SAB 14 APR | Convegno Psiche a Teatro

ROMA – SABATO 14 APRILE 2018
Enoteca Letteraria, via delle Quattro Fontane 130
INGRESSO LIBERO FINO A ESAURIMENTO POSTI

Psicoanalisti, psicologi, drammaturghi, attori, critici e cultori della materia conversano sull’arte della commedia e della tragedia e si alternano alle performance di scrittori e attori di solida formazione psicologica e psicoanalitica.

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Per questioni organizzative, è gradito un cenno di conferma di presenza.

Gli atti del convegno saranno pubblicati sul numero 8 di Psiche Arte e Società dal titolo “Psiche a Teatro” e disponibili il giorno del convegno. Solo per il giorno del convengo la sottoscrizione dell’abbonamento 2018 sarà in offerta a € 20,00 invece di € 25,00.

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Note per Liquido – Frammenti di pensiero a partire da un ossimoro

Scena#1

GUIDO

Sì, certo, scusi… dunque…  (come ricordando) all’inizio ho avuto molta paura, è stato proprio come vivere…una specie di morte, mi scusi l’ossimoro…(pausa, la donna non ha nessuna reazione)[1].”

Leggendo il copione di Liquido, è proprio questo ossimoro[2] (che Marcello Cotugno e Irene Alison giustamente evidenziano ) a catturare la mia attenzione.

Al proposito, mi viene in mente  quanto scritto da Jorge Luis Borges[3]:

“Nella figura retorica chiamata ossimoro, si applica ad una parola un aggettivo che sembra contraddirla; così gli gnostici parlavano di una luce oscura; gli alchimisti di un sole nero” Continua a leggere…

Chi ha paura di Edward Albee? (Da Chi ha paura di Virginia Woolf? a Tre Donne Alte)

dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Spero ricordiate tutti una tremenda e fantastica coppia del cinema e del teatro e finanche della vita: Elizabeth Taylor e Richard Burton, grandi attori, fenomenali bevitori, splendidi amanti, impareggiabili litigiosi sia sullo schermo che nella realtà. (La Bisbetica Domata non poteva che aspettare loro al cinema). Questa coppia superlativa ha fatto parlare di sé sia per i successi conseguiti insieme sia per la furibonda passione che li ha caratterizzati; sbronze colossali, matrimoni, divorzi, fidanzamenti e ancora matrimoni, che hanno contratto ripetutamente e il più delle volte fra di loro. Per buona pace dei nostri lettori non continueremo in una cronaca rosa postdatata. Vogliamo solo presentare un geniale e terribile figlio adottivo. Che ha scritto due capolavori del teatro di questo secolo. Il primo si chiama Chi ha paura di Virginia Woolf? del 1962 che ha avuto un incredibile numero di repliche ed é stato immortalato per lo schermo proprio dalla coppia Burton-Taylor per la regia di Mike Nichols e che ha fruttato nel 1966 l’Oscar alla bisbetica e indomita Liz e a Sandy Dennis, futura attrice altmaniana. Il secondo, Tre donne alte, è stato scritto nel 1991, dopo quasi trent’anni di sopore creativo, rappresentato in un teatrino sperimentale della 15ma strada, ha vinto nel 1994 il premio Pulitzer. Come non volevamo fare commenti da rivista patinata prima, così ora non desideriamo fare opera di critica teatrale. Quello che ci interessa a proposito di queste opere è un aspetto delicato e spietato contenuto in entrambe. Si tratta del rapporto genitori-figli.

