Presenze e assenze divine nel diabolico mondo del cinema: un’occhiata psicoanalitica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

Lo psicoanalista che si occupa di cinema si domanda in tutta umiltà: perchè mi occupo di questo o quest’altro film? Perchè inseguo il tema del “doppio” o del serial-killer nel cinema? I film, come i romanzi, parlano di personaggi che vivono delle storie, qualche volta ispirandosi alla vita, altre volte creando esistenze e situazioni che la realtà stessa non ha ancora conosciuto. Sembra però che non vi sia migliore forza immaginativa di quella che scaturisce e si snoda nella apparente “quotidianità” del vivere. L’arte non trova migliore fonte di ispirazione che dalla vita, cucinata però con quel tocco personale che può trasformare ogni individuo in un essere creativo. È forse lo psicoanalista un critico cinematografico? Sì e no. Lo è nella stessa misura in cui un critico cinematografico è un po’ psicoanalista quando usa griglie del nostro mestiere per parlare di cinema. (Penso alla vena poliedrica di Guido Aristarco ed al suo saggio strepitoso su Sussurri e Grida di Bergman letto in chiave junghiana). È pacifico però che nessuno dei due si sognerà di rubare il mestiere all’altro. Ecco perchè, se vogliamo fare psicoanalisi ci rechiamo da uno psicoterapeuta, se vogliamo critica filmica acquistiamo riviste specializzate, recensioni presenti ormai su tutte le testate giornalistiche o ci rechiamo alle loro conferenze, e magari ai festival. Naturalmente gli appassionati e gli studiosi di cinema non cercano soltanto chiavi di lettura psicoanalitiche per capire, apprezzare o giudicare i film. Al contrario gli esperti dell’inconscio ed i cultori della “materia” psichica sono maggiormente intrigati dai significati reconditi o simbolici che appaiono nei film, curiosi come sono di scoprire meglio l’animo umano, con un intento che ci piace definire decisamente terapeutico. È storia nota, fin dai tempi di Freud, che l’analista si avvicina ad un’opera d’arte con lo scopo precipuo di rinvenire reperti che possano aiutarlo nel suo lavoro, con i suoi pazienti e con se stesso: come fruitore di un piacere estetico, ma anche come distributore e consigliere di film che aiutano a guarire ed a vivere. Se Wim Wenders ha scritto che il rock ha salvato la sua vita, credo sinceramente di poter affermare che il cinema ha contribuito e contribuisce a salvare molte vite anche per merito della recente scoperta della filmterapia, compresa la mia, salvata inizialmente dalla psicoanalisi, vissuta sempre come una entusiasmante avventura cinematografica. Ecco un’altra possibile definizione della filmterapia: prendere visione di tematiche specifiche affrontate da diversi artisti, con il desiderio e l’impegno di arricchire le proprie vedute. Con questa necessaria premessa mi occuperò “con occhio professionale”, di demoni e dei nel cinema.

Abstract

L’autore Amedeo Caruso, medico psicoterapeuta esperto di filmterapia e di bioetica, prende in esame quelli che secondo lui sono tra i più importanti film a carattere divino e diabolico cominciando da maestri quali Bergman, Bresson, Buñuel, Dreyer, Capra, Lubitch, Carné, per arrivare ai contemporanei Wenders, Besson, Beauvois, Groning, fino a Lars von Trier, alla cui pellicola dedica il discorso più lungo, perché perfetta e giusta per un lavoro psicoanalitico e filmterapeutico. In questo articolo vengono precisati i limiti dello psicoanalista rispetto al critico cinematografico, ma c’è una strizzata d’occhi psicoanalitica per ogni pellicola esaminata.

Jung e l’ipnosi

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 12, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

Ciò che Jung difende strenuamente non è solo il diritto di contestare Freud, ma anche e soprattutto la difesa della sua personale libertà di pensiero e di applicazione clinica. Non può sopportare un “giuramento da adolescenti” in cui non si può discutere il Verbo pronunciato dal Messia dell’Inconscio! Tale era anche il “patto” sulla sua teoria della sessualità, ed anche a questa Freud voleva costringere il futuro erede a genuflettersi e a considerarla intoccabile e impeccabile.

Così Freud perse la stima di Jung, che si ritirò consapevolmente dalla schiera dei suoi allievi, e proseguì solitario e sicuro il suo cammino, apportando alla pratica clinica ed alla teoria dell’inconscio il suo gigantesco e fertilissimo contributo.

Se ci siamo soffermati sul dissidio Freud-Jung è perché questo contrasto segna – secondo noi – un grosso punto a favore non soltanto di Jung, ma evidenzia anche tutto ciò che è importante, sostanziale per l’ipnosi.

Illustri studiosi di formazione psicoanalitica freudiana e lacaniana, come Leon Chertok, Raymond de Saussure, ed Isabelle Stengers hanno capito e dimostrato in scritti imprescindibili per chi voglia interessarsi al problema, le motivazioni del rifiuto di Freud nei confronti dell’ipnosi, e non staremo qui a ripetere le loro difficilmente confutabili teorie che noi condividiamo in pieno, ma accenneremo soltanto ad esse, integrandole con la nostra modesta aggiunta della teoria della libertà dell’inconscio in ipnosi. Se Freud inventa la psicoanalisi è proprio grazie all’ipnosi. Dall’ipnosi che per lui è troppo sfuggente e indomabile, incontrollabile e misteriosa, irripetibile in tempi e modi sempre uguali, e soprattutto incostante nei suoi effetti, ecco che, pur conservando e onorando la trance che definisce transfert, Freud trasforma un metodo troppo libero e apparentemente fumoso in una disciplina composta da quelli che Jay Haley nel suo libro Strateghi del potere definisce “gli stratagemmi della psicoterapia” e che considera dei pilastri incrollabili e intramontabili nei tempi, nei luoghi e nelle persone. Insomma un’invenzione perfetta, come quella del martello, che pur avendo origini antiche resta insostituibile e immutevole e soprattutto sempre efficacissimo. Questa scelta, direbbe Aldo Carotenuto, dipende dalla metapsicologia personale di Freud, che sentiva di dover controllare completamente il setting – peraltro da lui escogitato – per ottenere gli effetti terapeutici desiderati.

Abstract

Nel suo articolo, l’autore Amedeo Caruso inquadra i rapporti tra Jung e l’ipnosi attraverso una sintetica rivisitazione della carriera scientifica del fondatore della psicologia analitica. Inoltre spiega le ragioni che lo hanno spinto alla riscoperta dell’ipnosi, sull’onda di esperienze freudiane e junghiane refrattarie all’utilizzo della trance. Partendo dalla sua curiosità per l’ipnosi e dallo stupore per l’imprigionamento della stessa in un dimenticatoio, Caruso spiega come l’incontro con Ernest Rossi, il più famoso allievo di Erickson, e il lavoro svolto insieme a lui, lo abbiano convinto a riflettere su quanto e come Jung abbia soltanto “trasformato” l’ipnosi appresa da Janet a Parigi nel cosiddetto metodo dell’immaginazione attiva, tesi avvalorata anche dallo psichiatra James Hall. L’ipnosi, cacciata dalla porta sia da Freud che da Jung, è in realtà sempre rientrata, soprattutto ai tempi odierni, mascherata da magico transfert e colorata da immaginazione attiva, dalla finestra di ogni studio psicoanalitico.

