Freud e Proust, contemporaneamente…

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 44, Napoli, Liguori, 1998 – Estratto

Freud è un uomo apertamente ambizioso. Proust è un dandy che adula Anatole France.

Freud lotta con il tempo: ha fretta di dimostrare a se stesso e al mondo il proprio valore. Proust sembra infischiarsene del tempo, lo spreca tra cose futili, viaggi e vacanze in località alla moda.

Sigmund ha un’intuizione geniale: non è l’ipnosi che onsentirà di guarire i malati di mente, ma qualcosa che deriva da lei, il transfert. Occorre però situarlo nel tempo. Il tempo dell’analisi: lungo, faticoso, utile, indispensabile. Così emerge l’inconscio. Dal tempo del sonno, dal tempio del sogno. Dai tempi dell’analisi: precisi, rigorosi, rigidi. Dalle parole scandite dal tempo, che lente o veloci scivolano spesso nei lapsus. Dalle pause del ricordo, dai legami bizzarri della memoria che si chiamano associazioni verbali.

La scoperta di Marcel non è meno formidabile: il tempo comunque spesso non si perde. Il tempo può essere ritrovato per sempre. Come? Anche soltanto immergendo una madeleine in una tazza di tè, oppure allacciandosi le scarpe sul gradino di una chiesa a Venezia. Ecco le intermittenze del cuore. Ritrovare, recuperare in momenti inaspettati e magici tutto quanto si è vissuto inconsapevolmente, incerti di essere stati in quel tempo vivi sul serio. E sappiamo di esserlo stati davvero appena ci accorgiamo di questo stato di grazia che ci conduce al centro di un universo, personale e globale.

Dunque Proust e Freud hanno lavorato con lo stesso obiettivo: restituire all’esistenza umana la consapevolezza di vivere veramente il tempo, attraverso il tempo.

Il silenzio anima la trance

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 43, Napoli, Liguori, 1998

Che cosa fa il metodo ipnotico che noi adottiamo secondo gli insegnamenti di Rossi? Induce alla produzione silenziosa e spontanea di un sintomo. Invitiamo il nostro assistito neofita della ipnonautica a sedersi su una comoda poltrona di fronte a noi; gli mostriamo come sollevare le sue mani e come sperimentare in silenzio l’ascolto delle “voci di dentro” attraverso una facile bipolarità.

Gli facciamo vedere come si fa. Contrapponiamo le nostre mani, l’una di fronte all’altra come se stessimo per applaudire ma non subito, con una distanza di 20 centimetri fra di loro. Proviamo. Silenzio. Avvertiamo forse un magnetismo che le fa combaciare? O una forza che le fa distanziare? Restano ferme? Aspettiamo. Pazienza. Silenzio. Un’altra possibilità: alziamo le mani come fossero due piatti di una bilancia e scegliamo di posare il nostro cosiddetto sintomo-guida manifesto (ansia?, tachicardia?, paura?, insonnia? tic?, blefarospasmo?…) su una delle due.

E’ consigliabile operare sempre con un dualismo di scelta: una mano rappresenti l’inconscio, l’altra l’intelletto. Elementare come un democrazia che si rispetti. Due poli, uno che governa, l’altro all’opposizione. Chi prevale? Perché comanda? Che cosa ha da dire la destra alla sinistra? Sarà la sinistra troppo eccessiva, rivoluzionaria, idealista? O è la destra troppo saggia, conservatrice, borghese? Destra e sinistra non sono soltanto ideologie politiche.

“La mano destra non sappia quello che fa la sinistra” mi ripete sempre mio padre per intendere che se si fa del bene non bisogna vantarsene né pentirsene; perché la mano sinistra rappresenta il sentimento, la pietas, la compassione, la generosità mentre la destra calcola, è saggia, è un ragioniere che scrive e sa di conti ma sa poco dell’amore.

Bisogna però cercare una convivenza armoniosa. Ecco allora in ipnosi le prime tre fasi: sensazione, sentimento, illuminazione. All’inizio ci si può accorgere che una mano diventa più pesante. Da questa sensazione scatta la riflessione su un sentimento ispirato dalla pesantezza e in terza battuta arriva l’illuminazione: “focalizzo il mio problema!” Tutto accade in silenzio.

L’ultima fase, quella della verifica, del pensiero collegato ad un’azione, un proponimento per esempio su come risolvere il problema, può essere affrontata in due modi: con la collaborazione dello psicoterapeuta al quale si comunica l’insight oppure conservando ancora il silenzio finché si vorrà su quel che si è deciso.