Ci occorre riassumere brevemente il contenuto delle due commedie, che insieme rappresentano un vero trattato di psicopatologia quotidiana della coppia con e senza figli. In Virginia Woolf un opaco professore universitario cinquantenne sposa la figlia viziata del preside della facoltà e ne disattende le aspettative di diventare a sua volta preside, ospita insieme alla moglie-arpia in una serata alcolicissima una giovane coppia, anch’essa universitaria, lui professorino ambizioso, lei tenera, fragile e fresca sposa affetta dall’angoscia della gravidanza vissuta come induttrice di atroci patologie. In un crescente gioco di massacro la coppia anziana si procura dapprima le ferite più cocenti rinfacciandosi debolezze e colpe lontane e presenti per poi coinvolgere i due attoniti pivelli. Sembrano entrambe coppie senza figli, ma ad un certo punto viene fuori un’invenzione tragica: un presunto figlio della coppia più vecchia e più alcolemica viene tirato fuori soltanto per essere ucciso, sempre nell’invenzione, in un tragico incidente, trascinando i due inconsapevoli alla finestra del loro probabile baratro.

In Tre donne alte, recentemente visto anche in Italia per la accorta e sensibile regia di Luigi Squarzina, dopo l’enorme successo americano, si parla di tre donne e si scopre che non sono nient’altro che le tre età di una sola donna, divisa in tre per ragioni drammaturgiche, come Le Tre Età di Casorati, i Sussurri e grida di Bergman, le Tre Donne di Altman. Il partner maschile è assente sulla scena ma si parla di lui (malissimo). Un figlio presente nell’azione drammatica per poco tempo, non parla mai.

Se come dice Keats di Shakespeare ogni drammaturgo è un camaleonte che si trasforma nelle sue creature, qui le creature della vita del drammaturgo lo assillano non per essere trasformate, ma trasportate dalla realtà sulla scena; così il commediografo americano affonda il coltello nella piaga delle relazioni genitori-figli.

Vediamo in queste opere che cosa riesce a fare la sofferenza di un bambino rifiutato dai genitori biologici e adottato dai ricchissimi Albee, eredi di teatri di varietà ed impresari teatrali. Dopo aver vissuto, come tutti i rampolli di famiglie alto-borghesi, un’adolescenza protetta, comoda e ottusa, Edward Albee, oggi sessantottenne, sempre sessantottino, rompe con la sua famiglia adottiva dopo aver tentato disperatamente e senza successo di contattare i suoi veri genitori. Il giovane Edward vive le trasgressioni più in voga al Greenwich Village, fa i lavori più modesti, ma vive una vita tutta all’insegna dell’abbandono, accetta i lavori più umili e pratica per un certo tempo l’omosessualità, che non ha speranza né progetti di figli e poche probabilità (almeno negli anni 60) soprattutto di adozione. Abbandona i genitori adottivi quasi come i genitori biologici hanno abbandonato lui, e accetta soltanto un piccolo aiuto di un parente, quasi a farsi beffe dell’immensa fortuna dei secondi genitori. Intanto però si forma come scrittore ed anche come regista dei suoi lavori, cui la fortuna arride assai presto. Scrive Chi ha paura di Virginia Woolf? attingendo a ricordi e fantasie che lo vedono figlio assente, morto senza nascere così come si immagina essere stato per i genitori che lo hanno creato. Dopo trent’anni chiude i conti (o li apre, che è lo stesso) anche con la famiglia adottiva. Quel figlio muto al capezzale della madre vecchissima è forse lui, senza parole, perché non ci sono parole per descrivere la sofferenza di non aver risposto alla chiamata della madre adottiva moribonda.

Non ci sono proprio risposte? Crediamo di sì. Ci piace pensare che l’unica risposta possibile fosse trasformare questo gioco assurdo di amore materno, paterno e filiale che non ha mai recettori e soltanto anticorpi in una rappresentazione drammaturgica che non ha paragoni. Perché non soltanto di questi rapporti si tratta nelle due commedie, ma di molto di più. Il peso dell’esistenza, la sofferenza dell’invecchiamento, i volti dietro le maschere. L’inferno della coppia si può guardare da tutte le angolature, l’agente segreto teatrale Albee ha frantumato ogni muro della sacra famiglia. Nel dittico in questione nulla è risparmiato a questa istituzione. Un piccolo spiraglio di pacificazione sembra ravvedersi nel dolore di tutti, unico lenitivo delle richieste d’amore mai appagate. Su entrambi i lavori si stende un sudario pietoso di accettazione e nient’altro. Una calma catartica ci riveste alla fine dei due drammi, senza vincitori né vinti, senza più frastuono né urla di dolore. Si scorge soltanto in lontananza un sorriso triste sulla bocca del grandissimo Albee che con la pena della sua infanzia difficile ha consegnato alla sua penna creativa innumerevoli coazioni a ripetere le scene di vita familiare nei teatri di tutto il mondo, per rifletterci e farci riflettere.