I Nove Peccati Capitali dello Psicoanalista

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

Perché nove? Per arrivare al “decalogo” potevo inserire La manipolazione, ma mi sembra che sia già contenuta nell’Onnipotenza; oppure mettere al decimo posto l’incapacità di interpretare i sogni, che è però da considerare più un bagaglio scontato del vero psicoanalista che un errore peccaminoso. Se non sappiamo entrare personalmente anche nelle porte della percezione di trance, siamo inabili a condurvi i Pazienti, e così se non abbiamo dimestichezza con i nostri sogni (vie regie all’inconscio, secondo la intramontabile definizione freudiana) non capiremo niente dei sogni dei nostri Pazienti e perderemo tutto il materiale che ci offrono per aiutarli. Ritengo quindi l’interpretazione dei sogni un postulato della psicoterapia e non un possibile peccato per chi l’ignora, una mutilazione che impedisce quasi ogni possibilità di successo o di cura. Eppure devo constatare per esperienza che esistono “psicoterapeuti” che non sanno cosa diavolo farsene dei sogni. In accordo con Lucrezio mi sembra che gli psicoanalisti inter se mutua vivunt. Gli psicoanalisti vivono gli uni degli altri, in condizioni di uguale sofferenza e di reciproco, necessario, aiuto. Siamo insomma tutti sulla stessa barca. Il rischio più grave che si corre è quello di trasformare il nostro lavoro in un vero inferno umano, e spero che questo mio “annoverare” (parola che deriva dal numero nove, dai numerologi definito il numero dei numeri) solo nove voci, più vicino alla simbologia dantesca che a quella sacra, possa rappresentare un modesto elenco, redatto da un compagno di strada e non da un giudice, per espletare il nostro compito psicoterapeutico su un terreno di libertà, lontani dalla paura e rivolti ad una felicità operativa “che intender non la può chi non la prova”. Riguardo a coloro che scelgono invece l’inferno psicoanalitico, non è perché qualcuno ce li ha mandati, penso solo che quello è il posto in cui hanno scelto deliberatamente di abitare.

La noia è la nostra nemica più viscida. Se ci annoiamo con un Paziente dobbiamo capire perché, interpretare la cosa, valutare se è soltanto quel paziente che ci annoia, o dipende da noi che siamo annoiati del nostro lavoro o addirittura della vita. In questo peccato non ci sono mezzi termini: il nostro mestiere di analisti potrebbe finire qui. Esistono troppi racconti di psicoanalisti che si addormentano, che sono depressi, che appaiono svogliati ai loro pazienti. Quindi o la noia scaturisce da un rapporto particolare con uno o due Pazienti, e bisogna venirne subito a capo, comprendendo le ragioni della nostra emozione spenta, oppure dobbiamo interrogarci sul perché siamo annoiati svolgendo il lavoro più bello del mondo. È lecita la noia in tutti quei mestieri, ed ho profonda commiserazione per coloro che li svolgono, dove la motivazione è pari a zero. Non sto a citarli, perché mi assale una sgradevole malinconia, ma ciascun lettore o lettrice potrà pensare a quelli che gli mettono più tristezza. Per la verità forse non esistono in assoluto lavori noiosi, ma soltanto uomini e donne che svolgono noiosamente, per tartarughesca inerzia, questo o quell’altro lavoro. Quindi non si scappa: per definizione, il nostro è un lavoro nel quale non ci si può annoiare, o meglio, quando ci si annoia, è davvero divertente e intrigante e appagante, scoprirne le cause. Quando un Paziente segnalò a Freud il fatto che si era addormentato, mentre lui stava parlando, il Padre della psicoanalisi rispose: È vero, ma il mio inconscio era sveglio! …Lei mi stava annoiando!

….

La Paura è figlia della Morte e lo psicoanalista che non sa giocare una partita quotidiana con la morte non può dirsi tale. Ho incontrato la Morte tre volte prima di incontrare la psicoanalisi, non prevedendo che da allora l’avrei incontrata quasi tutti i giorni nelle vite e nelle storie dei miei Pazienti. Un incidente stradale a circa 21 anni, dove mi sono salvato miracolosamente dopo essere finito con l’auto in un canale di acqua profondo e guadagnando a nuoto la riva, dopo aver abbandonato il veicolo quando si inabissava inesorabilmente; sono sopravvissuto nel 1985 al sequestro della nave da crociera Achille Lauro, (un evento che ebbe risonanza mondiale, tutti rischiammo di morire, e l’ebreo Klinghoffer fu ucciso) dove viaggiavo come medico di bordo e che mi ha ispirato la sindrome del Giudizio Universale, il mio primo scritto di psicoanalisi; mi sono addormentato mentre guidavo nel 1987, reduce da un incontro sentimentale assolutamente distruttivo, svegliato miracolosamente da un santo travestito da camionista, che mi lampeggiava furiosamente e suonava una benedettissima sirena fuori ordinanza che mi ha svegliato in tempo, pochi secondi prima dello scontro frontale. Fu allora che decisi di entrare in analisi, appena sbarcato dalla nave con sogni premonitori di terapia psicologica e strapazzato da un amore che amore non era, ma soltanto infatuazione da aspirante poeta maledetto per una ammaliante, bellissima strega malvagia e soprattutto squilibrata. Ho capito poi che la vera Morte si nasconde dietro la malattia psichica, dentro comportamenti inconsci che ci fanno credere di essere vivi, e invece sono soltanto mine nascoste di follia che non abbiamo saputo riconoscere e che ci hanno sgretolato il cervello. La paura è la nostra incapacità di mantenere e gestire un equilibrio, è l’ostacolo che non vogliamo affrontare per scioglierci dal giogo della schiavitù. Aiutare una donna ad affrontare e liberarsi di un marito violento; sostenere dei giovani che hanno famiglie spaventose e spaventevoli; risollevare un uomo che è in preda alla depressione; incoraggiare chi ha perso la stima di sé; riportare sui binari un giovane che delira; confortare e curare chi non ha più speranze; assistere chi è affetto da patologie organiche serie o esiziali: di questo non dobbiamo, non possiamo avere paura. Sentirsi liberi di aiutare a trasgredire, quando trasgredire o tradire vuol dire avviarsi alla libertà ed alla realizzazione di sé, imparare a dialogare con la diversità, politica, religiosa, sessuale, etica, affrontare la morte che si cela dietro la maschera di queste patologie. Questo significa non aver paura, perché lo psicoanalista, come abbiamo visto finora, è un cavaliere con qualche macchia, ma senza paura. Impariamo ogni giorno di più che il nemico più forte da sconfiggere insieme ai nostri analizzandi è la paura di vivere, e solo chi ha paura di vivere ha paura di morire. Lo psicoanalista è un nuovo eroe nato nel XX secolo che ha ancora molto futuro e tante battaglie da combattere. Soltanto con questa immagine mitica di riferimento potremo affrontare le disgrazie e i dolori che tormentano i nostri assistiti. Un papa, non ricordo più quale, era solito predicare semplicemente così: non abbiate paura, non temete di amare. Soltanto così la morte sarà una nostra cara amica e compagna di viaggio, anzi una sorella, come la definisce san Francesco, forse l’uomo più psicologicamente sano mai esistito, come affermò una volta il mio professore di psichiatria Leonardo Ancona. Ho citato un papa e un santo, e mi convinco sempre più che la nostra è una missione “laicamente religiosa”.

