Coppie fumose

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 52, Roma, Di Renzo Editore, 2002 – Estratto

Prigioniero della mia ignoranza e del mio ruolo di fumatore da strapazzo (questo termine-calembour ci condurrà presto a Lacan, e mi chiedo, more lacaniano: non è proprio di uno psico-analista che si rispetti il fumare da stra-pazzo?) mi sono acceso e ho scoperto Odile Lesourne, autrice de Il grande fumatore e la sua passione un’opera che esamina con attenzione sociologi-ca e con rigore psicoanalitico la questione fumo.

Il libro si avvale della prefazione di Jean Laplanche che, evidenziando il silenzio sul pro-blema, suggerisce di cercare in un Freud nevrotico – che aggira il suo tabagismo senza mai at-taccarlo come un sintomo – le ragioni del comportamento quasi muto degli analisti riguardo a una patologia psicosomatica sorella dell’onicofagia e dell’etilismo.

L’argomento è stato affrontato fin dal 1922 da alcuni psicoanalisti, ma non troppi – se si considera che tre di essi pubblicano sulla stessa rivista nell’arco di un solo anno – come si può notare nel breve elenco a fondo pagina.

È arcinota tra gli psicoanalisti la passione di Sigmund Freud per i sigari e lo sanno anche i non addetti ai lavori: il maestro di noi tutti appare nelle fotografie più diffuse in compagnia dell’amato sigaro.

Secondo Ernest Jones, suo biografo e discepolo, Freud fin da giovane ne fumava almeno venti al giorno. A 38 anni, nel 1894, il suo medico Fliess riscontrando un disordine del ritmo cardiaco gli prescrive l’astensione dal fumo. Sarà perché Fliess era anche un amico e quindi poco carico di ascendente transferale, sarà perché Freud preferiva il fumo alla depressione, sta di fatto che continuò a fumare fino alla morte. Questa tesi è avvalorata da un suo scritto, sempre citato da Jones:

“Subito dopo aver smesso di fumare, ci sono stati alcuni giorni tollerabili… Poi arrivò im-provvisamente una grave crisi cardiaca, peggiore di quelle che avevo avuto quando fumavo… Ed insieme un umore angosciato in cui immagini di morte e scene di addio rimpiazzavano le abituali fantasie… I disturbi organici sono diminuiti negli ultimi due giorni, ma l’umore de-presso continua… È spiacevole per un dottore che deve preoccuparsi per tutto il giorno di ne-vrotici non sapere se egli stesso soffre di una depressione giustificata, oppure di ipocondria.

Certamente Freud non avrebbe mai immaginato che tren-t’anni dopo Italo Svevo ne La co-scienza di Zeno, il primo romanzo psicoanalitico italiano, potesse descrivere magistralmen-te la nevrosi di un fumatore con angosce e malinconie molto simili a quelle da lui patite.

Apprendiamo ancora da Jones che Freud riprende a fumare dopo solo sette settimane. In se-guito smetterà di fumare per quattordici lunghi mesi, ma “…poiché la tortura da sopportare era al di là di ogni umana possibilità…” tornerà ai suoi sigari.

A quarantacinque anni Freud fuma ancora 20 sigari al giorno nonostante un aumento di a-ritmie cardiache e dolori anginosi. Qualche anno dopo, in una lettera a Karl Abraham, confessa che il tabacco ostacola le sue ricerche psicoanalitiche. Ma neanche questo terrore – che lo preoc-cupava sicuramente più della sua salute – riuscirà a farlo smettere.

Quando nel 1923 subisce il primo di ben 32 interventi chirurgici al palato a causa di un cancro sicuramente provocato dal fumo, nemmeno questa grave patologia lo convincerà a smettere di fumare.

Leggiamo in La droga di Giancarlo Arnao che si fece confezionare per un certo periodo dei sigari a basso contenuto di nicotina, e insoddisfatto li abbandonò presto tornando a quelli abitua-li nonostante si aggravassero i suoi problemi cardiocircolatori.

L’alternarsi di brevi periodi di astensione con lunghe stagioni di terapia tabagica è costante. A settantatré anni prova a smettere dopo un ricovero in ospedale, ma dopo appena ventitré gior-ni tornerà ai suoi amati sigari che lo sosterranno, insieme alla morfina, per il resto della sua vita.

