Libertà di pensiero e stigma sociale

(con Simonetta Putti), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

La Consulenza Filosofica e il Pensiero libero.

Approfondendo progressivamente la conoscenza dell’argomento – attraverso i testi sopra citati (in particolare traendo spunti dagli scritti di Neri Pollastri per contiguità di cultura) – ci si chiariva man mano l’intento della Consulenza Filosofica: l’obiettivo è quello di filosofare.

Raggiunta questa provvisoria tappa di chiarezza, vedevamo nel contempo aprirsi altri interrogativi, dei quali il più radicale può riassumersi nella domanda: cosa significa filosofare?

Filosofare significa molte cose … che andremo a citare, seppure brevemente; ma in sintesi estrema filosofare significa liberare il Pensiero, rendere il Pensiero libero nella misura in cui all’Uomo è dato sperimentare un Pensiero adeguatamente libero.

Nell’ottica dell’Autore sopra citato la prima cosa che può essere detta della consulenza filosofica è che essa è essenzialmente un dialogo il che vuol dire che i partecipanti, assieme e cooperativamente, producono un logos, un discorso.

L’obiettivo della consulenza filosofica è dunque il filosofare, e questo significa molte cose: principalmente, esaminare la vita del consultante, sottoporla a critica; identificarne i presupposti di significato e di valore; cercarne la coerenza e/o le contraddizioni; comprenderne le emozioni ed i valori soggiacenti; studiare i molteplici sensi delle problematiche concettuali emerse; vagliare le possibili soluzioni all’interno di comprensioni del mondo diverse; pensare gli eventi della propria vita entro una visione del mondo ampliata; mettere via via alla prova le nuove prospettive emergenti nella ricerca progressiva e sistematizzante di una nuova visione del mondo.

Una via nuova?

Notavamo che tutto questo avviene anche nel temenos analitico che costituisce il precipuo modo di operare della psicologia analitica, e che i passi sopra citati configurano – nella nostra pratica clinica – parte del percorso individuativo auspicato da C. G. Jung.

Per Jung il processo di individuazione (inteso come meta tendenziale verso la quale tendere, pur sapendo che non potrà essere pienamente raggiunta) consiste in estrema sintesi nel rendere l’Uomo In-dividuo, affrancandolo dalle strettoie e dai condizionamenti personali (consci e inconsci), nonché dalle pressioni eccessive di una dimensione sociale, che Jung denomina Coscienza e Inconscio collettivi, consentendogli di diventare “quello che è realmente” .

Ciò ben guardandosi dall’auspicare “un ideale di individualismo estremo, reazione morbosa ad un collettivismo altrettanto inadeguato. Al contrario il naturale processo di individuazione conduce alla consapevolezza della comunità umana, proprio perché ci rende coscienti di quell’inconscio che collega tra loro tutti gli uomini ed è a tutti comune. L’individuazione è un’unificazione con se stessi e, nel contempo, con l’umanità, di cui l’uomo è parte.”

Tale processo di emancipazione dagli schemi collettivi non giova soltanto alla esistenza del singolo, ma costituisce anche elemento propedeutico a che l’organizzata agglomerazione dei singoli nello Stato, anche il più autoritario, non formi più una massa anonima, bensì una comunità consapevole.

La indispensabile premessa di tutto questo è la cosciente libertà di scelta e l’autodeterminazione di ognuno. “Senza questa libertà e autodeterminazione – prosegue Jung – non c’è vera comunità e, occorre dirlo, senza una simile comunità neanche l’individuo più solido e autonomo può prosperare. Chi maggiormente contribuisce al benessere generale è proprio la personalità autonoma” .

La personalità autonoma auspicata da Jung ha – ovviamente – un’adeguata libertà di pensiero in quanto si è fatta consapevole dei condizionamenti inconsci e consci che la influenzano.

Riscontrata questa sostanziale analogia negli scopi, consideravamo altresì che la multiformità e la multidimensionalità della natura umana richiedono la massima varietà di metodi e punti di vista per rispondere alla varietà delle disposizioni psichiche .

Pertanto, il fenomeno della consulenza filosofica ben può – a nostro parere – costituire una via nuova che, ben lungi dal cancellare le strade preesistenti, va ad arricchire la mappa dei percorsi verso una progressiva libertà del pensiero.

Abstract

Libertà di pensiero e stigma sociale

Gli Autori espongono alcune riflessioni sulla Consulenza Filosofica, illustrando il percorso che li ha portati da una fase iniziale di scetticismo e perplessità ad una valutazione delle opportunità insite nella nuova prassi. Esaminati i vantaggi e gli svantaggi, i rischi ed i benefici, gli Autori si soffermano sulla opportunità costituita dalla liberazione del pensiero, essendo proprio tale obiettivo quello precipuo della consultazione filosofica. Laddove tale obiettivo venga conseguito, ne potrà derivare un indubbio vantaggio sia per il singolo consultante sia per la comunità sociale. Infatti l’uomo liberato dai pregiudizi e dai condizionamenti che ancora oggi residuano attorno alla sofferenza psicologica ed al disagio mentale, potrà liberamente guardarsi, prendere atto del proprio eventuale malessere e decidere di prendersene cura affidandosi allo specialista del caso. A livello sociale, potrà esserci un effetto di rimbalzo positivo nella maturazione di una etica della responsabilità e della chiarezza, con indubbi benefici sulla possibilità di affrontare la sofferenza psicologica senza la tema dello stigma connesso.