Abstract

In questo articolo l’autore, Amedeo Caruso, enuncia, forse per la prima volta nella storia della psicoanalisi, quelli che sono, secondo lui, i nove peccati capitali della psicoanalisi: Vita Privata, Menzogna, Attaccamento Infinito, Noia, Cupidigia, Paura, Seduzione, Onnipotenza, Ignoranza dell’Ipnosi. Se ne occupa come un compagno di strada e non rivestito dalla toga di un giudice, con un tono accattivante ed anche un po’ cattivo, severo, perché nella sua idea chi pratica la psicoanalisi deve essere un cavaliere con poche macchie e nessuna paura. Con riferimenti alla storia della psicoanalisi ed alla sua propria esperienza personale, condensa in nove brevi capitoli le insidie ed i pericoli del mestiere. Nessuna pena capitale viene comminata, però. Il rischio è soltanto la perdita dell’ars psychoanalytica, da lui definita il vero inferno del terapeuta.

La morte al lavoro: accostamenti psicoanalitici alla tanatologia cinematografica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010

Torniamo indietro nel tempo incontro a uno dei film più intensi e memorabili della storia del Cinema: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, del 1956. Ho rivisto intenzionalmente il film in occasione di questa disquisizione psico-cine-tanatologica, e ho capito perché, con sorpresa e soddisfazione dello stesso regista svedese, il film “attraversò il mondo come un incendio”. Ispirato a Pittura su legno, atto unico dello stesso Bergman, fu girato con poche risorse in appena cinque settimane, quasi interamente in studio con minime riprese all’esterno. Quest’opera rimane un capolavoro perché nella sua intensità scarna ed essenziale riesce a rappresentare, in un bianco e nero nitido e significativo, l’incontro dell’Uomo con la Morte – e tutta l’angoscia umana relativa alla fine – e per la prima volta assistiamo a una lotta giocata sulla scacchiera (la morte pesca il colore nero e il cavaliere commenta che le si addice) ma che si basa su un rapporto dialettico sui massimi sistemi del vivere e morire, che nessun regista era mai riuscito a mettere in scena in modo così magistrale. Reduce dalle crociate insieme al suo scudiero (che ricorda un Sancho Panza o un Leporello, in bilico tra l’umorismo della spalla di Don Chisciotte e il cinismo del servo di Don Giovanni), il difensore della cristianità, che ha sulla coscienza l’uccisione di chissà quanti infedeli in nome del Santo Sepolcro, è pervaso dalla straziante ferita del dubbio, che lo spinge a pregare con la disperazione di chi sta perdendo la fede. Così ingaggia questa partita con la Morte per dimostrare, quantomeno a se stesso, che non può essere soltanto una sua vittima, ma anche un difensore della Vita intesa come puro amore per tutte le espressioni del creato. Nei vari incontri a scacchi Bergman riesce a fare esprimere al Cavaliere tutto il suo dolore e tutta l’angoscia per un mondo che anela al divino, ma ne sente tragicamente l’assenza. Insieme al suo scudiero deplorano inermi la messa al rogo di una presunta strega. Il tempo stringe, ma sebbene la Morte vincerà con uno scacco al re, il protagonista indimenticabile di questo film riuscirà a ingannarla consentendo all’unica coppia giovane della brigata – che si è venuta a formare lentamente durante il ritorno a casa e che è tutta condannata a morire – insieme al figlioletto di fuggire e sfuggire alla morsa della Padrona delle Tenebre. Questo è il modo in cui l’insuperabile talento di Bergman chiude i conti con l’Esecutore Ufficiale della Fine Umana: alla domanda del Cavaliere se sappia qualcosa di Dio le fa rispondere che a Lei non interessa sapere, ma che ciò che deve fare è soltanto portare a termine il suo compito. Lo spettatore viene lasciato in bilico tra la pietà per il dolore umano, spesso assurdo e incomprensibile e il desiderio di dare un assenso alla verità divina, sospeso tra il coraggio e la forza di chi si sente perduto e abbandonato nell’universo da un Dio muto e crede soprattutto nel futuro dell’uomo (come sembra propendere il regista con il messaggio di speranza espresso nella salvezza della coppia di attori – l’arte insomma) e l’atto di fede di chi si lascia andare, disarmato dalla ragione, alla fede e alla Divina Provvidenza. Ingmar Bergman coesiste in entrambe le figure e ci dimostra che ciascuno di noi vive sempre nel contrasto e nel dubbio, che sono gli unici valori che possono aiutarci a vivere coscientemente.

Dopo la morte di Bergman (che incontrò e affrontò la morte in compagnia di Antonioni il 30 luglio 2007) il regista tedesco Wim Wenders ha realizzato un film che ripropone oltre cinquant’anni dopo un nuovo incontro dell’Uomo con la Morte cominciato nel Settimo Sigillo. Nel film Palermo shooting del 2008 l’ultima mezz’ora (a nostro parere la più bella e drammatica nonché la più incisiva di tutta la pellicola) l’autore fa impersonare la Regina della Notte Eterna da un perfetto Dennis Hopper che sembra completare dopo mezzo secolo il discorso iniziato ne Il settimo sigillo di Bergman. Wenders riesce a dare un senso compiuto, quasi fraterno e cameratesco all’ignaro oscuro Padrone del Mondo Infero con un dialogo che riportiamo nei passi più significativi: La morte è un freccia dal futuro che vola verso di te. Un amico, una guida, il guardiano del tempo. Non c’è nessuna uscita, non c’è uscita dall’uscita, sono io l’uscita. Io sono dentro di te lo sai. Perché hai tanta paura? Non sostenevi di aver perso ogni paura della morte? (…) È soltanto un passaggio, io sono la tua uscita, devi passare attraverso di me, lo fanno tutti. Non chiamare felice un uomo finché non è morto…

Abstract

In questo articolo l’autore Amedeo Caruso sceglie un insieme di film di vari registi cinematografici italiani e stranieri che nelle loro opere hanno toccato con particolare sensibilità e profondità il tema della morte. Da Bergman ad Antonioni, da Fellini a Truffaut con l’inclusione di un film di Mike Nichols mai proiettato nelle sale in Italia e di qualche altra rara perla o dimenticato gioiello della cultura di celluloide, Caruso adopera il suo occhio psicoanalitico per scandagliare i migliori fotogrammi tanatologici inseriti nei film di questi autori.

Panni sporchi in famiglia e detersivi psicoanalitici

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009

Fedele alla ideologia fondante del Centro Studi Psicologia e Letteratura mi occuperò in questo articolo di scrittori, registi, musicisti e psicoanalisti che hanno costruito e percorso con le loro opere e le loro esistenze nuove strade artistiche ed umane.

Mi impegnerò a rovistare questa volta nel cesto dei panni sporchi di casa, tra le camicie, le mutande e le lenzuola dei personaggi letterari e cinematografici e dei loro autori e finanche di certi psicoanalisti – tutti a me cari – che hanno vissuto delle vite singolari, fuori delle regole e partorito creazioni letterarie, cinematografiche, musicali e psicoanalitiche meritevoli – sia le loro vite che le loro opere – di un ulteriore, forse nuovo discorso psicologico.

Con questo scritto desidero proseguire il discorso psicoletterario aperto da Aldo Carotenuto, mio maestro, in tanti libri da Lui dedicati alla interpretazione di poeti e scrittori.

La tesi carotenutiana rispetto alla vita di ogni artista è che l’opera, un’opera specifica (cinema, teatro, poesia, romanzo, musica e, perché no? psicoanalisi) richiede un certo tipo di vita, proprio quella vita vissuta dall’autore. Non è quindi la vita che fa l’opera e dunque per intenderci non è vivere da bohemien che ci fa diventare Baudelaire o Rimbaud, ma è l’opera che ci proponiamo, alla quale attendiamo, che pretende una vita da poeta maledetto con assenzio, disperazione, droghe e donnine o maschietti indispensabili al compimento della stessa. Quindi non basta essere stati deportati ad Auschwitz per diventare Primo Levi, o avere l’asma per scrivere La Recherche come Proust.