Altri amori

Con: Cloris Brosca, Paolo De Vita, Bianca Nappi, Davide Gagliarrdini – Regia: Marcello Cotugno – Teatro dell’Angelo – Roma

L’accorto fruitore del web che entrasse nel nostro sito e decidesse di andare alla sezione Recensioni, noterebbe che quelle attinenti al teatro

vertono prevalentemente sui pezzi portati in scena attraverso la regia di Marcello Cotugno. Potrebbe, l’accorto fruitore domandarsi perché.. e magari ipotizzare – se informato dei dinamismi psichici che influenzano scelte e comportamenti – dedurne e / o ipotizzare – nel recensore una Cotugno /dipendenza.

Questa lieve ed anche un poco autoironica premessa per spiegare la prevalenza – nelle recensioni da me fatte – delle notazioni sull’opera registica di Cotugno.

C’è una duplice motivazione:

da un lato il caso e la vita mi hanno fatto stringere un patto di stima con il regista de quo;

dall’altro lato, il mio mestiere e la mia equazione personale di giudizio mi hanno portato e mi portano ad una lettura diacronica della realtà.

Perché osservare la realtà nel qui e ora e contemporaneamente tenere presente il sentiero che i vari dati attuali hanno percorso nel tempo, consente di cogliere elementi rilevanti.

E spesso utili.

Esempio recente: si è data ieri l’ultima rappresentazione di Amori diversi, al Teatro dell’Angelo, in Roma.

In-consuetamente, l’ultima rappresentazione – che di norma vede un pubblico esiguo – godeva di una platea quasi piena.

Inevitabile chiedersene la ragione… e facile trovarla.

Marcello Cotugno nella qualità di regista ha svolto e continua a percorrere una strada non facile: persegue la qualità, anche accettando di portare in scena i propri prodotti in mercati di nicchia, selettivi, non cercando la standing ovation del grande pubblico di massa.

Ed in questa strada Cotugno ha riversato e riversa le acquisizioni esistenziali che progressivamente caratterizzano il suo percorso di Uomo.

Accennavo al fatto che Cotugno predilige il prodotto di qualità e questa sua attitudine lo ha portato a confrontarsi con tematiche mai facili: la depressione, la homeless-life, la mancanza di senso del vivere quotidiano che assai spesso alberga nell’uomo comune e via via sino alle radicali tematiche connesse con la ricerca di senso e con la morte.

Basta ricordare, per fare scarni esempi, Anatomia della morte di.,., Gli amici di Matt, Looking at you (revived) again,,

o Un pensiero per Olga…

In Altri amori, Cotugno si è cimenta con la tematica dell’omosessualità.

Tema all’ordine del giorno oggi, e assai spesso focus di vari polveroni mediatici.

Se un tempo l’omosessualità era segreto / vergogna / stigma, oggi assistiamo ad un ribaltamento nell’opposto: l’omosessualità ha subito un processo di normalizzazione.

Vari elementi, epocali, sostanziali e formali, hanno portato alla mutazione del pensare / sentire collettivo.

Possiamo dire – junghianamente – che nel pezzo sopra citato Cotugno ha saputo attuare una mediazione degli opposti.

Altri amori si configura in una serie di brevi sketch che vertono sulla omosessualità maschile e femminile, ed anche sulla risposta che tale orientamento dell’identità sessuale suscita nei vari contesti: famiglia, mondo del lavoro.