Simonetta Putti – Roberto Cantatrione

Breve racconto di una lunga psicoterapia

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 5, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

L’Intercity partito da Roma con destinazione Milano era in viaggio da una decina di minuti quando il signore seduto di fronte a me immerso fino a quel momento nella lettura aveva messo da parte la mazzetta di quotidiani che teneva in grembo e aveva prelevato da una cartella quello che poteva sembrare un libro o un grosso quaderno. Apertolo nelle ultime pagine, tolta dal taschino una penna, si era messo a scrivere con calma riflessiva fino a poco prima di Firenze quando, poggiato al suo fianco il quaderno, si era appisolato. Col vociare della gente alla stazione di S. Maria Novella aveva distrattamente aperto un occhio e quindi aveva continuato a sonnecchiare. Il rumore di ferraglia per il transito sugli scambi non lo aveva turbato più di tanto alla stazione di Bologna, dove molta gente era scesa e ed altra n’era salita. Il treno stava per ripartire quando il signore, svegliatosi di soprassalto, aveva frettolosamente raccolto cartella e giornali e si era diretto con affanno verso l’uscita.

Fu arrivando a Milano che preparandomi per la discesa vidi il quaderno semi nascosto, infilato nel fianco del sedile. Il treno era arrivato in ritardo per il mio appuntamento e io, dubbioso su cosa fare, scartata l’idea di lasciare il quaderno dove si trovava, trattandosi di un oggetto di nessun valore venale che sarebbe stato gettato via dal personale di servizio, lo presi con la speranza di poter trovare al suo interno un recapito per poterlo restituire. Quando la sera aprii quel quaderno nessuna indicazione mi fece risalire al suo proprietario; era un quaderno piuttosto grosso, con una spessa copertina disegnata con segni geometrici colorati, formato da pagine a quadretti, quasi completamente riempito con una grafia piccola, regolare anche se alcune parole non erano di facile decifrabilità: sarebbe stato necessario addentrarsi nel contesto del discorso.

Mi resi subito conto che si trattava di un diario, ma solo dopo un’attenta lettura che mi prese diverso tempo realizzai che era un diario particolare e particolareggiato di una vita segnata dalla psicanalisi e da un lungo pur se interrotto percorso di terapia analitica.

Del contenuto di questo diario vi riferisco come fosse un racconto, con una personale partecipazione perché le tematiche esistenziali dell’autore hanno punti di contatto con le mie così come il suo itinerario psicoterapeutico. Sotto un altro profilo questo diario può essere una testimonianza di un’epoca e getta una luce su come si è evoluta negli ultimi cinquant’anni la pratica psicoanalitica.

Abstract

In questo scritto – inconsuetamente osservati dall’ottica del paziente e non da quella del terapeuta – si dipanano e scorrono i fili che legano l’essere e il divenire, attraverso la catarsi attivata e catalizzata dal rapporto analitico. Il ritrovamento casuale di un diario offre l’occasione all’Autore di illustrare come si è evoluta la pratica e il vissuto della psicoterapia nell’arco di un quarantennio, anche in concomitanza con i mutamenti della società. Da una prima esperienza di psicoterapia d’appoggio, si passa a parlare di una analisi del profondo, che ha attivato un percorso di individuazione, e che ha avuto la sua provvisoria conclusione in una terapia analitica che ha elicitato le capacità creative già presenti nell’inconscio ma sino ad allora non ancora attualizzate.

Comunicazione e relazione

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

Non si riflette mai abbastanza su come l’ambito del lavoro (dipendente) sia uno di quelli dove si scatenano forme di terribile aggressività e dove esiste pochissima libertà di comunicare sinceramente e in modo diretto il proprio pensiero.

Il capo dà ad un suo collaboratore una direttiva che ha come contenuto un fare. I casi sono due: l’ordine è sbagliato oppure giusto e il destinatario dell’ordine non lo vuole eseguire o perché ritiene la direttiva ingiusta o sbagliata, o, nel caso in cui la direttiva sia giusta, trova difficile eseguirla. Se il rapporto tra i due interlocutori fosse sano, laddove si riscontra una resistenza, se ne parla e si raggiunge un accordo condiviso, tenuto conto che un lavoro fatto senza convinzione e quindi con poco impegno non sarà mai fatto al meglio.

Ma il più delle volte le cose non sono così semplici. Si deve tenere conto che il rapporto interpersonale si è costruito nel tempo; ambedue gli interlocutori si portano dietro una reciproca considerazione dell’altro, nel senso che non è infrequente che l’assegnazione di un compito e il rifiuto a farlo siano forme di metacomunicazione, cioè una modalità in cui prevale l’aspetto relazionale: da un lato con il messaggio di fare si vuole, ad esempio, anche trasmettere una volontà punitiva, dall’altro con il rifiuto si esprime, ad esempio, la volontà di non riconoscere l’autorità.

Dunque, in caso di resistenza ad un ordine, giusto o sbagliato che sia, scatta il potere gerarchico: questo lo fai perché te lo dice il capo e basta. La prevalente reazione possibile è che il lavoro lo si esegua, ma s’ingenera nel prestatore di lavoro una forte sensazione di frustrazione.

La frustrazione poi può nascere anche dal fatto che non si è stati in grado di spiegare le ragioni per le quali il lavoro non doveva essere eseguito, magari perché la barriera burocratica alzata dall’assetto di potere non lo ha consentito e, in quest’ultimo caso, il destinatario dell’ordine si sente ancora maggiormente frustrato. Come si supera talvolta l’impossibilità comunicativa verbale di esprimere il proprio disaccordo in questi casi?

Con un comportamento tipico: l’assenza dal lavoro (per malattia o altra causa giustificabile) e porsi così in una condizione di rifiuto con una comunicazione comportamentale. Nel lavoro dipendente questa pratica è piuttosto diffusa e gli uffici del personale sono particolarmente attenti a verificare che il dipendente non abusi della possibilità di assenza prevista e giustificata “per malattia”.