Quando la mandibola dovette essere asportata e sostituita da una protesi, con atroci dolori e difficoltà nel parlare e per nutrirsi, i sigari diventarono una specie di consolazione. Quasi per giustificarsi di aver ripreso, dopo un ennesimo periodo di astinenza (appena un giorno!) in una lettera inviata a Sandor Ferenczi arrivò ad attribuire ai sigari la capacità di lenire il dolore al palato e di produrre un fantastico effetto sull’umore – tutto grazie all’imprevisto e propizio dono da parte di un paziente di ben cinquanta sigari!

Freud era solito fumare un tipo di sigaro chiamato trabucco, di piccole dimensioni, piuttosto dolce, considerato il migliore tra quelli venduti dal monopolio austriaco. Ma i suoi preferiti erano i cubani Don Pedros e i Reina che si procurava durante le vacanze in Baviera. Gli piace-vano anche i Liliputanos olandesi. In tarda età, quando viaggiava molto meno, chiedeva sempre ad amici e colleghi di procurargli i suoi sigari preferiti.

Poco prima di morire, in occasione del settantaduesimo compleanno di suo fratello, Alexan-der Freud, regalò a questi tutta la sua riserva di sigari invitandolo a indulgere nel piacere del fumo di cui lui non avrebbe potuto più godere a lungo.

Nonostante tutto il simbolismo legato all’aspetto orale descritto per primo proprio da Freud, gli viene attribuita la frase che “un sigaro qualche volta è soltanto un sigaro”

Max Schur nel libro Vivere e morire racconta che Freud inventò per i sigari la parola arbei-tsmittel, traducibile in italiano come strumento, mezzo di lavoro giocando sul termine tedesco lebensmittel (generi, mezzi alimentari).

Lo psicoanalista-allievo Raymond de Saussure nel suo libro di memorie Freud as we knew him ipotizza che l’odore del sigaro stabilisse una specie di connessione sensoriale tra il terapeuta e il paziente disteso sul lettino durante la seduta. A ciò si aggiungeva che nell’atmosfera buia del suo studio si stagliava una intensa luce brillante proveniente non dalla finestra ma dalla sua mente lucida… Il contatto era stabilito soltanto dalla voce di Freud e dall’odore dei suoi sigari fumati senza sosta.

Pazzi per il cinema – Follia, psichiatria, psicologia e psicoterapia nel cinema italiano

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 51, Roma, Di Renzo Editore, 2002 – Estratto

La primissima esperienza cinematografica del padre indiscusso della psicoanalisi Sigmund Freud avviene in Italia. In una lettera da Roma datata 22 settembre 1907, egli comunica alla famiglia questa sua avventura:

Miei cari,

in piazza Colonna, di fronte alla quale risiedo, come sapete, migliaia di persone confluiscono ogni notte. L’aria della sera è veramente deliziosa: il vento di Roma gode di fama meri-tata. Di fronte alla colonna c’è una banda militare che suona ogni notte, e sul tetto di una casa, sul lato opposta della piazza c’è uno schermo su cui la Società italiana [si tratta della Cines] proietta immagini di lanterna magica (fotoreclami). Si tratta di pubblicità, ma per ingannare il pubblico le lastre alternano anche immagini di paesaggi, negri del Congo, ar-rampicate sui ghiacciai e così via. Ma dal momento che questo non è sufficiente, la noia è interrotta da brevi scenette cinematografiche per amore delle quali i vecchi bambini (incluso vostro padre) sopportano con pazienza la pubblicità e le monotone fotografie. Tutti sono colpiti da queste leccornie, ma in ogni caso io sono spinto a vedermele molte e molte volte.

Quando è il momento di andarmene, scopro una certa tensione nella folla, che mi fa guardare di nuovo e rimanere nella speranza di vedere un nuovo spettacolo. Fino alle nove di sera, in genere, rimango completamente ammaliato; poi comincio a sentirmi troppo solo in mezzo alla folla, così me ne torno nella stanza per scrivere a tutti voi dopo aver ordinato una bottiglia di acqua fresca”. (citato da Gian Piero Brunetta, Buio in sala, Marsilio, 1989, Venezia)

E fu soltanto un anno dopo in America che Freud, insieme a Jung e a Ferenczi, prima di iniziare il ciclo di conferenze che rappresentava la ragione del viaggio, tornò al cinema per vedere un film di caccia grossa. (come ricordano Simona Argentieri e Alvise Sapori in Freud va a Hollywood, Nuova ERI ed. RAI, 1988, Torino).