Pascal dice che “l’anima ama le mani” (ma provate a pronunciarlo in francese e otterrete un suono onomatopeico dolcissimo: l’ame aime les maines dove amore prevale).

Forse è proprio in ragione di ciò che il pioniere di questa tecnica, Ernest Rossi, ha scelto le mani per far parlare l’inconscio in trance.

Come l’anima, anche la trance ama le mani. Dalle mani che l’ipnonauta muoverà come un timone dell’inconscio si può passare naturalmente alle più varie regioni somatiche.

Transcelluloide. Ragioni e storia della trance cinematografica

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 40, Napoli, Liguori, 1996 – Estratto

Gli aspetti dei quali ci occuperemo in questo scritto sono i due tipi di trance cinematografica, che sono la trance del cinema e la trance al cinema. Intendiamo per trance del cinema quella che investe lo spettatore cinematografico e che ne comporta uno stato modificato della coscienza indotto dalla visione di un film.

Per trance al cinema (o nel cinema) ci riferiamo invece ai film che direttamente rappresentano fenomeni di trance ipnotici agiti o subiti dai personaggi del film.

Tratteremo dunque nell’ordine dapprima la trance che coinvolge lo spettatore, e quindi stileremo un elenco ragionato e storico della trance ipnotica in pellicola.

Georges Lapassade definisce la transe (non è un refuso, questo autore preferisce usare sempre il termine transe anzichè trance, perchè ritiene che sia l’unico etimologicamente giusto, proveniente da trans-ire) “uno stato alterato della coscienza culturalmente elaborato”; questa configurazione della trance (noi continueremo a scriverla così perchè ci sembra strettamente legata al fenomeno filmico, onirico, rem, 24 immagini al secondo che colpiscono i nostri occhi: trancelluloide) ci tornerà assai utile per il discorso intrapreso.

La nostra personale definizione dell’ipnosi (se c’è trance c’è ipnosi, cioè uno stato ipnagogico che ci consente di ritirarci in noi stessi, più o meno velocemente, separandoci completamente dal mondo esterno, un pò come avviene al cinema), è che si tratti di uno stato alterato della coscienza che consente, in diversi modi, e con tempi variabili, una rapida comunicazione del Soggetto con cui si lavora, in accordo comune, in seguito a una sincera e spontanea, forse necessaria, richiesta di aiuto, che definiamo, tout court, terapeutica.

Ora crediamo che il lettore si sia accorto che questo assunto sia proprio quanto si verifica anche al cinema. Ci rechiamo al cinema non certo per ottenere una terapia vera e propria, ma desideriamo abbandonarci a una forma di rilassamento, in base a una richiesta incontrovertibile di lasciare fuori di noi il mondo esterno e penetrare invece in un mondo virtuale. Infatti il cinema crea per lo spettatore uno spazio virtuale con tutte le caratteristiche evocanti la realtà, ma soltanto virtuale, come il sogno.

Altri amori

Con: Cloris Brosca, Paolo De Vita, Bianca Nappi, Davide Gagliarrdini – Regia: Marcello Cotugno – Teatro dell’Angelo – Roma

L’accorto fruitore del web che entrasse nel nostro sito e decidesse di andare alla sezione Recensioni, noterebbe che quelle attinenti al teatro

vertono prevalentemente sui pezzi portati in scena attraverso la regia di Marcello Cotugno. Potrebbe, l’accorto fruitore domandarsi perché.. e magari ipotizzare – se informato dei dinamismi psichici che influenzano scelte e comportamenti – dedurne e / o ipotizzare – nel recensore una Cotugno /dipendenza.

Questa lieve ed anche un poco autoironica premessa per spiegare la prevalenza – nelle recensioni da me fatte – delle notazioni sull’opera registica di Cotugno.

C’è una duplice motivazione:

da un lato il caso e la vita mi hanno fatto stringere un patto di stima con il regista de quo;

dall’altro lato, il mio mestiere e la mia equazione personale di giudizio mi hanno portato e mi portano ad una lettura diacronica della realtà.

Perché osservare la realtà nel qui e ora e contemporaneamente tenere presente il sentiero che i vari dati attuali hanno percorso nel tempo, consente di cogliere elementi rilevanti.

E spesso utili.

Esempio recente: si è data ieri l’ultima rappresentazione di Amori diversi, al Teatro dell’Angelo, in Roma.