Abstract

Prendendo principalmente spunto dalle indicazioni della Scuola di Palo Alto (Paul Watzlawick) e dalle linee portanti della P.N.L. (Richard Bandler, John Grinder) si delineano le diverse vie che la Comunicazione può prendere. Si osserva la diversa incidenza e rilevanza che nel messaggio assumono – a livello del ricevente – i tre livelli comunicativi: verbale, paraverbale, non verbale. Viene presentata ed esemplificata una sintetica fenomenologia della Comunicazione, toccando i temi della congruenza/incongruenza, dei comportamenti sostitutivi, della relazione tra comunicanti, del cambiamento possibile. Una chiave di spiegazione delle difficoltà di comunicazione può essere trovata laddove una delle quattro funzioni psichiche Junghiane (pensiero, sentimento, intuizione e sensazione), in posizione prevalente a livello conscio, debba comunicare con la funzione opposta a livello inconscio.

Una fantascienza per il limite?

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57, Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto

La trattazione del tema della fantascienza da parte della letteratura e della cinematografia è in genere caratterizzata da elementi comuni ricorrenti. Anzitutto il verificarsi di un evento drammatico per l’uomo o per l’umanità, oppure la volontà dell’uomo di realizzare un qualcosa di straordinario e perciò difficile, utile per sé e o per il genere umano. Nel primo caso la drammaticità dell’evento impone la necessità di eliminarne le conseguenze, pena la morte; nel secondo il conseguimento dell’obiettivo ha come risultato una nuova vita; il che è, specularmente, quasi la stessa cosa.

Il secondo elemento è dunque il dilemma vita – morte.

Terzo elemento è il tempo, generalmente coincidente con la vita umana, verificandosi tuttavia, in molti racconti, la dilatazione di quell’arco temporale in relazione a scoperte scientifiche o a concezioni Einsteiniane dello spazio- tempo.

Ogni costruzione fantascientifica è, evidentemente, rapportata all’uomo, ai suoi principi, ai suoi valori ed è questo l’elemento che “fa la differenza”. Va da sé che l’elemento comune per definizione è l’uomo, il quale – nel processo creativo della sua attività – si avvale di scienza e fantasia. Gli elementi costituenti la tematica in oggetto, elementi ricorrenti, potremmo dire necessari, sono, dunque:

  • L’evento (da cui tutelarsi o da conseguire)
  • Il dilemma vita / morte
  • Il tempo
  • l’uomo come soggetto che esperisce/subisce/inventa…

Un altro elemento che quasi sempre caratterizza i racconti di fantascienza è la paura, il terrore, generati da un qualcosa di oscuro, minaccioso, incontrollabile e incombente che va a turbare e confondere la coscienza, rendendo difficili reazioni adeguate. Ciò in quanto, appunto, il verificarsi dell’“evento” va a scardinare sicurezze acquisite e fa sprofondare l’uomo nelle sue drammatiche paure originarie. Come se fosse riproiettato nel caos primordiale dove fa fatica a ritrovare l’“ordine” per una reazione cosciente.

Per Aldo Carotenuto,7 il viaggio tra le immagini inquietanti proposte dalla Fantascienza può ben rappresentare un viaggio attraverso le lande più oscure e spaventose dell’anima e l’addentrarsi in tali immagini “consente, tuttavia, di svelare e comprendere tanto le angosce a cui la psiche è soggetta, quanto il loro significato e progetto di trasformazione.”

L’uomo si viene così a confrontare col binomio bene – male, laddove il bene è la vita e il male è la morte. Ma il conflitto è sempre perdente per l’uomo perché anche se i suoi tentativi di esorcizzare il male hanno successo, la fine della sua vita è comunque sempre incombente e, in definitiva, vincente.

Variazioni sul tema

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

Ci sono molte strade per affrontare l’esperienza del morire e ognuna di esse rispecchia la nostra vita appena trascorsa. Anche se oggi la cultura occidentale tende a non parlare della nostra morte ma di quella degli altri, per l’arte, la religione, la filosofia, la scienza di ogni tempo è stata uno dei punti focali della ricerca umana, e ogni persona che si è occupata di quest’argomento l’ha fatto con una prospettiva peculiare. Da Platone a Sant’Agostino, da Heidegger a Jankélévitch, da Freud a Bataille, a Girard, quasi tutti gli artisti, poeti, scrittori, musicisti, pittori, autori cinematografici hanno voluto esprimere il loro punto di vista su questo evento così inquietante.

Inizio questa breve esposizione da uno dei più antichi scritti della cultura sumera, l’Epopea di Gilgames, in cui si narra della ricerca d’immortalità da parte dell’eroe, che, in questo caso, finisce miseramente con la morte improvvisa del suo inseparabile amico Enkidu, e getta Gilgames in una profonda crisi perché lo costringe a confrontarsi con la propria mortalità. Anche Heidegger rileva che l’esperibilità della morte avviene attraverso quella degli altri: “Il passaggio al non Esser-ci-più sottrae all’Esserci la possibilità di esperire questo passaggio e di concepirlo come esperibile. Un’esperienza siffatta è impossibile per ogni Esserci nei confronti di se stesso. Tanto più importante è perciò la morte degli altri. Essa ci fa vedere oggettivamente la fine dell’Esserci.”

La maggior parte degli esseri umani non può concepire la morte senza considerare quella dei propri cari, e non può pensare alla morte delle persone amate senza riflettere sulla propria. Il problema più angosciante non è la nostra fine, ma quella degli altri. Tutti noi arriviamo alla coscienza della possibilità di morire partecipando alla morte di una persona con cui abbiamo avuto un legame affettivo.