Se Freud va a Hollywood, Jung si aggira a Cinecittà. Il merito è di Carlo Lizzani che nel 1991 racconta nel film “Cattiva” la storia di una avvenente e ricca signora svizzera affetta da una presunta schizofrenia insorta dopo la morte della figlioletta.

La pellicola è quasi interamente girata in una ricostruzione del Burgholzi, la clinica dove la-vora il giovane Jung. Questi, alla luce dei suoi studi ancora ispirati al maestro viennese, riesce a guarirla liberandola dall’ossessione del senso di colpa ingiustificato instauratosi con la tragedia. L’episodio è ispirato da un racconto contenuto nella autobiografia di Jung Ricordi, sogni, e riflessioni (Rizzoli, Milano, 1978). Lizzani non solo è il primo regista italiano che si occupa di Jung, ma annovera altre frequentazioni psicoanalitiche. Nel 1983 aveva già firmato l’interessante “La casa del tappeto giallo” tratto da una commedia di Aldo Selleri. La scelta di Giuliana De Sio nel ruolo di una borghese zurighese, è decisamente felice in Cattiva così come lo è quella di Vittorio Mezzo-giorno nel ruolo del marito di “La casa del tappeto giallo” (’83) che, per guarire la moglie dagli incubi notturni, ricorre a una coppia di veri psichiatri-attori per imbastire uno psicodramma. Ma nonostan-te le buone intenzioni del protagonista e la bravura dei “professionisti” il dramma esiterà in tragedia.

Da notare che in entrambi i film sono presenti sia Erland Josephson, attore prediletto da Bergman, sia Milena Vukotic, sempre perfetta in caratterizzazioni psicodrammatiche. E ancora: la sceneggiatura di Cattiva è stata scritta da Francesca Archibugi che ci regalerà solo due anni dopo l’intenso Il grande cocomero (’93) ispirato a esperienze vere del neuropsichiatra infantile Marco Lombardo Radice, precocemente scomparso. Film quest’ultimo che affronta l’universo infantile con la giusta dose di coraggio e utopia e, pur nelle incertezze dei risultati, consente al medico di operare con passione lodevole e ce lo mostra in tutti i suoi limiti umani.

L’esordio della giovanissima Archibugi, a soli 27 anni, è con una vera perla cinematografica “Mignon è partita” (’88): una storia di educazione sentimentale. Torna nel 1998 alla psicologia adolescenziale con “L’albero delle pere”, dove un quindicenne, Siddharta Pelosi si ingegna, nella assenza e noncuranza più totale degli adulti, per aiutare la sorellastra Domitilla feritasi con un ago di siringa utilizzata dalla comune madre tossicodipendente.

Facendo un balzo indietro nel mondo della cinematografia psicoanalitica italiana troviamo, nel 1968, il medico regista e poeta Nelo Risi che realizza, dal libro di Marguerite Andrée Sechehaye, Diario di una schizofrenica, film che è stato meritevole, all’epoca, di segnalazioni internazionali. Così scrive Morandini di questa pellicola “È uno dei rari film di contenuto psicanalitico corretti, accettabili ed emozionanti”. Forse perché si è giovato della consulenza di un grande psicoanalista italiano, Franco Fornari (allievo di Musatti) e della collaborazione di un sensibile e acuto sceneggiatore, e regista a sua volta, Fabio Carpi.