Il risultato – grazie alla bravura di tutti gli attori e con particolare riguardo a Paolo De Vita – è deliziosamente leggero e allo stesso tempo intelligente.

La verve è alta, non c’è mai una caduta di gusto, la volgarità (rischio difficilmente eludibile) è assente.

Torno alla mia visione diacronica per dire che si avverte in Altri amori la crescita dello stesso Cotugno.

Come regista e come uomo.

Alcuni elementi sono rimasti costanti nel tempo, altri sono variati ed evoluti.

Costanza nella predilezione di una scenografia un poco cupa, nei fondali spesso neri, nell’utilizzo sapiente dell’elemento luce che spesso squarcia la cupezza del nero per illustrare un gesto, un sorriso, la mimica dell’attore; costanza nella pregnanza / adeguatezza della colonna sonora e della base musicale.

Variazione nella tonalità emotiva: se i primi pezzi storici passavano allo spettatore un messaggio di s-consolatezza del vivere, di in-sensatezza dell’esistere, man mano e in crescendo il messaggio è divenuto più rassicurante.

Penso al recente My Background, in cui il ritratto generazionale di chi ha vissuto gli anni “80 – oltre a consentire una ricostruzione storica del passato prossimo da molti di noi vissuto in prima persona – avanza e concretizza anche una ipotesi produttiva: si può perdere – e poi ritrovare il Senso.

Bravo Cotugno.. vai avanti così.

My Background

di Alessandro Fea, regia di Marcello Cotugno – Colosseo Nuovo Teatro di Roma, 13 – 22 febbraio 2009.

Alessandro Fea nelle Note a presentazione dello spettacolo scrive: E’ la storia di un ragazzo che cerca qualcosa, forse se stesso, forse la sua vita, forse una risposta a qualcosa che gli è oscuro…è la storia di alcune anime, perse, vissute, logorate…unite forse da qualcosa di invisibile…

Marcello Cotugno nelle Note di regia scrive: …. in un’atmosfera da circo infernale i personaggi cercheranno di affrancarsi da un condizione di stallo in cui la vita li ha portati. Desiderosi della comunicazione, quella finale, quella in cui la pace ristabilisce i suoi confini nella vita e nella morte.

Fea, classe 1969, e Cotugno, classe 1965, si sono efficacemente integrati nello scrivere e portare in scena la storia che parte come manifesto generazionale, muta via via in oscuro thriller, e diviene poi una sorta di rappresentazione misterica dei non troppo lontani anni “80.

Gli anni “80 vedevano la caduta degli ideali: la fine del 68 e del 77 aveva generato il nichilismo, l’autodistruzione, l’eroina; per molti quella realtà andava sfuggita, elusa, negata nella ricerca di uno stordimento anche autodistruttivo.

My Background illustra la scena storica caratterizzata dal fenomeno punk e dark, ma può – nel contempo – dare un messaggio rassicurante: la consapevolezza che si può vivere una fase di distacco dalla realtà, e poi recuperarla nella memoria e nella riflessione, trasformandola in prodotto artistico e quindi in dia-logo.

Così quel background cessa di essere soltanto la fotografia di chi ha vissuto la propria giovinezza negli anni “80 per diventare efficace rappresentazione dei rapporti relazionali e del sartriano inferno senza tempo che si costituisce laddove si perde la comunicazione.

L’inserzione

di Natalia Ginzburg, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Politeama Brancaccio, Sala “ IL BRANCACCINO”Via Mecenate, 2 – 00185 Roma è in scena dal 13 febbraio al 4 marzo 2007 “L’INSERZIONE”di Natalia Ginzburg.

La commedia – scritta dalla Ginzburg nel 1968 – è portata in scena per la regia di Marcello Cotugno, che – con buona e tempistica intuizione – recupera e attualizza un testo fondamentalmente centrato sul tema della Comunicazione.

L’Inserzione è – nella definizione del Dizionario Palazzi – “l’atto dell’inserire”, “l’annunzio a pagamento in un giornale”, “l’avviso pubblicitario”.