In-consuetamente, l’ultima rappresentazione – che di norma vede un pubblico esiguo – godeva di una platea quasi piena.

Inevitabile chiedersene la ragione… e facile trovarla.

Marcello Cotugno nella qualità di regista ha svolto e continua a percorrere una strada non facile: persegue la qualità, anche accettando di portare in scena i propri prodotti in mercati di nicchia, selettivi, non cercando la standing ovation del grande pubblico di massa.

Ed in questa strada Cotugno ha riversato e riversa le acquisizioni esistenziali che progressivamente caratterizzano il suo percorso di Uomo.

Accennavo al fatto che Cotugno predilige il prodotto di qualità e questa sua attitudine lo ha portato a confrontarsi con tematiche mai facili: la depressione, la homeless-life, la mancanza di senso del vivere quotidiano che assai spesso alberga nell’uomo comune e via via sino alle radicali tematiche connesse con la ricerca di senso e con la morte.

Basta ricordare, per fare scarni esempi, Anatomia della morte di.,., Gli amici di Matt, Looking at you (revived) again,,

o Un pensiero per Olga…

In Altri amori, Cotugno si è cimenta con la tematica dell’omosessualità.

Tema all’ordine del giorno oggi, e assai spesso focus di vari polveroni mediatici.

Se un tempo l’omosessualità era segreto / vergogna / stigma, oggi assistiamo ad un ribaltamento nell’opposto: l’omosessualità ha subito un processo di normalizzazione.

Vari elementi, epocali, sostanziali e formali, hanno portato alla mutazione del pensare / sentire collettivo.

Possiamo dire – junghianamente – che nel pezzo sopra citato Cotugno ha saputo attuare una mediazione degli opposti.

Altri amori si configura in una serie di brevi sketch che vertono sulla omosessualità maschile e femminile, ed anche sulla risposta che tale orientamento dell’identità sessuale suscita nei vari contesti: famiglia, mondo del lavoro.

Il risultato – grazie alla bravura di tutti gli attori e con particolare riguardo a Paolo De Vita – è deliziosamente leggero e allo stesso tempo intelligente.

La verve è alta, non c’è mai una caduta di gusto, la volgarità (rischio difficilmente eludibile) è assente.

Torno alla mia visione diacronica per dire che si avverte in Altri amori la crescita dello stesso Cotugno.

Come regista e come uomo.

Alcuni elementi sono rimasti costanti nel tempo, altri sono variati ed evoluti.

Costanza nella predilezione di una scenografia un poco cupa, nei fondali spesso neri, nell’utilizzo sapiente dell’elemento luce che spesso squarcia la cupezza del nero per illustrare un gesto, un sorriso, la mimica dell’attore; costanza nella pregnanza / adeguatezza della colonna sonora e della base musicale.

Variazione nella tonalità emotiva: se i primi pezzi storici passavano allo spettatore un messaggio di s-consolatezza del vivere, di in-sensatezza dell’esistere, man mano e in crescendo il messaggio è divenuto più rassicurante.

Penso al recente My Background, in cui il ritratto generazionale di chi ha vissuto gli anni “80 – oltre a consentire una ricostruzione storica del passato prossimo da molti di noi vissuto in prima persona – avanza e concretizza anche una ipotesi produttiva: si può perdere – e poi ritrovare il Senso.

Bravo Cotugno.. vai avanti così.

My Background

di Alessandro Fea, regia di Marcello Cotugno – Colosseo Nuovo Teatro di Roma, 13 – 22 febbraio 2009.

Alessandro Fea nelle Note a presentazione dello spettacolo scrive: E’ la storia di un ragazzo che cerca qualcosa, forse se stesso, forse la sua vita, forse una risposta a qualcosa che gli è oscuro…è la storia di alcune anime, perse, vissute, logorate…unite forse da qualcosa di invisibile…

Marcello Cotugno nelle Note di regia scrive: …. in un’atmosfera da circo infernale i personaggi cercheranno di affrancarsi da un condizione di stallo in cui la vita li ha portati. Desiderosi della comunicazione, quella finale, quella in cui la pace ristabilisce i suoi confini nella vita e nella morte.

Fea, classe 1969, e Cotugno, classe 1965, si sono efficacemente integrati nello scrivere e portare in scena la storia che parte come manifesto generazionale, muta via via in oscuro thriller, e diviene poi una sorta di rappresentazione misterica dei non troppo lontani anni “80.