Sicuramente è Fabio Carpi il regista che meglio si è preoccupato di trasferire sullo schermo aspetti della psicoanalisi italiana freudiana sia dal punto di vista della documentazione che da quello della rappresentazione cinematografica. Per incarico dell’Istituto Luce cura nel 1985 Cesare Musat-ti matematico veneziano, sessanta minuti di intervista al più vecchio e famoso psicoanalista italiano. Sulla scorta di una esperienza come questa e forte della sua preparazione psicoanalitica realizzerà nel 1988 Barbablù, Barbablù, film che si avvale dell’interpretazione di grandi attori come John Gielgud (nel ruolo dell’anziano psicoanalista) e Susannah York. Sentendosi prossimo alla fine un luminare della psicoanalisi chiama a raccolta nella sua magione sul lago di Como i più stretti familiari, l’allievo prediletto e finanche una troupe televisiva. Nessun dubbio che si tratti di un’opera ispirata a Musatti la cui frequentazione ha consentito all’autore di descrivere, con tocco magistrale, splendori e miserie di un grande vecchio che per tutta la vita ha interpretato sogni e confortato anime dimenticandosi ogni tanto di se stesso e dei suoi cari. Da una forte miscela di tematiche che comprende rapporti con i figli e relazioni con le mogli, rampogne con gli allievi e narcisismo dilagante, vita professionale e privata, emerge un ritratto poliedrico di un uomo difficile e speciale. Mi sembra quasi un film per addetti ai lavori, non tanto per il valore innegabile della pellicola, ma per la impossibilità di completo godimento da parte del comune spettatore laddove invece chi è del ra-mo riesce a cogliere le sfumature più nascoste.

Una scelta di modelli della collezione anglosassone inverno 2000-2001 dedicata a scrittura e psicoanalisi

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 50, Roma, Di Renzo Editore, 2001 – Estratto

Paul Auster è uno dei miei beniamini. Non mi sembra vero trovare un suo scritto nella raccolta Shrinks. In prima lettura It don’t mean thing mi lascia perplesso perché non trovo alcun nesso con il tema della raccolta, ma la sua brevità, solo cinque pagine, mi invoglia a riesaminarlo.

Chi conosce il suo stile è abituato a intrecci e trame che hanno, con una certa costanza, risvolti a metà strada tra la risoluzione di un giallo e la scoperta di un problema psicologico. Auster, con la seduzione di chi sa davvero raccontare comprime, in questo Non significa niente, tre storie in una per dare un senso alla casualità che lega tempi e personaggi diversi. Ho la netta sensazione che l’autore abbia consegnato all’editore alcune pagine strappate a caso dal proprio diario: una del periodo che corrisponde al tempo in cui sua figlia di dodici anni combatte con la matematica, un’altra del 1968 e la terza dell’ottobre 1999. Questi ricordi personali arrivano fino ai suoi nonni, ad Antoine de Saint-Exupery e al civico 240 Central Park South di Manhattan, dove sembra che l’autore del Piccolo Principe abbia scritto il suo capolavoro. Potrebbero essere ordito e trama di adolescenza e maturità di uno scrittore, proprio di Paul Auster, ma se mi domando la ragione di questo contributo in una pubblicazione monotematica sulla psicoanalisi, non trovo altro appiglio se non quello della sincronicità. Un impasto di sincronicità spudoratamente junghiana lega questo minestrone di eventi acausali in modo gradevolissimo.

Uno scrittore cui viene delegato il compito di organizzare una mostra su Matisse e che non riesce a procurarsi il dipinto più importante perché introvabile. Un poeta in disgrazia che viene aiutato attraverso una colletta di scritti destinati alla pubblicazione di un volume per collezionisti. Una canzone che intona un momento magico tra padre e figlia, quasi un segnalibro di una pagina importante della loro vita.

La canzone It don’t mean a thing if it ain’t got that swing – che è anche in parte il titolo del racconto – ricompare, peregrina, in una strisciolina di carta che scivola dal libro dello scrittore esperto di Matisse. Lo stesso scrittore esperto in Matisse scopre che il dipinto agognato ha penzolato per anni a cinque metri dal proprio letto, nell’appartamento sopra a quello dove era solito alloggiare, all’Hotel Carlyle di New York.

Un insieme di eventi non causali che, magnetizzati nella penna di Auster, trovano una coincidenza tra i fatti esterni e le emozioni, esprimendo in letteratura il concetto della sincronicità senza mai nominarla. Magia della letteratura.