Un testo, dunque…poche parole scritte da un soggetto che emette un messaggio indirizzandolo a riceventi noti e/o ignoti…in vista di poter avere una relazione…

Emittente, ricevente, messaggio, relazione…il pensiero torna al tema della Comunicazione e, quasi inevitabilmente, a P. Watzlawick.

La scuola di Palo Alto (G. Bateson, P. Watzlawick, etc.) ha posto l’attenzione sul carattere interlocutorio, contrattuale e pragmatico della comunicazione. (Watzlawich P., 1967)

Si sviluppa una ottica relazionale della Comunicazione, nella quale i rapporti tra i singoli elementi costituenti contano più degli elementi stessi.

La comunicazione è innanzi tutto dialogo; l’attenzione viene focalizzata sul rapporto trasmettitore–ricevitore in quanto mediato dalla comunicazione; la comunicazione è considerata anche come “azione”, modificazione dei comportamenti; “una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento” in quanto comprende l’aspetto di “notizia” (report) e l’aspetto di “comando” (command) relativo alla relazione tra i comunicanti.

Filtrare il testo della Ginzburg attraverso questa ottica, configura un godibile esercizio di comprensione oltre le righe del detto.

“L’inserzione”, come gran parte dei lavori della Ginzburg, s’incentra sul mondo femminile, nel confronto-scontro con quello maschile, sempre osservato con acume ed ironia. Ne “L’inserzione” le storie di un’amicizia fra due donne, di un amore finito e di uno appena cominciato, mettono in campo personaggi che rappresentano diverse modalità comunicative.

Vediamo cercarsi un dialogo che a volte appare concretizzarsi, talaltra si configura come impossibile, divenendo puro sfogo monologante dell’uno a fronte dell’altro che tale sfogo può soltanto subire.

Ma la comunicazione è comportamento… e induce comportamenti….il personaggio che a tratti ci appare passivizzato poi agisce, comunica la propria azione, genera una controreazione….

I tre personaggi, interpretati con brillante incisività da Cloris Brosca, Paolo De Vita e Bianca Nappi tengono ben viva l’attenzione dello spettatore, pur nella voluta normalità di una scena quotidianamente ordinaria.

Un interno quotidiano nel quale, a tratti – grazie anche agli efficaci e lancinanti effetti di luce – pare potersi cogliere l’inferno di una realtà incomunicabile.

L’essenziale e efficace regia di Marcello Cotugno consente agli attori una precisione quasi pittorica, confermata dal plauso – anche a scena aperta – del numeroso pubblico presente.

Uscendo – gratificati dal teatro – ci si pone una domanda. “ e se la Ginzburg avesse conosciuto WatzlawicK?”

Looking at you (Revived) again

di Gregory Motton, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Belli di Roma è in corso – dal 22 marzo e sino al 30 aprile – la rassegna “TREND, nuove frontiere della scena britannica”, a cura di Rodolfo di Giammarco.

La rassegna 2006 persegue il disegno europeo di una libera circolazione di scritture, stili, temi e nuove prospettive teatrali che da Oltremanica vengono a proporci continui spunti che talora ribaltano il noto.

Il testo di Gregory Motton (tradotto da Letizia Russo e portato in scena per la regia di Marcello Cotugno), ben rappresenta il progetto iniziale, arricchito da talune “contaminazioni”.

Ovvero, il materiale originale è stato calato in una realtà italiana, anzi in quel particolare spaccato di cultura costituito dalla realtà partenopea.

Assistiamo così alla godibile osmosi tra una drammaturgia britannica sempre incline a trarre spunto dalla quotidianità che muta e che alimenta sogni disperati e clamorose disillusioni e una sensibilità tipicamente “napoletana”.

Un uomo si dibatte tra un passato coniugale sconsolante (otto figli portati via dalla pubblica assistenza) ed un presente costituito dall’incontro con una giovane “barbona”.

