soggetti disturbati e difficilmente gestibili. Credo però che una fruizione cauta e ponderata, mai disgiunta da una adeguata distanza emotiva, ci possa abbastanza salvaguardare.
Nella società odierna è presente un timore reverenziale nei confronti del limite, ancora più timore si riscontra nella paura collegata alla morte e alle tematiche di fine vita. L’eutanasia – ad esempio – è un tabù per la società italiana. Secondo la sua esperienza come si mostrano la morte e il limite nella pratica analitica?
Nel nostro tempo e per le ultime generazioni l‘idea di limite è diventata alquanto estranea, stante anche l’educazione permissiva che non lascia spazio alla necessaria frustrazione, non lascia la possibilità del desiderio e della dilazione: vediamo adolescenti e giovani convinti che tutto sia possibile o – al contrario – senza speranza. Potrei dire che viviamo in una diffusa dimensione di onnipotenza / impotenza. Parallelamente l’idea della morte configura un paradosso: da un lato rimossa ed esorcizzata, dall’altro enfatizzata ed amplificata nella sua dimensione di spettacolo. Nella mia esperienza clinica, invece, il limite e la morte occupano una posizione centrale, direi strutturale, nello sviluppo di una personalità armonica e per la conquista di un adeguato equilibrio nella vita.
Sul piano personale posso dire che la coscienza della morte – possibile sempre – mi ha insegnato a vivere facendo giorno per giorno le cose che ritengo giuste, senza rinvii. Per quanto riguarda l’eutanasia e la libertà di scelta nel fine vita sono favorevole: credo che la vita sia un diritto e non un obbligo.
Nella sua vita ha avuto l’immensa fortuna di conoscere un grande uomo e professionista come Aldo Carotenuto. Può provare a renderlo vivo in queste pagine attraverso la sua esperienza e magari raccontarci un piccolo aneddoto che vi coinvolge?
Aldo Carotenuto è stato il mio primo analista e successivamente è divenuto collega nell’ambito di diverse associazioni; è stato un fecondo scrittore ed un personaggio di fama internazionale: posizioni scomode e che determinano ammirazione ma anche invidia e detrazioni. Fatta questa premessa è doveroso ricordare che l‘operato clinico di Carotenuto è stato oggetto non di rado di critiche, biasimo sino all’aperta censura. Lui stesso – ironicamente – soleva descriversi come‚ un trasgressore nato (vedi anche putti, s., la solitudine inquieta, in psicologia analitica contemporanea, Milano, Bompiani, 1989). Nella mia esperienza di paziente, ho visto in Carotenuto un analista rigoroso ed allo stesso tempo libero dai condizionamenti, sempre acutamente interessato al nuovo che si manifestava nella dimensione clinica e nel mondo. D’altra parte, Carotenuto ha spesso messo in risalto di avere come proprio mitologema personale il superamento degli ostacoli, che ha incontrato precocemente nella propria storia familiare e via via nella vita. Io penso che quando ci si accinge a saltare gli ostacoli, si spicca spesso un salto lungo e – quando si deve superare uno spazio considerevole – le forze della spinta possono non essere sempre adeguatamente calibrate.
L’episodio che amo ricordare è l’occasione in cui mi incaricò di presentare la psicologia analitica in un seminario organizzato da luigi de marchi: era la mia prima uscita nel pubblico e mostravo qualche resistenza. Carotenuto mi disse vai vai, tu non hai problemi…io mi sentivo mandata allo sbaraglio ma quella iniezione di fiducia funzionò. Da allora ho meglio compreso quanto il Fattore fiducia sia basilare.
A cura di Alfredo Vernacotola e Michele Mezzanotte
Simonetta putti, analista junghiana e psicoterapeuta, socia A.R.P.A. (associazione per la ricerca in psicologia analitica) e I.A.A.P. (international association for analytical psychology).