Il fattore R. Aspetti di rinascita in storie di celluloide, carta, anima e carne

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 49, Roma, Di Renzo Editore, 2001 – Estratto

Qualche volta bisogna addirittura incarnarsi nel nemico per sopravvivere, vestire i panni di Mr. Hyde nascondendo il buon Dr. Jekyll agli occhi dei più. Forse soltanto così capiremo, come dice Jung, che non facciamo nient’altro nella nostra vita che imbatterci in tanti altri noi stessi con diverse maschere.

E se invece queste maschere fossero le nostre reincarnazioni?

A questo quesito può rispondere la terapia dell’ipnosi regressiva alle vite passate proposta dal dottor Brian Weiss, uno psichiatra di Miami, Florida, che ha rispolverato l’antico metodo catartico con una sua paziente di nome Catherine che aveva in terapia psicoanalitica. Il risultato di questa cura è raccontato nel libro Molte vite, molti maestri del 1988. Come sempre per una buona ipnosi occorre che il nostro candidato si disponga tranquillamente al lavoro e tutto procederà quasi automaticamente.

Ogni vero ipnotista sa che non esistono gli ipnotizzatori ma soltanto gli ipnotizzati. È Catherine stessa a condurre il veicolo del ricordo e, mediante la trance, farà scoprire al suo terapeuta notizie e conoscenze davvero metafìsiche. Giungerà perfino a riconoscere in lui qualcuno che ha sempre conosciuto nell’arco di secoli come padre, fratello, amante e adesso come medico. La lezione di amore, perdono, e comprensione che pervadono questo caso clinico oltre i limiti del paranormale, conducono la paziente a una serena guarigione, e lo psichiatra a perseguire questo cammino.

Arthur Schnitzler come psicologo

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 47, Roma, Di Renzo Editore, 2000 – Estratto

SchnitzlerVorrei perciò disseppellire dall’oblio lo psicologo Arthur Schnitzler. Non so quanti di Voi ricorderanno però che, a differenza di altri scrittori, il suo confronto con la psicoanalisi si è articolato attraverso una ricerca squisitamente artistica che non si è accontentata di assorbire ed elaborare personalmente solo gli studi di Freud, ma, come un perturbante suo fratello, ha condotto alla scoperta di una speciale terra di nessuno definita medioconscio e utilizzata dalla sua creatività. Il medioconscio, chi è costui? Lasciamone la descrizione allo stesso Schnitzler:

“La psicoanalisi parla di conscio e inconscio ma trascura, secondo me, la zona intermedia, quella del medioconscio., che costituisce il territorio più enormemente esteso delal vita psichica e spirituale, da lì gli elementi salgono ininterrottamente verso il conscio, o precipitano nell’inconscio.”

La mia ipotesi è che Schnitzler abbia voluto comunicarci che il medioconscio sia accessibile unicamente agli artisti. Questa no man’s land, che dobbiamo credere appartenga solo agli artisti, ci consente di entrare nelle zone più segrete della nostra vita.

Jung e Joyce, probabilmente…

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 46, Napoli, Liguori, 1999 – Estratto

Joyce deve aver pensato che, se Jung non era in grado di interpretare l’Ulisse, non era neanche in grado di comprendere Lucia. Joyce discusse più volte il caso della figlia con Jung. In una di queste conversazioni, Jung gli disse che lui, Joyce, era il solo in grado di venire a capo di qualcosa con la figlia, dal momento che questa era un caso eccezionale che non si prestava a una cura psicoanalitica. Anzi una cura psicoanalitica avrebbe potuto condurla a una catastrofe.

Noi crediamo che, come spesso accade, Joyce non riuscisse a rassegnarsi alla inarrestabile corsa verso la follia della figlia e, pur odiando chiunque propugnasse questa tesi, si fosse intimamente arreso all’evidenza. reputava, per lo stile con cui Joyce scriveva, che questi fosse in potenza uno schizofrenico e che la figlia lo fosse di fatto, e che costituisse pertanto una sorta di femme ispiratrice del padre. Joyce si identificava tanto in Lucia, che il farla dichiarare malata sarebbe stato un indiretto ammettere una propria latente psicosi. Jung osserva che i due erano come una coppia che affonda in un fiume, ma con una sostanziale differenza: Lucia perche vi cade e ]ames perche ci si tuffa. Questa la tesi di Ellmann.