Gli anni “80 vedevano la caduta degli ideali: la fine del 68 e del 77 aveva generato il nichilismo, l’autodistruzione, l’eroina; per molti quella realtà andava sfuggita, elusa, negata nella ricerca di uno stordimento anche autodistruttivo.

My Background illustra la scena storica caratterizzata dal fenomeno punk e dark, ma può – nel contempo – dare un messaggio rassicurante: la consapevolezza che si può vivere una fase di distacco dalla realtà, e poi recuperarla nella memoria e nella riflessione, trasformandola in prodotto artistico e quindi in dia-logo.

Così quel background cessa di essere soltanto la fotografia di chi ha vissuto la propria giovinezza negli anni “80 per diventare efficace rappresentazione dei rapporti relazionali e del sartriano inferno senza tempo che si costituisce laddove si perde la comunicazione.

L’inserzione

di Natalia Ginzburg, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Politeama Brancaccio, Sala “ IL BRANCACCINO”Via Mecenate, 2 – 00185 Roma è in scena dal 13 febbraio al 4 marzo 2007 “L’INSERZIONE”di Natalia Ginzburg.

La commedia – scritta dalla Ginzburg nel 1968 – è portata in scena per la regia di Marcello Cotugno, che – con buona e tempistica intuizione – recupera e attualizza un testo fondamentalmente centrato sul tema della Comunicazione.

L’Inserzione è – nella definizione del Dizionario Palazzi – “l’atto dell’inserire”, “l’annunzio a pagamento in un giornale”, “l’avviso pubblicitario”.

Un testo, dunque…poche parole scritte da un soggetto che emette un messaggio indirizzandolo a riceventi noti e/o ignoti…in vista di poter avere una relazione…

Emittente, ricevente, messaggio, relazione…il pensiero torna al tema della Comunicazione e, quasi inevitabilmente, a P. Watzlawick.

La scuola di Palo Alto (G. Bateson, P. Watzlawick, etc.) ha posto l’attenzione sul carattere interlocutorio, contrattuale e pragmatico della comunicazione. (Watzlawich P., 1967)

Si sviluppa una ottica relazionale della Comunicazione, nella quale i rapporti tra i singoli elementi costituenti contano più degli elementi stessi.

La comunicazione è innanzi tutto dialogo; l’attenzione viene focalizzata sul rapporto trasmettitore–ricevitore in quanto mediato dalla comunicazione; la comunicazione è considerata anche come “azione”, modificazione dei comportamenti; “una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento” in quanto comprende l’aspetto di “notizia” (report) e l’aspetto di “comando” (command) relativo alla relazione tra i comunicanti.

Filtrare il testo della Ginzburg attraverso questa ottica, configura un godibile esercizio di comprensione oltre le righe del detto.

“L’inserzione”, come gran parte dei lavori della Ginzburg, s’incentra sul mondo femminile, nel confronto-scontro con quello maschile, sempre osservato con acume ed ironia. Ne “L’inserzione” le storie di un’amicizia fra due donne, di un amore finito e di uno appena cominciato, mettono in campo personaggi che rappresentano diverse modalità comunicative.

Vediamo cercarsi un dialogo che a volte appare concretizzarsi, talaltra si configura come impossibile, divenendo puro sfogo monologante dell’uno a fronte dell’altro che tale sfogo può soltanto subire.

Ma la comunicazione è comportamento… e induce comportamenti….il personaggio che a tratti ci appare passivizzato poi agisce, comunica la propria azione, genera una controreazione….

I tre personaggi, interpretati con brillante incisività da Cloris Brosca, Paolo De Vita e Bianca Nappi tengono ben viva l’attenzione dello spettatore, pur nella voluta normalità di una scena quotidianamente ordinaria.

Un interno quotidiano nel quale, a tratti – grazie anche agli efficaci e lancinanti effetti di luce – pare potersi cogliere l’inferno di una realtà incomunicabile.

L’essenziale e efficace regia di Marcello Cotugno consente agli attori una precisione quasi pittorica, confermata dal plauso – anche a scena aperta – del numeroso pubblico presente.

Uscendo – gratificati dal teatro – ci si pone una domanda. “ e se la Ginzburg avesse conosciuto WatzlawicK?”

Looking at you (Revived) again

di Gregory Motton, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Belli di Roma è in corso – dal 22 marzo e sino al 30 aprile – la rassegna “TREND, nuove frontiere della scena britannica”, a cura di Rodolfo di Giammarco.