L’intento di frugare tra i panni sporchi di artisti e psicoanalisti nasce dalla volontà di cercare un po’ di scheletri nell’armadio che altri studiosi e artisti hanno già contribuito con il loro lavoro a far conoscere parzialmente. La nostra differenza, e la nostra distinzione saranno soltanto l’uso della chiave psicoanalitica, un passepartout che consente soltanto alla femme de chambre l’accesso a tutte le camere dell’albergo. Il nostro scopo sarà quello di sorprenderci e capire senza alcun bisogno di mettere in ordine le stanze che andremo a visitare, con l’opportunità di scoprire il genere di indumenti intimi presenti in essa, eventuali prove nelle lenzuola, presenza di libri e medicinali, lettere, appunti sparsi, e tracce significative dei nostri Ospiti.

Sarà dunque questo un diario della femme de chambre, come può essere definito lo psicoanalista al quale viene consegnata dai clienti la chiave del loro inconscio e del loro cuore, attraverso i sogni e le confidenze. Oltre ad essere quindi una prostituta mercuriale, secondo la felice immagine creata da James Hillman, lo psicoanalista può essere per noi anche una perfetta femme (o alternativamente e/o contemporaneamente) homme de chambre, androgino e trans-erotico come deve essere un Sacerdote di Psiche. Benvenuti dunque nel Residence Arte & Psichefuturista.

Abbiamo invitato in questa immaginaria (convinti che tutto quel che si immagina, esiste) Casa del Rendez-Vous Creativo & Psico-Detersivo le seguenti gentildonne e gentiluomini: Jean Cocteau, Luchino Visconti, Louis Malle, Paul Gegauff, Anna Freud, Gisela Palos, Elma Palos, Sandor Ferenczi, Sybille Lacan, Jacques Lacan, Liliane Siegel, Jean-Paul Sartre, Oscar Wilde, Alfred Douglas, Daniel Barenboim, Hilary e Jackie du Prè, e Honorè de Balzac. Sono nostri ospiti ed hanno accettato amabilmente questo appuntamento.

Abstract

In questo articolo l’Autore si prefigge il compito di rovistare nei “panni sporchi” di artisti come Cocteau, Balzac, Chabrol, Malle, Cecil Beaton e Greta Garbo, Camille Claudel, Luchino Visconti, Sartre, Oscar Wilde, Paul Gegauff, Hilary e Jackie du Pré, Daniel Barenboim e psicoanalisti quali Anna e Sigmund Freud, Sandor Ferenczi, Jacques Lacan, con il desiderio di capire meglio le loro vite e le loro opere. L’intento è quello di proseguire il discorso psicologico iniziato dal suo maestro Aldo Carotenuto riguardo l’opera artistica. L’opera d’arte richiede un certo tipo di vita, proprio quella vita vissuta dall’autore. Non è quindi la vita che fa l’opera, ma l’opera che chiama, che necessita di quel genere di vita. Non bisogna temere di osare dove gli altri temono di camminare, soltanto così ci si potrà districare meglio nelle infinite pieghe del mistero della vita e leggere con più luce le pagine della psiche e dell’arte.

Lou Andrea Salomé: Arte Psiche e Libertà

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto

Lou nasce a Pietroburgo in Russia, il 12 febbraio 1861. Unica figlia di un generale che la adora e di una madre molto più giovane del marito, Lou ha cinque fratelli, due morti giovani. Il fratello maggiore segue le orme paterne abbracciando la vita militare, quello di mezzo farà l’ingegnere, il fratello minore diventa pediatra.

La perdita della fede in Dio fu il primo grande choc della adolescente Louise, che ricorderà questo momento acuto e terribile in un suo scritto psicoanalitico, quasi lei stessa avesse precorso le idee freudiane sull’esistenza di Dio, come un desiderio di un padre perduto, il bisogno di un padre eterno che ci accolga e ci perdoni. Alla morte del padre infatti dirà a se stessa ( e lo scriverà): “ecco ora sono veramente sola e indifesa”. Con il padre ha un rapporto preferenziale, profondo e passionale, lo adora. C’è un ricordo di un episodio di quando era bambina e viene morsa da un cane di famiglia a cui è affezionata. Non dice nulla e va a scuola. Al ritorno apprende che uno dei servitori di casa è stato morso anche lui dal cane e che l’animale viene soppresso perché sospetto portatore di rabbia. La bambina chiede allora al medico quali siano i sintomi della malattia e viene a sapere che sono l’idrofobia e il desiderio di mordere il migliore amico. A questo punto è terrorizzata perchè teme di voler mordere il padre! Dal padre ancora apprende il valore del denaro. Una volta lui le dona una moneta d’argento da dieci copechi per insegnarle il valore dei soldi. Lei però vuole dare in elemosina la moneta a un mendicante. Il padre si oppone e le spiega che ciò che deve fare e cioè donare al povero solo la metà della sua ricchezza. Così il padre tramuta la moneta da dieci in due da cinque, altrettanto brillanti e in tal modo le consente di fare del bene. Ha invece un rapporto conflittuale con la madre. Prova ne sia una storia della sua prima infanzia, quando vede dalla spiaggia la madre che nuota e le urla “mammina, tesoro, annega, ti prego!”. La madre sbalordita risponde “ma allora morirei” e lei: “non fa niente!”.