Crediamo quindi che Jung, pur consapevole del genio di Joyce, riconosce che è difficile per qualunque padre accettare, sia anche il più grande scrittore del secolo, la pazzia della propria figlia. Le stravaganze e le produzioni letterarie di Lucia venivano esaltate dal genitore come originalità vitale ed artistica, ma Jung analizzandole correttamente le etichetterà come incontrovertibile dimostrazione di schizofrenia.

Freud e Proust, contemporaneamente…

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 44, Napoli, Liguori, 1998 – Estratto

Freud è un uomo apertamente ambizioso. Proust è un dandy che adula Anatole France.

Freud lotta con il tempo: ha fretta di dimostrare a se stesso e al mondo il proprio valore. Proust sembra infischiarsene del tempo, lo spreca tra cose futili, viaggi e vacanze in località alla moda.

Sigmund ha un’intuizione geniale: non è l’ipnosi che onsentirà di guarire i malati di mente, ma qualcosa che deriva da lei, il transfert. Occorre però situarlo nel tempo. Il tempo dell’analisi: lungo, faticoso, utile, indispensabile. Così emerge l’inconscio. Dal tempo del sonno, dal tempio del sogno. Dai tempi dell’analisi: precisi, rigorosi, rigidi. Dalle parole scandite dal tempo, che lente o veloci scivolano spesso nei lapsus. Dalle pause del ricordo, dai legami bizzarri della memoria che si chiamano associazioni verbali.

La scoperta di Marcel non è meno formidabile: il tempo comunque spesso non si perde. Il tempo può essere ritrovato per sempre. Come? Anche soltanto immergendo una madeleine in una tazza di tè, oppure allacciandosi le scarpe sul gradino di una chiesa a Venezia. Ecco le intermittenze del cuore. Ritrovare, recuperare in momenti inaspettati e magici tutto quanto si è vissuto inconsapevolmente, incerti di essere stati in quel tempo vivi sul serio. E sappiamo di esserlo stati davvero appena ci accorgiamo di questo stato di grazia che ci conduce al centro di un universo, personale e globale.

Dunque Proust e Freud hanno lavorato con lo stesso obiettivo: restituire all’esistenza umana la consapevolezza di vivere veramente il tempo, attraverso il tempo.

Il silenzio anima la trance

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998

Che cosa fa il metodo ipnotico che noi adottiamo secondo gli insegnamenti di Rossi? Induce alla produzione silenziosa e spontanea di un sintomo. Invitiamo il nostro assistito neofita della ipnonautica a sedersi su una comoda poltrona di fronte a noi; gli mostriamo come sollevare le sue mani e come sperimentare in silenzio l’ascolto delle “voci di dentro” attraverso una facile bipolarità.

Gli facciamo vedere come si fa. Contrapponiamo le nostre mani, l’una di fronte all’altra come se stessimo per applaudire ma non subito, con una distanza di 20 centimetri fra di loro. Proviamo. Silenzio. Avvertiamo forse un magnetismo che le fa combaciare? O una forza che le fa distanziare? Restano ferme? Aspettiamo. Pazienza. Silenzio. Un’altra possibilità: alziamo le mani come fossero due piatti di una bilancia e scegliamo di posare il nostro cosiddetto sintomo-guida manifesto (ansia?, tachicardia?, paura?, insonnia? tic?, blefarospasmo?…) su una delle due.

E’ consigliabile operare sempre con un dualismo di scelta: una mano rappresenti l’inconscio, l’altra l’intelletto. Elementare come un democrazia che si rispetti. Due poli, uno che governa, l’altro all’opposizione. Chi prevale? Perché comanda? Che cosa ha da dire la destra alla sinistra? Sarà la sinistra troppo eccessiva, rivoluzionaria, idealista? O è la destra troppo saggia, conservatrice, borghese? Destra e sinistra non sono soltanto ideologie politiche.

“La mano destra non sappia quello che fa la sinistra” mi ripete sempre mio padre per intendere che se si fa del bene non bisogna vantarsene né pentirsene; perché la mano sinistra rappresenta il sentimento, la pietas, la compassione, la generosità mentre la destra calcola, è saggia, è un ragioniere che scrive e sa di conti ma sa poco dell’amore.