La rassegna 2006 persegue il disegno europeo di una libera circolazione di scritture, stili, temi e nuove prospettive teatrali che da Oltremanica vengono a proporci continui spunti che talora ribaltano il noto.

Il testo di Gregory Motton (tradotto da Letizia Russo e portato in scena per la regia di Marcello Cotugno), ben rappresenta il progetto iniziale, arricchito da talune “contaminazioni”.

Ovvero, il materiale originale è stato calato in una realtà italiana, anzi in quel particolare spaccato di cultura costituito dalla realtà partenopea.

Assistiamo così alla godibile osmosi tra una drammaturgia britannica sempre incline a trarre spunto dalla quotidianità che muta e che alimenta sogni disperati e clamorose disillusioni e una sensibilità tipicamente “napoletana”.

Un uomo si dibatte tra un passato coniugale sconsolante (otto figli portati via dalla pubblica assistenza) ed un presente costituito dall’incontro con una giovane “barbona”.

I tre personaggi, interpretati con incisiva schiettezza da Alessia Giuliani, Alfonso Postiglione e Gaia Insenga, tengono ben desta l’attenzione dello spettatore, pur nella cercata monotonia di una scena totalmente grigia.

La vita dei “senzatetto” si dipana in scene rapide, che con efficacia danno il senso ed il polso di una non – vita intrisa di ricordi, aspettative, perdoni possibili, commiati auspicabili. c’è il passato,il presente. non è dato sapere cosa sarà il domani.

Una configurazione di elementi scenici e testuali che potrebbero risultare deprimenti e depressogeni.e che mai tali divengono anche grazie alla vigorosa regia di Marcello Cotugno.

Il grigiore del contesto è a tratti magicamente interrotto e quasi squarciato dall’irrompere di una colonna sonora magistralmente scelta: brani forti, vitali, fortemente emotivi.

C’è – in scena – una carriola grigia, piena di carbone, a testimoniare un passato e perduto lavoro in miniera. ma anche a porsi come metafora e lettura.

Nel grigio/nero del carbone si nasconde una energia potenziale, una fiamma possibile.

Lo spettatore coglie – nella visione e nell’ascolto – la pregnanza di quella energia forte,vitale, sottesa al grigio: forse, anche in quel / questo mondo, possiamo dare spazio al fuoco che rinnova..?..

Certamente lo spettacolo mobilita energia. lo testimonia – al termine – il reiterato batter di mano che più e più volte richiama i protagonisti sul palcoscenico

La forma delle cose

di Neil LaBute, traduzione di Masolino d’Amico, con Lorenzo Lavia Federica Di Martino, Fulvio Pepe Ilaria Falini; scene Carmelo Giammello, costumi Andrea Viotti, luci Marco Catalucci. Regia Marcello Cotugno

La forma delle cose (The Shape of Things), novità per l’Italia, ha debuttato mercoledì 9 novembre al Piccolo Eliseo Teatro Studio. La commedia, che ha registrato per mesi il tutto esaurito a Londra, è il secondo testo rappresentato in Italia di Neil LaBute, drammaturgo, regista e autore cinematografico, classe 1963. Mormone, considerato da molti giornalisti americani e inglesi il nuovo David Mamet.

Lo spettacolo prodotto dal Teatro Eliseo e dalla Compagnia Lavia con Asti Teatro, è un’operazione condotta nel segno del nuovo. Nuovo l’autore, almeno per le scene italiane, Neil LaBute; non nuovo il regista, Marcello Cotugno, che affronta per la seconda volta un testo dell’autore americano.

La vicenda ha inizio in un museo, dove una ragazza sta ferma con una bomboletta spray davanti ad una statua di uomo nudo. Il sopraggiungere del vigilante scatena una discussione fra i due che si conclude con un invito a cena da parte di lui.

Lei, Evelyn, e lui, Adam – richiamo non casuale alla coppia ancestrale Adamo ed Eva, emblema del libero arbitrio e della trasgressione – ribaltano il mito greco di Pigmalione, lo scultore che si innamora della statua perfetta da lui realizzata.

Una commedia divertente, ma anche una spietata riflessione sulle dinamiche sentimentali delle nuove generazioni, sulla loro solitudine, sui meccanismi della persuasione, uno sguardo inquieto sul mondo nuovo che verrà..