I tre personaggi, interpretati con incisiva schiettezza da Alessia Giuliani, Alfonso Postiglione e Gaia Insenga, tengono ben desta l’attenzione dello spettatore, pur nella cercata monotonia di una scena totalmente grigia.

La vita dei “senzatetto” si dipana in scene rapide, che con efficacia danno il senso ed il polso di una non – vita intrisa di ricordi, aspettative, perdoni possibili, commiati auspicabili. c’è il passato,il presente. non è dato sapere cosa sarà il domani.

Una configurazione di elementi scenici e testuali che potrebbero risultare deprimenti e depressogeni.e che mai tali divengono anche grazie alla vigorosa regia di Marcello Cotugno.

Il grigiore del contesto è a tratti magicamente interrotto e quasi squarciato dall’irrompere di una colonna sonora magistralmente scelta: brani forti, vitali, fortemente emotivi.

C’è – in scena – una carriola grigia, piena di carbone, a testimoniare un passato e perduto lavoro in miniera. ma anche a porsi come metafora e lettura.

Nel grigio/nero del carbone si nasconde una energia potenziale, una fiamma possibile.

Lo spettatore coglie – nella visione e nell’ascolto – la pregnanza di quella energia forte,vitale, sottesa al grigio: forse, anche in quel / questo mondo, possiamo dare spazio al fuoco che rinnova..?..

Certamente lo spettacolo mobilita energia. lo testimonia – al termine – il reiterato batter di mano che più e più volte richiama i protagonisti sul palcoscenico

La forma delle cose

di Neil LaBute, traduzione di Masolino d’Amico, con Lorenzo Lavia Federica Di Martino, Fulvio Pepe Ilaria Falini; scene Carmelo Giammello, costumi Andrea Viotti, luci Marco Catalucci. Regia Marcello Cotugno

La forma delle cose (The Shape of Things), novità per l’Italia, ha debuttato mercoledì 9 novembre al Piccolo Eliseo Teatro Studio. La commedia, che ha registrato per mesi il tutto esaurito a Londra, è il secondo testo rappresentato in Italia di Neil LaBute, drammaturgo, regista e autore cinematografico, classe 1963. Mormone, considerato da molti giornalisti americani e inglesi il nuovo David Mamet.

Lo spettacolo prodotto dal Teatro Eliseo e dalla Compagnia Lavia con Asti Teatro, è un’operazione condotta nel segno del nuovo. Nuovo l’autore, almeno per le scene italiane, Neil LaBute; non nuovo il regista, Marcello Cotugno, che affronta per la seconda volta un testo dell’autore americano.

La vicenda ha inizio in un museo, dove una ragazza sta ferma con una bomboletta spray davanti ad una statua di uomo nudo. Il sopraggiungere del vigilante scatena una discussione fra i due che si conclude con un invito a cena da parte di lui.

Lei, Evelyn, e lui, Adam – richiamo non casuale alla coppia ancestrale Adamo ed Eva, emblema del libero arbitrio e della trasgressione – ribaltano il mito greco di Pigmalione, lo scultore che si innamora della statua perfetta da lui realizzata.

Una commedia divertente, ma anche una spietata riflessione sulle dinamiche sentimentali delle nuove generazioni, sulla loro solitudine, sui meccanismi della persuasione, uno sguardo inquieto sul mondo nuovo che verrà..

Un allestimento supportato da una scenografia avanguardistica ispirata ai lavori dell’arte moderna più trasgressiva, da Damien Hirst a Tracey Emin, a Mona Hatoum, dove il segno scenico è parte integrante della storia che si svolge in palcoscenico. Una commedia con musiche di tendenza per un pubblico giovane, da Deni Siciliano a Michael Jackson, da David Kitt che rifà Prince a Erlend Oye che remixa i Kings of Convenience, con qualche incursione nella No Wave degli anni ’80 di James White, la cui musica è stata paragonata al movimento pittorico del cubismo, per finire a Mu la nuova cantante performer giapponese. Una commedia con un finale che racchiude in sé uno degli aforismi preferiti dall’autore: atrocity is the new black.