La madre vivrà fino a novant’anni ma Lou le darà filo da torcere perché non si sottometterà mai alla sua giurisdizione. Giovanissima comincia a viaggiare insieme alla mamma senza mai subire i suoi precetti. Lo spirito libero che è in lei si libra in volo prestissimo. Incontra in Italia Malvida Von Meysenburg, una protagonista della liberazione femminile ante litteram, autrice di un libro che a quei tempi fece epoca, “Memorie di un’idealista” trasferitasi a Roma (“la sola città che come poema vivente possa soddisfare i bisogni estetici dell’anima” secondo Malvida) e che diventò una sorta di madrina spirituale di Lou, ma non per molto tempo. Conosce nel suo salotto in via della Polveriera, poco distante dal Colosseo, Paul Rée, autore di un libretto di aforismi – pubblicato anonimo – dal titolo “Osservazioni psicologiche” con cui aveva conquistato l’amicizia e la stima di Nietzsche. La giovane russa era alta, slanciata, con splendidi occhi azzurri, così brillanti che di lei si diceva che quando entrava in una stanza nella stessa sorgeva il sole, imbastì una tenera affettuosa e complice amicizia – senza alcun risvolto sessuale – con Paul Rée suscitando una campagna di odio e diffamazione contro di lei sostenuta da Malvida Von Meysenburg con lettere offensive alla famiglia di Lou e alla madre di Rée. A questo si aggiunsero poi gli strali di Elizabeth Nietzsche, sorella del futuro famosissimo filosofo, amico di Paul che finirà per andare a vivere con i due nello stesso appartamento. Curioso, davvero curioso: Lou racconta a Rée di avere un sogno ricorrente: divide un grande appartamento con due uomini, due amici, al centro della grande casa con studio e biblioteca. Fiori e libri e ai lati della stanza si aprono camere da letto. Vivono davvero tutti e tre insieme e insieme lavorano in perfetta momentanea armonia senza che l’essere donna fra due uomini turbasse la serenità della convivenza. Una donna scandalosa per quei tempi, non c’è dubbio. Ma forse sarebbe altrettanto scandalosa una donna che si comportasse così ai nostri tempi e agli occhi di chi guarda senza pensare e senza cercare di capire. Quel che segue è abbastanza noto: il ménage à trois regge male perché Nietzsche le chiede per ben due volte di sposarlo ma lei rifiuta. Non riesce a confondere amicizia, confidenza, convivenza, confraternita e matrimonio. Lou ha una concezione molto speciale dell’amicizia e del sesso, nonché del matrimonio. Sta di fatto che non vuole rinunciare all’amicizia con Fritz, ma non vuole neanche scambiare la sua libertà con una fede nuziale. D’altronde ha già rifiutato le profferte di matrimonio di Paul. I due compari dovrebbero aver capito in quale storia si sono infilati accettando Lou come coinquilina. Pare che lo Zarathustra sia un’opera consolatoria di Nietzsche, dove non è tanto tenero con le donne e nel libro aleggiano frasi vendicative forse dirette unicamente a Lou (“Vai con le donne? Non dimenticare la frusta!”). Nietzsche non conoscerà mai la gloria della portata del suo pensiero che invaderà tutto il secolo fino a sfociare nella psicoanalisi. Darà segni di follia baciando un cavallo a Torino, (una lapide nella città, in via Carlo Alberto testimonia l’episodio) vittima della tabe dorsale, ultimo stadio della sifilide contratta probabilmente in Sicilia. Lou andrà diretta verso la psicoanalisi, passando per la poesia. Di lei infatti Freud dirà: “Lou è il poeta della psicoanalisi”. Quando uscì in Italia il film di Liliana Cavani ci fu uno scandalo quasi simile a quello di “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci. Nel film della Cavani si avanza l’ipotesi che Paul Rée ritrovi se stesso nel riconoscimento della sua omosessualità ed esiste una scena che fece inorridire e sgomentò i perbenisti, quella in cui il personaggio viene sodomizzato con il collo di una bottiglia. Felix Guattari in una conversazione con Liliana Cavani nel 1977 pubblicata su “Le Monde” affermava: “devo dire che nel film mi sono sentito scrutare da uno sguardo di donna, una donna che ha per me un’identità composita, che è insieme Liliana Cavani, Dominique Sanda, Lou Salomé, ma anche certe donne con cui ho vissuto situazioni analoghe. Dato che la stampa francese ha accusato Liliana Cavani di preferire il sex shop alla verità storica, c’è una sola risposta possibile – che era già stata di Lou e che oggi è di Liliana Cavani: non dovete rendere conto a nessuno”. Proprio così, Lou Salomé non vuole rendere conto a nessuno a meno che non sia per propria scelta, e questo accadrà soltanto con Freud, quando si sottopone all’analisi con lui. Nell’intervallo di tempo di attesa dell’incontro con Freud che avverrà nel 1911 e che darà un giro di boa, il classico “turning point”, la vita di Lou è semplicemente elettrizzante. Incontra molti uomini, scrive molti libri, ma il libro più importante è quello della sua vita, neanche la sua autobiografia o i suoi scritti su Rilke e i romanzi come “Ruth” o “Fenitschka” lasceranno una traccia così indelebile nella storia del cammino umano e della psicoanalisi. Conosce oltre a Nietzsche e Rée anche Rilke, Wagner e Martin Buber, Strindberg, Wedekind e ancora Stanislavsky, Max Reinhardt, Leonida Pasternak (il padre di Boris) e finanche Tolstoj.

Durante la sua vita le furono appioppati diversi nomignoli e frasi da leggenda, quelli dispregiativi sempre collegati con il suo demonico potere di conquistare gli uomini, di farli innamorare di sé, ma soprattutto inscindibili dall’invidia che li creava: la “strega dell’Hainberg” è quello che le “donano” gli abitanti di Gottingen, la città dove aveva la residenza con il professor Andreas unito a lei da un matrimonio bianco. Non sappiamo chi abbia coniato la frase: “quando Lou si appassiona a un uomo, dopo nove mesi costui mette al mondo un libro!” ma crediamo che sia davvero quella che racchiude tutta la potenza creativa di questa donna fatale, più forte dell’uomo, capace di inventare la nuova donna, un essere in grado di ristabilire l’equilibrio troppo a sfavore del femminile. In questo le sono sorelle Anais Nin, Virginia Woolf e Sabina Spielrein. Indipendente e sicura di sé come Anais, svolge un ruolo fondamentale per Freud e con Freud così come Anais ha fatto con Rank. Le sue idee sulla guerra sono all’incirca le stesse che enuncia Virginia in “Tre ghinee” e la conclusione è unica: fate andare al potere le donne e vedrete che forse guerre non ce ne saranno, ci sarà più dialogo, più pietas per i morti causati da vivi maschi; altrimenti lasciateci in pace, ci tiriamo fuori, la guerra è un affare maschile, ci resta soltanto la possibilità di piangere i nostri figli caduti. Per la psicoanalisi è come Sabina, sarà forse più importante di Marie Bonaparte presso Freud. Così come Sabina è stata importantissima per Jung forse più di Emma o di Tony Wolff. Se Marie Bonaparte ha istituito la psicoanalisi freudiana in Francia e ha prodotto anche la nascita di un Lacan (pensandoci bene), l’apporto di amicizia e solidarietà che Lou regala a Freud è impareggiabile. Se Anais può scrivere nei suoi diari che è pronta per la conquista di Jung (e chissà cosa sarebbe successo se si fossero davvero incontrati!), Lou ha conquistato decisamente Freud, con il quale manterrà un sodalizio – senza sesso – sincero e immutato dal 1911, anno del loro incontro fino alla morte di lei.

Abstract

In questo articolo l’autore Amedeo Caruso si interessa della scrittrice e psicoanalista Lou Andreas Salomé, una delle donne più rappresentative del Novecento e bandiera di tanti movimenti di liberazione femminile sorti intorno al 1968 nel mondo. Nel tratteggiare le opere e i giorni di quella che è stata la prima vera psicoanalista della storia, Caruso sottolinea reale conquista ottenuta da questa artista dopo l’incontro con Freud: la libertà intesa come difesa e garanzia delle proprie idee e azioni lontane dalla morale comune una Weltanshauung frutto di profonde riflessioni e vissuta pienamente, con alta responsabilità e coraggio.

La Psicoanalisi, i Clienti, gli Allievi, il Caso, la Borsa e la Vita

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 7, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

La questione “denaro” com’è noto, rappresenta uno dei ploys, (uno stratagemma) dello psicoanalista per mantenere quella che oltre 50 anni fa Jay Haley ha descritto come oneupmanship, la supremazia dello psicoanalista. Cosa dice Haley in questo insuperabile scritto intitolato: La psicoterapia come arte? Semplicemente che lo psicoanalista è un soggetto che deve mantenere la sua supremazia sul paziente, (naturalmente per poterlo curare) ponendolo continuamente in posizione “one-down”, traducibile in italiano con un antipatico assoggettato, sottomesso, fintanto che lo stesso non si arrende a questa condizione; da quel momento comincia davvero l’analisi.

Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.