Ogni morte prelude comunque, per chi sopravvive, a un cambiamento, prima psicologico, e poi anche concreto nel suo modo di rapportarsi con la nuova vita senza la persona amata. Al principio è coinvolto affettivamente dal ricordo del proprio congiunto e si concentra sull’accaduto, ma dopo qualche tempo, se non ne rimane travolto, è pronto per ricominciare, ed è proprio la morte dell’altro a ridargli una nuova vita. Mi ricordo di un sogno che ho già riportato in un mio precedente articolo : un’auto è immobile su una strada lunga e diritta, dietro alla macchina è legata una roulotte e dietro a questa è legato un cadavere, ogni cosa è statica, il tempo si è fermato. Questa immobilità è foriera di mutamenti, la macchina deve ripartire invitata dalla strada, la roulotte deve diventare una casa, il cadavere rappresenta la staticità, la morte, ma è anche simbolo di trasformazione e del cambiamento che deve realizzare chi continua a vivere. Chi è stato legato a una persona deceduta si modifica, diventa un altro uomo cui è stata tolta una parte di sé che rimane nel defunto.

Abstract

La morte è stata uno dei punti focali della ricerca umana e chi si è occupato di questo argomento lo ha fatto con una prospettiva peculiare. Ogni uomo arriva alla coscienza della propria caducità attraverso la morte di una persona cara, e questa fine prelude a un cambiamento in chi sopravvive. Anche psicologicamente per cambiare bisogna lasciarsi alle spalle un vecchio modo di essere che ci condiziona. Tutte le opere dell’uomo sono state un tentativo di rimuovere la presenza della morte dalla vita. Al contrario delle persone amate il rapporto con persone sconosciute che stanno morendo tende a rimuovere il pensiero della nostra fine. Mentre alcuni sono confortati da religioni e filosofie, per altri l’idea della propria morte risulta inaccettabile.

Rispecchiandosi

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006

La prima volta che sentii parlare di Aldo Carotenuto fu a metà degli anni settanta, da un suo paziente che poi divenne a sua volta uno psicoanalista, una costante nella storia della psicoanalisi. Allora ne parlava in maniera entusiasta ed il suo entusiasmo mi spinse a leggere alcuni dei suoi primi libri come Senso e contenuto della psicologia analitica, che io considero, con La colomba di Kant, l’alfa e l’omega del suo punto di vista sulla terapia e soprattutto sul transfert. Uno degli assunti teorici che Carotenuto metteva al primo posto nella sua pratica analitica era che non esistono assunti teorici e che le molteplicità di tecniche che da essi derivano dipendono unicamente dal tipo di personalità dell’analista, teorie e tecniche servono per dare sicurezza al terapeuta stesso che ha bisogno di un punto di riferimento, ma nella pratica clinica, nella relazione col paziente, non hanno nessun valore terapeutico. Ogni analista ha la sua tecnica che a sua volta varia a seconda del paziente con cui lavora, quello che invece è veramente importante, ma che non sempre avviene, è il fatto che dovrebbe mettere se stesso in gioco secondo il detto alchemico Ars requirit totum hominem.

Quando decisi di telefonargli era già abbastanza conosciuto ed io temevo di non essere accettato o di dover mettermi in lista d’attesa. Non fu così e dopo pochi giorni mi trovavo seduto nel suo studio di via Severano e iniziavo un’analisi che sarebbe continuata per molti anni, una di quelle che sono definite interminabili. La sua durata è stata un aspetto negativo della terapia ed è dipesa dalla collusione che si è instaurata tra noi, come diceva Jung: “Quasi tutti i casi che esigono un trattamento prolungato gravitano intorno al fenomeno del transfert”.

Poco tempo dopo l’inizio dell’analisi, con mia somma meraviglia, un giorno mi ricevette, pallido in viso, in camera sdraiato nel suo letto. Vedendo il mio stupore e la mia apprensione mi disse subito che non dovevo preoccuparmi perché aveva avuto solo un’appendicite. Più tardi seppi che era stato operato in Inghilterra per un problema cardiaco che aveva fin da piccolo. Quell’episodio mi commosse molto e mi gratificò, ma rimasi anche un po’ preoccupato, pensai che forse dovevo stare molto male per essere ricevuto da lui in quelle condizioni. In quegli incontri iniziali, quando ancora non lo conoscevo bene, cercavo di inquadrare le nostre sedute nelle cosiddette “regole del setting”, ma spesso non ci riuscivo, per Carotenuto il rapporto umano era più importante del metodo e per questo cominciai a stimarlo di più.

Passati i primi tempi il mio transfert si andava rafforzando e presi a seguirlo nelle sue conferenze in giro per l’Italia tenendomi sempre a distanza, la sua personalità era diventata qualcosa di “numinoso” che mi attirava ma anche mi spaventava. Cercavo di sedurlo ma nello stesso tempo resistevo con tutte le mie forze perché questo non avvenisse. Una volta, in uno di questi convegni, mi vide e mi salutò cercando di avvicinarmi, ma io fuggii spaventato, le regole dell’analisi pendevano su di me come un Super-io castrante e punitivo, una spada di Damocle che mi avrebbe ferito se fossero state infrante. Anche quell’episodio, nonostante la mia fuga, mi lasciò molto gratificato. Carotenuto, almeno con me, non sempre seguiva queste regole, andava a braccio mettendosi in discussione in prima persona e rischiando in questo modo di più. Credo che solo così si possano avere dei risultati positivi, il distacco dal paziente non cura, la troppa distanza è sentita come freddezza. Non bisogna però cadere nell’eccesso opposto, si dovrebbe restare tra Scilla a Cariddi, ma è meglio un rapporto troppo empatico che un distacco eccessivo. Sicuramente quest’ultimo non porterà ad un successo nella terapia, come del resto dimostrano ampiamente molti casi dei primi analisti, anche se due di essi in particolare dimostrano proprio il contrario e sono diventati emblematici per l’eccesso di coinvolgimento, quello di Breuer con Anna O. e di Jung con Sabina Spielrein portato alle stampe proprio da Carotenuto. Certo ogni paziente è a se stante e non si può stabilire a tavolino come un analista deve comportarsi, è solo il campo psicologico che si stabilisce tra le due personalità che susciterà in lui la sua modalità di comportamento, molto di meno la teoria di riferimento. Questo aspetto importante della terapia Carotenuto lo aveva capito bene e in un suo testo fondamentale sui problemi del transfert e del controtransfert affermava: “Per simbiosi terapeutica io intendo lo sforzo della coppia analitica per la costruzione di un modello e di uno strumento che può funzionare esclusivamente in quella particolarissima situazione, e mi sembra del tutto naturale che ogni analista dia vita a un suo cliché personale che lo contraddistingue da tutti gli altri, perché le modalità con le quali ci si avvicina alla sofferenza psichica rispecchiano sostanzialmente l’analista come individuo. Egli non si comporta come uno scienziato ma come un artista per il quale la componente emotiva è il vero strumento di lavoro”. Agli inizi della storia della psicoanalisi Freud era partito da presupposti legati al positivismo e alla scienza della natura, la stessa parola analisi era stata ripresa dalla chimica e considerava il paziente come un insieme di elementi che bisognava individuare, quindi da una parte c’era lo scienziato, l’analista, dall’altra la psiche del paziente di cui bisognava scoprire le componenti come per esempio il sesso e l’aggressività. Nella psicoterapia si dovrebbe avere un rapporto dialogico con il paziente, l’analista non si deve porre di fronte all’altro come colui che sa, il soggetto supposto sapere di Lacan , ma tutti e due devono vedersi in un certo senso “come oggetto e soggetto contemporaneamente l’uno dell’altro”.