Una commedia che è già cult con finale inimmaginabile, da non svelare.

Falene

di Andrej Longo, regia di Marcello Cotugno

“FALENE”, di Andrei Longo, ha debuttato nel 2004 a Napoli ed è recentemente andato in scena al Teatro Colosseo di Roma.

I protagonisti – Paolo Sassanelli e Totò Onnis – danno voce e gesti a due quarantenni baresi, amici per la pelle.

Nello spazio di un vicolo, si svolge il dialogo notturno dei due amici, in attesa del “colpo grosso” che dovrà mutare radicalmente la loro esistenza; nel tempo stringato dell’atto unico il dialogo / vaniloquio rende con efficacia la realtà di un sodalizio (tipico del nostro meridione) che diviene non di rado “patto di sangue”.

L’appuntamento con una vita nuova che riscatti entrambi da una esistenza fallimentare e vuota, diviene poi appuntamento con la morte.

I toni grigio – neri prevalgono sulla scena, tagliati a volte da improvvisi ed efficaci lampi di luce…la colonna sonora sottolinea magistralmente l’evolversi – comico e tragico insieme – del “fatto”.

Il regista Marcello Cotugno riesce a conferire all’atto unico la non facile caratterizzazione di commedia che evolve in dramma, magnetizzando l’attenzione dello spettatore, senza soluzione di continuità.

Uno spettacolo del quale ci auguriamo la replica.

Un pensiero per Olga

di Andrej Longo, 2004

Un pensiero per Olga” di Andrej Longo, per la regia di Marcello Cotugno, ha debuttato il 25 marzo 2004 al Teatro dei Contrari di Roma.

Lo spettacolo rappresenta – a parere di chi scrive – una riuscita prova di riduzione all’essenziale.

L’ambiente è una stanza, nera, nella quale poco più di venti spettatori siedono a breve distanza dalla scena.

Il cast è costituito da due soli attori, un uomo e una donna…Mimmo La Rana e Lucy Catalano.

La scenografia vede pochi elementi chiari (un tavolo, due seggiole, una porta) sapientemente messi in risalto dalle luci di Raffaella Vitiello.

La storia è semplice: la storia di un amore finito da tre anni, del dolore di lei nel comprendere che null’altro può fare se non rassegnarsi a quella fine, e dell’imbarazzo di lui nel trovarsi davanti la donna che un tempo ha così tanto amato.

Anche il dialogo è tessuto di parole semplici: quelle che possono scambiarsi un uomo e una donna che hanno condiviso l’intimità, e l’intensità, di un rapporto. Parole a volte quotidiane e banali, a volte pesanti come pietre.

Il senso sembra tutto racchiuso in una battuta:

“.. non posso dimenticare i ricordi, ma non posso passare la vita a ricordare..”

La scena finale esplicita, senza parole, la stessa essenzialità.

Lo spettatore realizza, nella ineludibile emozione che lo afferra, la radicale verità di una storia semplice che è anche la propria.

La verità di tutti quelli che – per continuare a vivere – son dovuti andare oltre il dolore.

La regia di Marcello Cotugno riesce a combinare i pochi elementi sopra detti in una riuscita prova di efficacia, ricreando sulla scena l’intimità del vissuto.

Il tema della vita e della morte costituisce un filo conduttore visibile nella scelta dei testi via via operata da Cotugno.

In “Anatomia della morte di…” vedevamo la morte arrivare a dare, forse, un senso – in quanto scelta – ad una vita che ne appare priva.

In “Bash” si parlava di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove – soltanto a fatica – potevamo cercare di rintracciare significati che non fossero la sola espressione di un vuoto di valori.

In “Un pensiero per Olga”, vediamo la vita che deve confrontarsi con la morte e accoglierla necessariamente, per poter continuare a vivere.

La perdita e lo svuotamento come elementi precursori della rinascita.