Questo combattimento è necessario e ineludibile e può durare anche molti mesi e avere perfino delle ricadute durante l’analisi. Lo psicoanalista però ha a disposizione gli stratagemmi indicati da Freud che sono intramontabili e inattaccabili quali il Transfert, il Tempo, la Richiesta e la Motivazione dell’analizzando, l’Interpretazione dei sogni da parte dell’analista, e non ultimo il Denaro che rappresenta lo scambio di energia economica restituita in termini di energia psichica. Insomma, dice Haley, grazie a questi stratagemmi lo psicoanalista può e deve continuamente affermare la sua supremazia (non il potere, si badi bene) ma se volessimo proprio chiamarlo con questa parola va anche bene, purchè aggiungiamo potere a fini terapeutici, dunque non per desiderio crudele di mettere l’altro in stato di schiavitù. Tale supremazia ha lo scopo di aiutare il soggetto richiedente a mettersi nelle mani dello psicoanalista, a lasciarsi andare, letteralmente ad affidarsi e a quel punto comincia il vero lavoro, quello di mettere one-up il paziente, capovolgendo i ruoli lentamente per farlo sentire nella pienezza della sua autonomia seduta dopo seduta.

Il denaro dunque è uno degli stratagemmi fondamentali della psicoterapia. È anche naturalmente una forma universalmente riconosciuta di pagamento per qualsiasi lavoro le persone svolgano. Nel caso della psicoanalisi però si tratta anche di uno strumento interpretativo, e se perdiamo questa occasione, ogni occasione per interpretare, è come se lasciassimo passare in silenzio un sogno dove per esempio l’analizzando fa l’amore con la madre. Devo dunque domandarmi perchè l’avvenente fanciulla che ho in terapia da quasi un anno negli ultimi due mesi alla fine di ogni seduta esordisce così: “Le dispiace se la seduta la pago la prossima volta?” e prosegue così per quattro, cinque sedute di seguito adducendo ogni volta una scusa diversa quando invece per i primi otto, dieci mesi è stata sempre puntualissima nel pagamento ad ogni seduta (come pattuito). Naturalmente bisogna rispettare i patti e se il patto la cui forma lascio in genere decidere al paziente, come generoso atto di supremazia) prevede il saldo ad ogni seduta potrei anche passare sopra ad un atto mancato isolato (ma in realtà non ci passo mai: interpreto sempre, prima o poi) ma perderei tempo e lo farei perdere al soggetto se non lavorassi su questo comportamento

Abstract

In questo articolo vengono raccontate diverse storie di psicoanalisi e di vita con particolare riferimento allo stratagemma psicoanalitico del denaro. L’autore si avvale della sua ventennale esperienza come psicoanalista e come analista didatta e supervisore di una scuola di specializzazione in psicoterapia per mostrare come ci si può arricchire anche perdendo l’onorario di qualche paziente.

Il mediatico consiglio del medianico coniglio (una capsula di medi-cine-terapia)

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

L’intento del mio neologismo medi-cine-terapia è quello di combinare – lacaniamente se volete – l’effetto mediatico (e dunque anche del godimento) insieme a quello terapeutico della visione filmica.

Film come medicine, compresse effervescenti ipnotiche che si sciolgono in non più di un paio di ore, farmaci psicologici quasi senza effetti collaterali e privi al 99% di controindicazioni. La pillola che vorrei suggerirvi quest’oggi è una lezione cinematografica a proposito della comunicazione. Sono certo che il pubblico nato intorno agli anni ’50 del secolo scorso avrà senz’altro visto questo film. Per tutti i più giovani mi auguro che questa occasione sia propizia per prendere visione del film in questione, reperibile per un pugno di euro in dvd. Onestamente non so dirvi quanto un film possa essere terapeutico senza una sana, autentica psicoterapia svolta insieme ad un altro essere umano. Personalmente credo che migliaia di buoni film “terapeutici” non valgano il confronto dialettico analista-paziente. Sono però convinto che una psicoterapia nella quale sia presente la prescrizione di film aderenti alle tematiche conflittuali del cliente, come a volte mi capita di fare con i miei pazienti, consegnando loro un film di complemento alla terapia, un contorno extra insomma, non guasti ed anzi contribuisca a sviluppare ed arricchire il nostro lavoro.

Fatte queste premesse non mi resta che raccontarvi per sommi capi la trama. Il film in questione s’intitola Harvey, è stato scritto dal premio Pulitzer Mary Chase e diretto dal regista Henry Koster nel 1950.

Il protagonista si chiama Elwood P. Dowd ed è interpretato da James Stewart. Mister E. P. Dowd è l’unico a vedere Harvey, un coniglio bianco alto quasi 2 metri, del quale è compagno inseparabile. Questa stranezza lo rende inviso a tutti i benpensanti, a cominciare dalla sorella e dalla figlia di questa, che occupano però la casa di proprietà del fratello e zio che ha ereditato tutto dalla madre.

Questa dolce, innocua follia spinge le due megere a far rinchiudere il povero Elwood in un manicomio con l’intenzione di fargli praticare dei farmaci per “curare” questa allucinazione.

La ragione per cui ho scelto questo film come argomento della mia breve conferenza all’ottavo convegno del Centro Studi sulla comunicazione consiste nella mia convinzione che in questa storia c’è molto da imparare sulla psicologia della comunicazione. Credo che la pellicola rappresenti una salutare pillola da assumere per riconsiderare il nostro comportamento nel mondo.

Per fare in modo che la pillola della medi-cine-terapia funzioni, bisogna che facciamo entrare dentro di noi i personaggi del film, a cominciare da quello principale interpretato da James Stewart.

Vediamo allora chi è il candido giovanotto che parla al coniglio invisibile a tutti, tranne che a lui. Mr. Elwood sembra che non abbia alcun lavoro tranne quello di andare in giro con il suo compare dalle lunghe orecchie, recandosi di preferenza nei bar dove trascorrono la maggior parte del tempo bevendo Martini cocktails.

Un’altra attività di Mr. Elwood è quella di dare retta a chiunque e di interessarsi con affetto ai problemi e alla vita degli altri, con particolari preferenze verso i barboni, le persone semplici ed anche ex- galeotti.

Si profila quindi il ritratto di un esperto della comunicazione, che grazie all’amicizia con il fantomatico coniglio riesce a stabilire contatti pregnanti con gli esseri umani mediante vari escamotages vincenti: la dolcezza, l’assenza di malizia, la generosità (quest’ultima intesa sia in senso economico che come donazione di sé). E infatti alla fetta di umanità più sofferente prediletta da Elwood la stramberia del coniglio risulta molto più facile da gestire e accettare. Non accade lo stesso invece per la sorella e sopratutto per la nipote le quali temono l’emarginazione da parte della borghesia che frequentano a causa di questo “zio indegno” (il riferimento ad un’altra giuggiola di medi-cine-terapia, il film omonimo di Franco Brusati, del 1989 è puramente voluta).

C’è un particolare che a me sembra di enorme importanza nel modo di fare di Elwood: a qualunque persona egli incontri, dal postino al tassista, dall’infermiere del manicomio allo psichiatra, fino ad un occasionale avventore del bar, egli consegna gentilmente il suo biglietto da visita, che viene quasi sempre respinto o accettato con bonaria sufficienza.