Postumano

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57 Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto

In uno dei suoi racconti più paradossali, “Saltare il fosso”, Philip Dick, famoso scrittore di fantascienza, narra le vicende di una persona nevrotica che non riuscendo a prendere una decisione su delle questioni molto importanti si reca dallo psicoanalista. Sembrerebbe una storia dei nostri giorni se non fosse che lo psicoanalista è un robot dello Stato che si anima con una monetina da inserire nell’apposita fessura e l’indecisione riguarda un problema che divide l’umanità, ormai sull’orlo della guerra civile, in due partiti, il partito dei “puristi” che vuole estirpare quegli apparati del corpo umano che provocano cattivi odori, e quello dei “naturalisti” che preferiscono che il loro corpo rimanga integro come è stato da sempre e non vogliono essere obbligati come affermano: “…al controllo dell’alito, allo sbiancamento dei denti e al trapianto dei capelli”.

Finalmente il protagonista decide e vota per il partito dei naturalisti che però perde le elezioni. Quando, ad un controllo, la polizia gli ingiunge di operarsi per togliere le ghiandole sudorifere, scappa e si rifugia dallo psicoanalista che si congratula con lui di aver finalmente fatto la sua scelta, anche se quella sbagliata, e gli dà un lasciapassare temporaneo per non essere arrestato. Uscendo dallo studio del terapeuta-robot, in un ultimo e decisivo desiderio di libertà e di autonomia, si riappropria della sua vita, anche se solo per morire, strappa il lasciapassare e si lascia prendere dagli agenti che lo eliminano congelandolo e gettando i suoi resti in una macchina distruggirifiuti.

Questo racconto, come molti altri sui robot di cui è ricca la letteratura di fantascienza, è emblematico di alcuni aspetti della condizione umana in cui convivono desideri ancestrali ed ambivalenti di vita eterna, celebrati dalla mitologia e dalle religioni, che l’umanità cerca di realizzare con i progressi delle biotecnologie e della robotica. L’aspirazione a raggiungere la perfezione e l’immortalità del corpo, senza preoccuparsi troppo per quella dell’anima, ha spinto l’uomo a costruire con materiali pressoché eterni meccanismi fatti a sua immagine e somiglianza e a trovare tecniche e farmaci che gli prolunghino la vita. Come fa notare Aldo Carotenuto la science fiction ha previsto tutti questi cambiamenti: “Si potrebbe addirittura dire che la fantascienza è una mappa dell’inconscio, attraverso la quale emergono gli archetipi della psiche moderna, la mitologia del terzo millennio”.

Nel racconto l’umanità è divisa tra chi vuole conservare l’integrità della specie umana e chi vuole un uomo nuovo che con la perdita di uno degli attributi che testimonia la nostra discendenza dagli animali, l’emissione di odori, possa arrivare più vicino a Dio e controllare così il tempo e la morte, ma diventa invece simile ad una macchina, pulita e ben lubrificata, ed imita quei robot che lui stesso costruisce e con cui inconsciamente si identifica. Il protagonista per l’indecisione perde fiducia in se stesso, si rende dipendente dalla macchina che lo consiglia e lo protegge ma con cui alla fine entra in conflitto. In un ultimo anelito di rivendicazione dell’umanità di cui fa parte e della propria individualità, fa la sua scelta, ma per morire, per diventare un rifiuto da scartare, come se la presa di coscienza conducesse inevitabilmente al disfacimento ed alla morte.

Il robot, l’automa, questo doppio su cui si proietta il tentativo disperato di trascendere la morte trasformandosi nella propria creazione, diventa fonte di angoscia e di spaesamento, ricorda l’unheimliche di Freud, il non familiare, il perturbante e porta con sé, secondo Otto Rank, un senso di morte, espressione del riconoscimento che il doppio siamo noi coinvolti in un rapporto narcisistico che si prolunga per tutta la vita.

Oggi si parla spesso di robot, cyborg, androidi e quant’altro. Siamo arrivati ad un intreccio indissolubile tra uomo creato ed uomo creatore, non solo nei film di fantascienza, ma anche in ambito scientifico e filosofico. La tecnologia sta realizzando meccanismi prodotti dall’uomo che formeranno uomini nuovi, macchine automatiche che rappresentano fantasmi generati dall’inconscio e per questo esercitano un grande fascino sull’immaginario collettivo, fin da quando l’uomo proiettò su un essere divino la causa prima della propria creazione.