Bisogna però cercare una convivenza armoniosa. Ecco allora in ipnosi le prime tre fasi: sensazione, sentimento, illuminazione. All’inizio ci si può accorgere che una mano diventa più pesante. Da questa sensazione scatta la riflessione su un sentimento ispirato dalla pesantezza e in terza battuta arriva l’illuminazione: “focalizzo il mio problema!” Tutto accade in silenzio.

L’ultima fase, quella della verifica, del pensiero collegato ad un’azione, un proponimento per esempio su come risolvere il problema, può essere affrontata in due modi: con la collaborazione dello psicoterapeuta al quale si comunica l’insight oppure conservando ancora il silenzio finché si vorrà su quel che si è deciso.

Pascal dice che “l’anima ama le mani” (ma provate a pronunciarlo in francese e otterrete un suono onomatopeico dolcissimo: l’ame aime les maines dove amore prevale).

Forse è proprio in ragione di ciò che il pioniere di questa tecnica, Ernest Rossi, ha scelto le mani per far parlare l’inconscio in trance.

Come l’anima, anche la trance ama le mani. Dalle mani che l’ipnonauta muoverà come un timone dell’inconscio si può passare naturalmente alle più varie regioni somatiche.

Transcelluloide. Ragioni e storia della trance cinematografica

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 40, Napoli, Liguori, 1996 – Estratto

Gli aspetti dei quali ci occuperemo in questo scritto sono i due tipi di trance cinematografica, che sono la trance del cinema e la trance al cinema. Intendiamo per trance del cinema quella che investe lo spettatore cinematografico e che ne comporta uno stato modificato della coscienza indotto dalla visione di un film.

Per trance al cinema (o nel cinema) ci riferiamo invece ai film che direttamente rappresentano fenomeni di trance ipnotici agiti o subiti dai personaggi del film.

Tratteremo dunque nell’ordine dapprima la trance che coinvolge lo spettatore, e quindi stileremo un elenco ragionato e storico della trance ipnotica in pellicola.

Georges Lapassade definisce la transe (non è un refuso, questo autore preferisce usare sempre il termine transe anzichè trance, perchè ritiene che sia l’unico etimologicamente giusto, proveniente da trans-ire) “uno stato alterato della coscienza culturalmente elaborato”; questa configurazione della trance (noi continueremo a scriverla così perchè ci sembra strettamente legata al fenomeno filmico, onirico, rem, 24 immagini al secondo che colpiscono i nostri occhi: trancelluloide) ci tornerà assai utile per il discorso intrapreso.

La nostra personale definizione dell’ipnosi (se c’è trance c’è ipnosi, cioè uno stato ipnagogico che ci consente di ritirarci in noi stessi, più o meno velocemente, separandoci completamente dal mondo esterno, un pò come avviene al cinema), è che si tratti di uno stato alterato della coscienza che consente, in diversi modi, e con tempi variabili, una rapida comunicazione del Soggetto con cui si lavora, in accordo comune, in seguito a una sincera e spontanea, forse necessaria, richiesta di aiuto, che definiamo, tout court, terapeutica.

Ora crediamo che il lettore si sia accorto che questo assunto sia proprio quanto si verifica anche al cinema. Ci rechiamo al cinema non certo per ottenere una terapia vera e propria, ma desideriamo abbandonarci a una forma di rilassamento, in base a una richiesta incontrovertibile di lasciare fuori di noi il mondo esterno e penetrare invece in un mondo virtuale. Infatti il cinema crea per lo spettatore uno spazio virtuale con tutte le caratteristiche evocanti la realtà, ma soltanto virtuale, come il sogno.

Altri amori

Con: Cloris Brosca, Paolo De Vita, Bianca Nappi, Davide Gagliarrdini – Regia: Marcello Cotugno – Teatro dell’Angelo – Roma

L’accorto fruitore del web che entrasse nel nostro sito e decidesse di andare alla sezione Recensioni, noterebbe che quelle attinenti al teatro

vertono prevalentemente sui pezzi portati in scena attraverso la regia di Marcello Cotugno. Potrebbe, l’accorto fruitore domandarsi perché.. e magari ipotizzare – se informato dei dinamismi psichici che influenzano scelte e comportamenti – dedurne e / o ipotizzare – nel recensore una Cotugno /dipendenza.