I tentativi di comunicazione del tenero amico del coniglio sono dunque frustrati e spesso rifiutati, finchè non vengono capiti nella loro intima e profonda sostanza, come accade alla moglie del primario della clinica che rimane stregata dal comportamento angelico dell’uomo che vede e parla al coniglio, ma che sa sopratutto parlare agli uomini con l’esperanto dell’amore, dell’accettazione dell’altro e dell’accoglimento del diverso, specie se sofferente. Ma non è questa in fondo una metafora di un buon lavoro psicoanalitico? Quest’uomo non riesce a sopportare troppa realtà, come l’uccello di T. S. Eliot (Via, via – disse l’uccello – il genere umano non può sopportare troppa realtà, Quattro Quartetti, I). Ma in questa vicenda cinematografica oltre che il poeta inglese viene tirato in ballo anche un poeta irlandese, W. B. Yeats, per la sua passione verso gli spiriti e i folletti. Infatti a un certo punto del film Stewart definisce chiaramente Harvey come un pooka, che è un nome celtico mitologico, riferito a spiriti buoni sotto forma animale, sempre molto grandi che appaiono in luoghi diversi di tanto in tanto, ora all’uno ora all’altro umano; sono creature maliziose ma benigne, amantissime del bere e dei pazzi.

Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.

Abstract

L’autore dell’articolo (un esperto di “medi-cine-terapia” e appassionato di “film che curano”) propone una visone cinematografica “terapeutica” utilizzando un vecchio film, “Harvey”, del 1950. Questo film – propone l’autore – potrebbe aiutarci, come un buon farmaco, a migliorare le nostre capacità psicologico-comunicative. Il protagonista, interpretato da un James Stewart in stato di grazia, è unico a vedere un grande coniglio bianco e questa stranezza lo porta in manicomio per mano di una sorella e una nipote perbeniste. Grazie a questo animale, però. Ogni personaggio della vicenda – incluso lo spettatore – imparerà una lezione d’amore.

Frammenti di un insegnamento dell’inconscio sconosciuto: Aldo Carotenuto, un maestro paziente

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006

Devo confessare che durante quello che noi psicoanalisti definiamo il periodo prodromico dell’analisi, cioè quei giorni, settimane o mesi che rappresentano l’aura della psicoanalisi, insomma quell’anticamera che si definisce preanalitica, l’intervallo che passa tra la decisione di andare in analisi e il momento in cui si entra in analisi gli avevo inviato qualche paziente che ritenevo potesse giovarsi del suo aiuto. Tralascio le ovvie interpretazioni (del resto giustissime) relative a questo comportamento, in quanto i pazienti inviati, sebbene necessitassero davvero di consulti psicoanalitici, rappresentavano anche simbolicamente tutte le parti di me che volevano andare in analisi da lui. Così, attraverso queste persone, ero venuto anche a conoscenza del suo onorario o forse dovremmo dire di quella che era la media del suo onorario.

Il mio futuro maestro aveva richiesto da me un onorario ben più alto di quello stabilito con i miei pazienti. Questa rappresentava davvero una “provocazione”. La mia interpretazione era che io pagassi molto se proprio desideravo avere lui come analista. Ho capito dopo che questa è una mossa sullo scacchiere dell’analisi che lo scacchista-istruttore può adoperare per valutare la motivazione di un apprendista-paziente. Questo sacrificio ha rappresentato anche la mia potenzialità a trasformarmi in paziente – apprendista stregone. Così ho fatto tesoro anche di questo insegnamento. Ho capito che le prime mosse sul campo dell’analisi vanno giocate anche con temerarietà, ben sapendo che, nella conduzione del viaggio analitico, è il cocchiere che decide quando e se frustare il cavallo, per giungere a destinazione insieme al paziente che siede in carrozza. È il conducente che si accorge se sta tirando troppo la corda o quando è il tempo di uno zuccherino per il quadrupede. Voglio dire con questo che, nel lavoro analitico, i patti e le decisioni possono essere sempre riesaminati insieme con il paziente. Questo significa che posso ridurre il mio onorario in occasione di notizie relative a difficoltà economiche di un paziente, come posso pattuire in anticipo un aumento della mia retribuzione, per esempio quando un giovane psicologo diventa un professionista che comincia a guadagnare, oppure se una disoccupata ottiene l’agognato posto di lavoro.

Dunque, dovevo pagare la metà del mio guadagno, dispormi ad una penale consistente per farmi psicoanalizzare. Accettai così il confronto senza naturalmente fare mai commenti su questo aspetto. Si trattava di una lezione ed appresi rapidamente a tenere conto di ogni insegnamento mi potesse pervenire dal mio analista. Avrei imparato in seguito che spesso gli psicoanalisti richiedono alte somme di denaro per farsi ripagare della noia prevista o prevedibile con un paziente che non gli sembra eccessivamente interessante, mentre invece non hanno bisogno di una forte ricompensa economica se si sentono intrigati dal caso clinico. Posso complimentarmi con me stesso, oggi, di essere stato capace di leggere in una chiave diversa il suo comportamento, come un invito a meditare su quanto costasse l’analisi, ed il modo principale consisteva nello sborsare una somma ingente. Non mi balenò in testa, per fortuna, che ai suoi occhi potessi apparire un caso facile, semplice, e routinario. Mi salvò non avere troppo idee o conoscenze riguardo al lavoro ed agli strumenti analitici. Questo indica anche come il soggetto digiuno delle tecniche analitiche ha meno sovrastrutture difensive nei confronti dell’opus analitico, che tradotto in soldoni significa lasciare scivolare più dolcemente la macchina terapeutica. Avrei imparato più tardi, ancora, che l’uso del denaro guadagnato in analisi rappresenta il modo in cui noi psicoanalisti consideriamo il frutto del lavoro dei nostri pazienti. Questo indica un’attenzione onesta e seria a quello che è il lavoro dei nostri pazienti. Ricordo sempre un mio giovane paziente che pagava il suo lavoro analitico, – che avevamo pattuito insieme – con lo stipendio che guadagnava andando a lavare i piatti due sere a settimana in un ristorante. I racconti relativi al tipo di esperienza vissuta insieme a molti extracomunitari che lavoravano nel retrobottega del ristorante, sono diventati per lui e per me poi oggetto di interessanti ed utili conversazioni. Io sapevo che lui faticava manualmente per pagarsi l’analisi e lui ha distillato materiale importante per scrivere. Dal mio canto io ho imparato da allora a considerare meglio il valore del denaro. Così è l’analisi: si lavora in due e bisogna imparare anche in due.

Potrei giurare che durante le mie letture adolescenziali l’incontro con il pensiero junghiano mi lasciò esterrefatto, tanto da subire una fascinazione così forte e profonda che decisi, stranamente ma saggiamente (oggi posso dirlo con sicurezza e soddisfazione) di seppellirlo come un tesoro al quale si dà un appuntamento più tardi. Questa era la mia isola del tesoro, verso la quale avrei navigato dopo il giro di boa dei trent’anni. Non fanno forse così anche i cani che, per istinto nascondono un osso per poterlo poi ritrovare nel momento del bisogno? In quel tempo ero alle prese con studi di greco e latino, scienze e letteratura, e davvero non rimaneva uno stralcio di tempo per studiare quello che avevo intuito che potesse diventare una fonte per me meravigliosa di conoscenza e probabilmente di lavoro.

Mentre spolvero questi ricordi sugli scaffali della memoria, mi sento quasi incredulo nel pensare che già intorno ai miei sedici anni riuscivo a leggere in lontananza qualche spiraglio di luce del futuro che mi attendeva.

Quando intorno al 1990 seguivo – senza che se ne accorgesse – le conferenze che Aldo Carotenuto svolgeva in giro per l’Italia, affamato come ero di conoscenza del suo pensiero e del suo lavoro, mi sono trovato di fronte a un pensatore formidabile, che argomentava a Bologna in modo celestiale e soave a proposito dei legami e delle connessioni tra psicologia e religione, denunciando l’anima naturaliter religiosa dello psicoanalista e poi, il giorno dopo, a Venezia argomentando sottilmente sulle caratteristiche mefistofeliche dell’amore, operando quasi un’apologia del tradimento.