Nel primo racconto della Genesi “Dio creò l’uomo a sua immagine, lo creò maschio e femmina”, riflesso fedele della bisessualità divina. Secondo alcuni miti Adamo ed Eva prima della caduta erano un androgino, poi il peccato li avrebbe definitivamente divisi. Anche il mito raccontato da Platone nel Simposio, forse ripreso dalla stessa fonte orfico-babilonese della Genesi, ci parla di un doppio, dapprima unito, ma poi separato dalla divinità per una presunta trasgressione e costretto a ricercare l’unità perduta per l’eternità. Nel quarto libro delle Metamorfosi Ovidio racconta la storia di un unico essere, Ermafrodito (da Ermes e Afrodite), poi diviso ed obbligato a ritrovare la propria unità. Da questi miti derivano tutte quelle leggende che parlano di un doppio e che si possono rintracciare nella mitologia e nella storia di ogni cultura, Gilgamesh, Narciso, Achille, il Golem, Faust, Frankenstein…

Nella letteratura, nel teatro, nel cinema spesso sono state usate delle macchine per produrre effetti spettacolari, imprevisti, come il “deus ex machina” della tragedia greca. La parola robot deriva dal ceco ròbota, lavoro, ed il primo robot viene usato da uno scrittore, Karel Capek, che nella rappresentazione dei suoi drammi del 1920, Rossum’s Universal Robots, usava degli artifizi meccanici, degli automi. Proprio nel ghetto di Praga nacque la leggenda, ripresa dall’Antico Testamento e dal Talmud, del rabbino Löw e della sua macchina d’argilla di aspetto umano, il Golem (termine che nella Bibbia ha il significato di cosa, corpo informe), capace di eseguire dei lavori, di obbedire agli ordini, ma anche di difendere il popolo ebraico contro i suoi nemici. Ma il Golem poi si ribella contro il suo artefice mettendo in luce la forza ambigua del mondo delle macchine che può sfuggire al controllo del creatore. Anche Paracelso nel Rinascimento si è ispirato agli scritti chassidici per descrivere la sua concezione della vita formata dalla materia inanimata, l’homunculus, fatto di acqua e terra, idea poi ripresa anche dal Faust di Goethe.

Implicazioni psicologiche del messaggio televisivo

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 56 Roma, Di Renzo Editore, 2004 – Estratto

Nella relazione tra videospettatore e mezzi di comunicazione di massa come la televisione, ma anche internet e la cosiddetta realtà virtuale, le immagini, più ancora delle parole, esercitano un ruolo essenziale. Partendo dalla constatazione di come questi mezzi abbiano modificato la nostra vita quotidiana ed influito sulla psiche, ci chiediamo se abbiano reso il nostro immaginario più fecondo o, al contrario, più sterile con immagini sempre uguali e fine a se stesse. Per approfondire queste problematiche facciamo riferimento a quello che la psicologia dinamica ha detto delle immagini e la loro funzione, immagini che provengono dalla percezione del mondo esterno e dalla sua rappresentazione psichica, ed esaminiamo l’evoluzione del concetto d’immagine, dal mondo delle idee di Platone, attraverso le fantasie di Freud, fino alle immagini archetipiche di Jung.

Nella psicologia dinamica la psicologia analitica di Jung sembra più adatta per accostarsi a questi argomenti, Freud, infatti, lascia poco spazio alle immagini provenienti dall’inconscio che deve essere “prosciugato” per lasciare spazio all’Io (Wo Es war, soll Ich werden), mentre per Jung “l’immagine è un’espressione concentrata della situazione psichica totale e non soltanto o prevalentemente di contenuti inconsci qualsiasi”. L’immagine possiede un potere generativo che ha fatto sì che in passato l’uomo costruisse nel proprio immaginario miti, riti, leggende, religioni, favole che hanno contribuito e contribuiscono ad aiutarlo nella propria sopravvivenza ed evoluzione.

Vi è stato un tempo in cui la cultura occidentale ha diffidato delle immagini. Con Platone prima, il Cattolicesimo, ed anche la scienza dopo, le immagini non sono state sempre ben viste, quantomeno sono state considerate un mezzo di conoscenza inferiore. Oggi, come ci ricorda Gilbert Durand, bisogna riflettere sul paradosso della nostra civiltà, in cui le immagini dal lato della tecnica moderna sono state prodotte e riprodotte in continuazione con sempre nuove tecnologie, dall’altro sono state viste con sospetto dalla sua filosofia, dalla scienza e dalla religione.

Così le immagini dei miti e dei riti delle culture più arcaiche si sono lentamente sbiadite, ed hanno perso le capacità immaginifiche, simboliche che avevano un tempo. Le connessioni tra quanto detto e la perdita di spiritualità del mondo occidentale sono evidenti. Anche le immagini televisive hanno contribuito a questo indebolimento e trasformando la realtà in spettacolo, hanno agito sull’immaginario del telespettatore, adulto o bambino che sia, rendendo la sua psiche più arida e passiva, ma soprattutto più predisposta ad una visione del mondo consensuale ed omologata.

Mentre il “pensiero poetante” di Hölderlin aveva cercato di far resuscitare le immagini degli antichi dei fuggitivi, Leopardi sapeva che ormai queste immagini erano morte, e vedeva chiaramente il nichilismo dell’uomo moderno cui è rimasta secondo il filosofo Emanuele Severino ancora un’ultima occasione per ripristinare una diversa concezione della vita e con essa il nostro immaginario: “l’intreccio di poesia e filosofia apre l’ultima possibilità dell’uomo, alla fine dell’età della tecnica”.

Intorno al 1826 Nicéphore Niepce “fermava” le prime immagini impressionate sulla lastra eliografica e, quasi esattamente un secolo più tardi, nel 1927, Philip Farnsworth brevettava il tubo catodico, cuore del televisore, che permetteva la trasmissione d’immagini, anche in movimento, attraverso fasci d’elettroni. Queste loro scoperte avrebbero modificato profondamente, non solo le relazioni tra gli uomini e le loro culture, ma anche l’immaginario collettivo.