Questa lieve ed anche un poco autoironica premessa per spiegare la prevalenza – nelle recensioni da me fatte – delle notazioni sull’opera registica di Cotugno.

C’è una duplice motivazione:

da un lato il caso e la vita mi hanno fatto stringere un patto di stima con il regista de quo;

dall’altro lato, il mio mestiere e la mia equazione personale di giudizio mi hanno portato e mi portano ad una lettura diacronica della realtà.

Perché osservare la realtà nel qui e ora e contemporaneamente tenere presente il sentiero che i vari dati attuali hanno percorso nel tempo, consente di cogliere elementi rilevanti.

E spesso utili.

Esempio recente: si è data ieri l’ultima rappresentazione di Amori diversi, al Teatro dell’Angelo, in Roma.

In-consuetamente, l’ultima rappresentazione – che di norma vede un pubblico esiguo – godeva di una platea quasi piena.

Inevitabile chiedersene la ragione… e facile trovarla.

Marcello Cotugno nella qualità di regista ha svolto e continua a percorrere una strada non facile: persegue la qualità, anche accettando di portare in scena i propri prodotti in mercati di nicchia, selettivi, non cercando la standing ovation del grande pubblico di massa.

Ed in questa strada Cotugno ha riversato e riversa le acquisizioni esistenziali che progressivamente caratterizzano il suo percorso di Uomo.

Accennavo al fatto che Cotugno predilige il prodotto di qualità e questa sua attitudine lo ha portato a confrontarsi con tematiche mai facili: la depressione, la homeless-life, la mancanza di senso del vivere quotidiano che assai spesso alberga nell’uomo comune e via via sino alle radicali tematiche connesse con la ricerca di senso e con la morte.

Basta ricordare, per fare scarni esempi, Anatomia della morte di.,., Gli amici di Matt, Looking at you (revived) again,,

o Un pensiero per Olga…

In Altri amori, Cotugno si è cimenta con la tematica dell’omosessualità.

Tema all’ordine del giorno oggi, e assai spesso focus di vari polveroni mediatici.

Se un tempo l’omosessualità era segreto / vergogna / stigma, oggi assistiamo ad un ribaltamento nell’opposto: l’omosessualità ha subito un processo di normalizzazione.

Vari elementi, epocali, sostanziali e formali, hanno portato alla mutazione del pensare / sentire collettivo.

Possiamo dire – junghianamente – che nel pezzo sopra citato Cotugno ha saputo attuare una mediazione degli opposti.

Altri amori si configura in una serie di brevi sketch che vertono sulla omosessualità maschile e femminile, ed anche sulla risposta che tale orientamento dell’identità sessuale suscita nei vari contesti: famiglia, mondo del lavoro.

Il risultato – grazie alla bravura di tutti gli attori e con particolare riguardo a Paolo De Vita – è deliziosamente leggero e allo stesso tempo intelligente.

La verve è alta, non c’è mai una caduta di gusto, la volgarità (rischio difficilmente eludibile) è assente.

Torno alla mia visione diacronica per dire che si avverte in Altri amori la crescita dello stesso Cotugno.

Come regista e come uomo.

Alcuni elementi sono rimasti costanti nel tempo, altri sono variati ed evoluti.

Costanza nella predilezione di una scenografia un poco cupa, nei fondali spesso neri, nell’utilizzo sapiente dell’elemento luce che spesso squarcia la cupezza del nero per illustrare un gesto, un sorriso, la mimica dell’attore; costanza nella pregnanza / adeguatezza della colonna sonora e della base musicale.

Variazione nella tonalità emotiva: se i primi pezzi storici passavano allo spettatore un messaggio di s-consolatezza del vivere, di in-sensatezza dell’esistere, man mano e in crescendo il messaggio è divenuto più rassicurante.

Penso al recente My Background, in cui il ritratto generazionale di chi ha vissuto gli anni “80 – oltre a consentire una ricostruzione storica del passato prossimo da molti di noi vissuto in prima persona – avanza e concretizza anche una ipotesi produttiva: si può perdere – e poi ritrovare il Senso.

Bravo Cotugno.. vai avanti così.