Aldo Carotenuto non seppe se non molto più tardi che spesso, quando potevo, mi recavo ad ascoltare, il più possibile mimetizzato fra il pubblico o i suoi studenti nelle ultime file, le conferenze che teneva a Roma e in giro per l’Italia oppure le lezioni che svolgeva all’università.

Non a caso infatti dopo circa due anni di analisi feci questo sogno:

Stavo discutendo di nuovo la tesi di laurea in medicina e questa volta il relatore era lui e l’argomento era di carattere psicologico.

Io ero raggiante, e lui si trasformava nel preside della facoltà e mi conferiva la lode.

Bisogna dire che dopo questo sogno Carotenuto mi fece balenare in mente la possibilità di lavorare anche come psicoanalista.

Da quel momento i nostri rapporti diventarono molto più stretti ed io entrai nella seconda fase di apprendimento psicoanalitico che fu davvero memorabile in quanto in seguito alla comparsa di certi sintomi medici mi chiese di visitarlo. Da allora diventai ufficialmente il suo medico curante.

Intorno al 1991 dunque, quasi 15 anni or sono, quando per note vicende Aldo Carotenuto decise di uscire dall’Associazione Italiana di Psicologia Analitica da lui fondata, ricordo che non avevo parlato con lui di questa faccenda ed avevo apprezzato il suo silenzio riguardo alla storia, poiché ero stato accettato proprio quell’anno ai corsi dell’AIPA. Indipendentemente da ciò che accadeva, lui non mi aveva mai spinto a lasciare questa associazione. Mi resi da solo, però, che si trattava di un’istituzione dove la psicoanalisi veniva trattata – secondo me – a livello liceale e di fare ancora lo studentello non avevo proprio intenzione. Resomi conto poi dell’inutilità di appartenere a un’istituzione nella quale non mi riconoscevo, scoprii che la mia impazienza e la mia noia rispetto a docenti e argomenti erano giunte al limite. Mandai dunque un telegramma di congedo deprecando il comportamento ”maccartista” – insomma di caccia alle streghe – del consiglio direttivo. Mi convinse un sogno sul quale Aldo rise di cuore:

Sentivo una mano che mi strizzava i testicoli.

Comiciò così l’avventura del Centro Studi Psicologia e Letteratura.

Sulle tracce psicologiche del serial-killer dentro e fuori del cinema

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 1, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2005 – Estratto

Questa storia per noi psicoanalisti ha origini lontane. Non certo soltanto negli anni ’70 quando tre ragazzi della cosiddetta “Roma bene” perpetrarono le follie assassine del Circeo, ai danni di due povere ragazze, una sola delle quali sopravvissuta miracolosamente. Erano già i tempi in cui impazzava sempre a Roma una banda definita dell’Arancia Meccanica che compiva furti e violenze carnali tenendo in ostaggio coppie o famiglie minacciandole poi con la promessa di ritorsioni se avessero parlato.

In quegli stessi anni veniva barbaramente massacrato il poeta Pier Paolo Pasolini. Il suo ultimo film, un vero e proprio testamento artistico-psicologico, coniuga, illustrandoli, il piacere del male e la pazzia del potere. Salò-Sade, le 120 giornate di Sodoma è un film disgustoso come i campi di sterminio dei nazisti. Non è bello, niente affatto godibile, è insopportabile, ma è vero, come vere sono le immagini dei corpi ammassati e macerati di scheletrici ebrei annientati prima ancora di essere eliminati fisicamente – immortalati, è il caso di dirlo, da vecchi preziosi videofilmati che fanno il giro del mondo.

I giornali continueranno a sbattere il mostro in prima pagina. I magistrati, gli avvocati, i preti, i direttori degli istituti di pena, i reporters, i mass-mediologi continueranno ad esercitare il loro mestiere con tutte le difficoltà umane, gli errori, le carenze, i limiti della nostra specie.

Le diagnosi possono essere inesatte, il rischio delle condanne carcerarie potrà sempre oscillare tra Scilla e Cariddi, tra la severità della pena come spauracchio per eventuali proseliti e la pietà morbida che riposa nell’idea del recupero.

Sì, a nome degli iniziatori della psicoanalisi che hanno capito di dover combattere il proprio irrazionale malato in prima battuta e quindi quello degli altri, fino a noi eredi moderni della psicoterapia (a cui hanno passato il testimone ben quattro generazioni di studiosi dell’inconscio) dobbiamo urlare, ripetere il lamento di Cassandra. L’ignoranza da parte del mondo dell’utilità curativa del lavoro psicologico è purtroppo il disastro peggiore della società dei consumi, che alimenta il desiderio di avere anziché di essere, che sostiene l’affanno per il potere a danno della supremazia dell’amore.

È una storia antica, vecchia di secoli, ma che si ripete ogni volta. In questa triste occasione ritornano gli identici totem: il controllo sulle persone, la tirannide assoluta sui corpi e sul pensiero, uno scettro sanguinoso in grado di controllare la vita e la morte, il respiro e le lacrime di chi viene fatto prigioniero. Parole-simbolo come denaro, orologi preziosi, auto lussuose, sono solo maschere per nascondere personalità inesistenti. Il mostro diventa un burattino creato dalle alte scuole di specializzazione come l’imperialismo, il consumismo, il colonialismo, il razzismo, l’egoismo.

Naturalmente non vogliamo, non possiamo divagare, ma se queste vi sembrano storia di un altro mondo procuratevi per favore una copia del film Cose di questo mondo per apprendere il valore della vita in Afghanistan di questi tempi e come la fuga per la vita di chi non vuole marcire nella povertà e nell’ignoranza spesso si trasforma in un incontro con la morte.

Lo psicoanalista, si sa, quando piove non può che agire come tutti gli altri: aprire l’ombrello, o bagnarsi se non ce l’ha. Il che significa piangere e disperarsi per eventi tragici come la distruzione delle Torri Gemelle con tutti i nostri simili dentro o morire con loro se fossimo capitati l’11 settembre 2001 lì sopra. Soffrire per i bombardamenti in Afghanistan o restare vittima delle bombe se ci fossimo trovati da quelle parti.

Il misero aiuto, il sincero impegno che possiamo dare è prima o dopo, mai durante.

“Durante” si svolge soltanto l’opera dei santi, dei martiri, dei vigili del fuoco, dei soccorritori, dei medici dentro e senza frontiere, della Croce Rossa, di Amnesty International.

Per quanto riguarda il prima, la musica è sempre la stessa: bisogna occuparsi con una strategia capillare di curare ogni singolo individuo, educandolo a cercare la pace dentro di sé prima che fuori; e a combattere il male dentro di sé anziché puntare il dito contro la cattiveria altrui. Questo non significa spedire tutti dallo psicoanalista, ma disporre la presenza dello psicoanalista nelle scuole prevalentemente, e quindi nelle fabbriche, negli uffici; organizzare un esercito pacifico di civilizzazione della psiche per arginare la violenza interna. Freud ha descritto questa opera come una bonifica dell’acquitrino interiore (lo Zuiderzee interiore) esistente in ogni individuo. Abbiamo scritto individuo proprio perché Jung ha definito il compito finale di ogni coscienza: l’acquisizione di un’armonia tra la dualità bene-male insita in ciascuno di noi.

Individuo, in-dividuus, significa infatti essere non diviso, non scisso, non schizofrenico.

Il raggiungimento dell’individuazione si realizza in un traguardo: la scoperta dell’identità.