Un allestimento supportato da una scenografia avanguardistica ispirata ai lavori dell’arte moderna più trasgressiva, da Damien Hirst a Tracey Emin, a Mona Hatoum, dove il segno scenico è parte integrante della storia che si svolge in palcoscenico. Una commedia con musiche di tendenza per un pubblico giovane, da Deni Siciliano a Michael Jackson, da David Kitt che rifà Prince a Erlend Oye che remixa i Kings of Convenience, con qualche incursione nella No Wave degli anni ’80 di James White, la cui musica è stata paragonata al movimento pittorico del cubismo, per finire a Mu la nuova cantante performer giapponese. Una commedia con un finale che racchiude in sé uno degli aforismi preferiti dall’autore: atrocity is the new black.

Una commedia che è già cult con finale inimmaginabile, da non svelare.

Falene

di Andrej Longo, regia di Marcello Cotugno

“FALENE”, di Andrei Longo, ha debuttato nel 2004 a Napoli ed è recentemente andato in scena al Teatro Colosseo di Roma.

I protagonisti – Paolo Sassanelli e Totò Onnis – danno voce e gesti a due quarantenni baresi, amici per la pelle.

Nello spazio di un vicolo, si svolge il dialogo notturno dei due amici, in attesa del “colpo grosso” che dovrà mutare radicalmente la loro esistenza; nel tempo stringato dell’atto unico il dialogo / vaniloquio rende con efficacia la realtà di un sodalizio (tipico del nostro meridione) che diviene non di rado “patto di sangue”.

L’appuntamento con una vita nuova che riscatti entrambi da una esistenza fallimentare e vuota, diviene poi appuntamento con la morte.

I toni grigio – neri prevalgono sulla scena, tagliati a volte da improvvisi ed efficaci lampi di luce…la colonna sonora sottolinea magistralmente l’evolversi – comico e tragico insieme – del “fatto”.

Il regista Marcello Cotugno riesce a conferire all’atto unico la non facile caratterizzazione di commedia che evolve in dramma, magnetizzando l’attenzione dello spettatore, senza soluzione di continuità.

Uno spettacolo del quale ci auguriamo la replica.

Un pensiero per Olga

di Andrej Longo, 2004

Un pensiero per Olga” di Andrej Longo, per la regia di Marcello Cotugno, ha debuttato il 25 marzo 2004 al Teatro dei Contrari di Roma.

Lo spettacolo rappresenta – a parere di chi scrive – una riuscita prova di riduzione all’essenziale.

L’ambiente è una stanza, nera, nella quale poco più di venti spettatori siedono a breve distanza dalla scena.

Il cast è costituito da due soli attori, un uomo e una donna…Mimmo La Rana e Lucy Catalano.

La scenografia vede pochi elementi chiari (un tavolo, due seggiole, una porta) sapientemente messi in risalto dalle luci di Raffaella Vitiello.

La storia è semplice: la storia di un amore finito da tre anni, del dolore di lei nel comprendere che null’altro può fare se non rassegnarsi a quella fine, e dell’imbarazzo di lui nel trovarsi davanti la donna che un tempo ha così tanto amato.

Anche il dialogo è tessuto di parole semplici: quelle che possono scambiarsi un uomo e una donna che hanno condiviso l’intimità, e l’intensità, di un rapporto. Parole a volte quotidiane e banali, a volte pesanti come pietre.

Il senso sembra tutto racchiuso in una battuta:

“.. non posso dimenticare i ricordi, ma non posso passare la vita a ricordare..”

La scena finale esplicita, senza parole, la stessa essenzialità.

Lo spettatore realizza, nella ineludibile emozione che lo afferra, la radicale verità di una storia semplice che è anche la propria.

La verità di tutti quelli che – per continuare a vivere – son dovuti andare oltre il dolore.

La regia di Marcello Cotugno riesce a combinare i pochi elementi sopra detti in una riuscita prova di efficacia, ricreando sulla scena l’intimità del vissuto.

Il tema della vita e della morte costituisce un filo conduttore visibile nella scelta dei testi via via operata da Cotugno.

In “Anatomia della morte di…” vedevamo la morte arrivare a dare, forse, un senso – in quanto scelta – ad una vita che ne appare priva.

In “Bash” si parlava di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove – soltanto a fatica – potevamo cercare di rintracciare significati che non fossero la sola espressione di un vuoto di valori.

In “Un pensiero per Olga”, vediamo la vita che deve confrontarsi con la morte e accoglierla necessariamente, per poter continuare a vivere.

La perdita e lo svuotamento come elementi precursori della rinascita.