Storici e giornalisti hanno ormai preso, come data ufficiale di nascita della televisione, quella del 30 aprile 1939, quando negli Stati Uniti la RCA esibì il suo primo modello commerciale e, in quell’occasione, fu trasmesso a New York un incontro di baseball cui assistettero seicentocinquanta persone. Da allora l’egemonia americana sulla televisione è stata incontrastata e, solo oggi, cede qualche passo ai network giapponesi. Il dominio delle sue immagini sulla mente collettiva del nostro tempo è stato quasi assoluto.

Molte cose da allora sono state dette sulla televisione, positive ed estremamente negative, ma ciò su cui unanimemente tutti concordano è che la vita tra gli uomini dopo la sua scoperta è cambiata. Numerose sono state le scoperte dall’inizio della storia dell’umanità che hanno prodotto modificazioni negli stili di vita, nello spirito collettivo e possiamo paragonare la forza di cambiamento della televisione a quella della ruota.

MacLuhan ci ricorda come “ogni tecnologia tende a creare un nuovo ambiente umano”, la tecnologia non è soltanto un contenitore passivo, uno strumento a nostra disposizione, ma contribuisce a trasformare profondamente la psiche dell’uomo e l’ambiente in cui vive. Nella nostra epoca la transizione dalle scoperte della fisica meccanica, a quelle dell’elettricità, dell’elettronica e della fisica quantistica ha causato una rivoluzione senza uguali nella storia dell’uomo. Il lungimirante Prometeo aveva saggiamente previsto come la tèchne avrebbe preso finalmente il sopravvento sulla psiche, modificandone il cammino.

Lo sconvolgimento, le discussioni, le prese di posizione che ha provocato questo “medium” e la sua ancora imperfetta capacità tecnologica, lasciano supporre che siamo di fronte ad un evento che segna il passaggio da un’epoca, quella scientifica industriale iniziatasi nel settecento con l’Illuminismo e poi sfociata nel Positivismo, ad un’altra, quella postindustriale e postmoderna, di cui si cominciano solo ora ad intravedere i primi lineamenti.

L’eros nell’epoca dei media

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 55, Roma, Di Renzo Editore, 2004 – Estratto

“Inter faeces et urina nascimur”, diceva Sant’Agostino per descrivere l’oscenità del corpo all’atto della nascita, ma era un’oscenità naturale derivata da un naturale desiderio sessuale, oggi l’oscenità la vediamo nella sua rappresentazione resa asettica dal disgusto e dall’orrore per ogni sporcizia umana, anche quella dei bambini, che deve essere purificata in ogni modo da un profumo, un deodorante, una limpida cucina o un nuovo modello di autovettura, in cui ognuno di noi possa rispecchiare un corpo senz’anima che ci faccia dimenticare le nostre origini, per prospettarci un futuro dove l’artifizio si è trasformato in artefice, senza la mediazione della psiche. Uno spot è ciò che rimane dell’amore e dell’atto sessuale, uno spermatozoo smarrito vaga in solitudine per le strade, alla ricerca della sua meta, ed una volta trovatola, uno sbatter di ciglia ed un piccolo stupore ci fanno capire che il fine è raggiunto. Questi importanti aspetti del nostro mondo interiore vengono banalizzati ed uniformati attraverso l’enfasi e la meraviglia che viene loro attribuita e che ha come conseguenza di farli diventare, nel quotidiano, l’oggetto di ambigui e irrealistici sentimenti.

In questo scorcio di post-modernità il nostro punto di riferimento sono rimasti gli spot ed il grande fratello. C’è uno spot per la nascita, uno per la crescita, un altro per l’amore, l’ultimo tabù rimasto è la morte, ma ancora per poco, anzi la morte è già rappresentata in ognuno di essi perché queste categorie, archetipi direbbe Jung, dell’agire umano hanno perso, nella trasparenza e nella spettacolare consuetudine del video, il loro significato nascosto, simbolico, per diventare un semplice ed univoco segno: “Da quando le stelle sono cadute dal cielo e i nostri simboli più alti sono impalliditi, domina nell’inconscio una vita segreta” . L’inevitabile perdita di senso ci rende ancora più esposti al fascinante influsso delle immagini inconsce, queste, liberate da ogni controllo della coscienza, acquistano una propria autonomia pericolosa ed imprevedibile che ci può portare al limite della psicosi.

Se per Freud , dopo il godimento, il sesso porta con sé un poco di morte, per Bataille l’erotismo è l’approvazione della vita fin dentro la morte. Funzione sessuale e morte un tempo erano per gli uomini due divieti fondamentali e la loro trasgressione serviva a superare l’angoscia che accompagna ogni divieto. Oggi la televisione è l’ambito deputato alla violazione dei divieti. La funzione simbolica dei riti e dei miti, della violenza e del sacro, considerato come spazio predisposto al differimento delle regole, viene assunta dalla televisione, la televisione è il moderno recinto del sacro. Ma da quando appare in video l’erotismo o, meglio, la sua caricatura, mostra solamente il suo aspetto osceno e profano, lo spazio fuori dal tempio, e la trasgressione, esibita con tale facilità, contribuisce a banalizzare la sessualità ed il suo desiderio.

Essere lontani dalle stelle (de-sidera) ci induce a cercarle, ma che cosa ci spingerà se le troviamo sempre davanti a noi nello splendore pagano di questa televisione? Quello che ci propone è ciò a cui anela il Satiro, un desiderio appagato immediatamente, non più quell’oscuro oggetto del desiderio, bensì un’assuefazione: “Il desiderio sussiste solo con la mancanza. Quando passa interamente nella domanda, quando può operare senza restrizioni, diventa privo di realtà in quanto privo di immaginario: è ovunque, ma in una simulazione generalizzata. Ormai solo lo spettro del desiderio ossessiona la realtà defunta del sesso. Il sesso è ovunque, tranne che nella sessualità (Barthes)”. Il sesso è diventato la stella dei media e il desiderio, indotto dalla pubblicità e dai programmi, desiderio di consumo, fine ultimo della nostra società dello spettacolo. Ma la televisione non ci dice solo che cosa dobbiamo consumare, ma anche, come ci ricorda Carlo Freccero, quello che dobbiamo diventare attraverso il consumo, ciò che deve diventare il nostro corpo, specialmente il corpo femminile che scompare nell’anoressia lasciando i suoi attributi più appariscenti, labbra carnose, seni prosperosi, sederi prorompenti, in nome dell’audience, impero della maggioranza.

Gli italiani e il briccone politico

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 52, Roma, Di Renzo Editore, 2002

Uno tra i primi bricconi, il briccone divino per antonomasia, fu Ermes che, ancora in fasce, rubò con l’inganno alcuni buoi a suo fratello Apollo. Quando fu scoperto, davanti al consesso degli dei dell’Olimpo, negò tutto e si mise a suonare la lira che aveva appena costruito dal guscio di una tartaruga. Apollo appena sentì quella musica soave lo perdonò e si mise a ridere affascinato sia dalla musica ma anche dalla sua spudoratezza e Zeus, ridendo anche lui di quell’impresa compiuta da un bambino ma già così a-stuto, lo nominò messaggero degli dei e come tale divenne anche il dio dell’eloquenza; il termine ermeneutica, l’arte dell’interpretazione, ha la sua etimologia proprio in Ermes. Per le sue doti di bugiardo rappresentò il dio dell’astuzia, della frode e del furto, del trasformismo, ma fu anche il muc-chio di pietre che indicava la strada nei bivi o il confine tra due terreni e per le sue qualità Lopez-Pedraza ne fa il signore degli aspetti borderline della nostra psiche. Tutti questi attributi si possono facilmente riconoscere anche nel nostro italico briccone politico.

Per Jung il briccone è un immagine primordiale, un archetipo del no-stro inconscio, una delle tante caratteristiche della parte oscura della nostra personalità che chiama Ombra, ma che spicca in certe persone e che le può far diventare agli occhi degli ingenui delle figure salvifiche, proprio a cau-sa di quei molteplici e contraddittori aspetti che vengono esaltati nel loro rapporto con il popolo. A proposito degli attributi dell’ Ombra e della ne-cessità di portarli alla luce, durante una conferenza tenuta alla BBC il 3 novembre 1946 sull’ascesa al potere di Hitler, disse che un capo si può fa-cilmente trovare in colui che abbia “…la minor forza di resistenza, il più ridotto senso di responsabilità e, in conseguenza della sua inferiorità, la più forte volontà di potenza”. Per evitare che ciò accada ogni uomo dovrebbe raggiungere una autonomia di giudizio ed una propria sensibilità etica, e-laborando continuamente nell’arco della vita il confronto con l’Ombra, che Jung riteneva parte fondante del processo di individuazione.

Tra gli italiani ed il briccone si è instaurata quella che Watzlawick, Beavin e Jackson hanno chiamato “interazione simmetrica”, e cioè il ri-conoscimento di uno nel comportamento dell’altro tale da condurre ad una perversa folie à deux in cui i membri sono spinti ad influenzarsi recipro-camente, ma soprattutto in cui la personalità carismatica di uno di essi rie-sce a suggestionare l’altro e ad allentare le sue tensioni ed il suo pensiero critico, avocando su di sé quegli aspetti negativi ritenuti riprovevoli dalla comunità e trasformandoli nel loro opposto.

La storia dell’uomo avanza di pari passo con questi personaggi, in al-cuni gli attributi del trickster possono avere uno sbocco positivo e portare le nazioni al cambiamento, in altri il fine meschino che li sottende le con-duce verso il disastro. La caratteristica forse più saliente è il loro narcisi-smo. Il leader narcisista come ci ricorda Kohut vive la società circostante come parte di sé stesso, e non sopporta che alcuni gruppi politici o sociali non condividano le sue idee e, anzi, non ne siano entusiasti, questo fatto è per lui inconcepibile e la sua azione politica è consacrata soprattutto al ri-durre in silenzio quelli che non la pensano come lui. Il nostro italico bric-cone da un lato utilizza la sua potenza mediatica per far sapere agli italiani che è il salvatore della Patria, l’uomo del destino, il risolutore di ogni pro-blema, un grande statista, ma dall’altra non riesce a trattenere il suo lato nascosto, bricconesco, e si rivela ora come un despota che cerca di risolve-re solamente i propri problemi, ora come un bambino sorpreso con le dita nella marmellata che fa gli sberleffi a quanti lo hanno ritenuto un grande leader o un bonario papà. Ma è proprio questa sua doppiezza che affascina tanto gli italiani e a proposito delle sue capacità camaleontiche ben gli si adatta questa storiella sull’infanzia di Krishna che, sorpreso dalla madre Yasoda mentre rubava il burro di casa, le rispose: “Non stavo rubando il burro, mamma. Come avrei potuto farlo? Non è forse nostro tutto ciò che è in casa?” .

Ma perché gli italiani sono così affascinati da questo personaggio?

Il briccone politico è il rimosso degli italiani e rappresenta quello che essi odiano ed ammirano ma che non hanno il coraggio di manifestare, il loro complesso di inferiorità diventa così quella volontà di potenza che il leader assume su di sé e che riesce facilmente ad esprimere. Il rimosso è costituito da tutti quei contenuti, così penosi da riconoscere, che vengono proiettati all’esterno su altre persone e soprattutto sui molteplici personag-gi pubblici con cui poi ci si identifica, trasformando i loro lati oscuri in a-spetti positivi verso i quali è più facile avere un confronto.