Comunicazioni marginali e nuove tecnologie

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 5, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

Nei primi anni ‘80 del millennio da poco decorso, la mia attenzione si era centrata su talune forme di comunicazione che – talvolta – i pazienti proponevano nellambito del temenos analitico, e/o ai margini di questo.

Notavo talora – nella concreta esperienza clinica – che talora il paziente consegnava all’analista dei fogli scritti… si trattava spesso di pensieri/riflessioni/impressioni intercorsi tra una seduta e l’altra; contenuti che l’analizzando riteneva significativi e/o importanti, e dei quali sentiva, comunque, di voler mantenere una traccia.

Osservavo altresì forme di comunicazione scritta consegnate all’analista con modalità marginale rispetto al tempo/spazio della seduta.

L’espressione comunicazione marginale è da me stata specificatamente usata per indicare quanto il paziente diceva o compiva (configurando comunque una comunicazione) al limite dello spazio e del tempo della seduta.

Per esemplificare, riporto una fattispecie più volte allora riscontrata e relativa alla fase del commiato ed al momento del pagamento.

Poteva accadere che il paziente lasciasse o desse all’analista un appunto scritto poco prima del commiato e/o nel tempo del saluto; o che inserisse un biglietto nella busta contenente il denaro dell’onorario; mi è accaduto – in alcuni casi – di trovare annotazioni e parole scritte nell’interno della busta stessa.

Tutte queste – sinteticamente accennate – sono comunicazioni caratterizzate dalla forma scritta in cui andavo imbattendomi e che, nel corso degli anni, ho guardato con attenzione crescente.

Nello svolgersi del percorso analitico, che proprio in quanto “talking cure” prevede la centralità della comunicazione verbale, gli scritti configurano una variazione dell’andatura comunicazionale , una trasgressione della quale è opportuno prendere atto; ponendosi e ponendo domande nell’ottica di una comprensione che – cercandone il significato ed il senso – consenta progressivamente di recuperare e/o conquistare la possibilità della “parola detta”.

Mi ponevo attorno alle suddette trasgressioni una serie di domande, avanzavo provvisorie risposte.

In primis, configurano effettivamente delle trasgressioni?

Perché – ad un certo punto del percorso analitico – il paziente scrive?

È – per il paziente come soggetto nella relazione – dato abituale o comportamento nuovo?

La forma scritta della comunicazione esprime una difficoltà a verbalizzare i medesimi contenuti?

Forse la modalità della scrittura consente un miglior contenimento dell’emozione sottesa ai contenuti stessi?

Garantisce o sembra garantire un miglior controllo della situazione?

Quali elementi fanno sì che a volte il paziente si limiti a “citare” i propri scritti e in altre li “consegni”?

Perché talvolta la consegna avviene in forma marginale?

Consideravo che la parola scritta permane, la parola detta è volatile: scrivere è forse anche voler fermare e conservare?

Lo scritto del paziente attiva nell’analista una serie di interrogativi ed ipotesi, ponendosi, comunque, come richiesta di attenzione.

Ancora riflettendo sulle motivazioni che inducono il paziente alla scrittura, e riferendomi in modo particolare a quei messaggi diretti all’analista e consegnati allo stesso in modo marginale, mi interrogavo sulle eventuali paure soggiacenti.

Motivazioni e paure che, peraltro, analogamente potremmo rintracciare anche in quelle comunicazioni che – nella vita quotidiana – vengono consegnate dallo scrivente al ricevente con modalità tali che quest’ ultimo sia portato a leggerle e a prenderne atto in assenza del primo.

Forma scritta e distanza, dunque.

Avanzavo, a fronte degli interrogativi sopra accennati, talune ipotesi sulle possibili paure soggiacenti.

La paura delle emozioni: è spesso una costante nella strutturazione psicopatologica del paziente, soprattutto per le tipologie caratterizzate da tratti ossessivi.

La consegna di un messaggio scritto sembra garantire lo scrivente da un impatto emotivo diretto con il ricevente; lo scrivente si aspetta, infatti, che il ricevente legga e prenda atto del contenuto in un tempo successivo a quello condiviso.

La comunicazione diretta – verbale – sembra esporre maggiormente alla reazione del ricevente e, in una possibile concatenazione dinamica, anche alla propria.

La paura del rifiuto: ritengo che questa sia sovente rintracciabile nel retroscena che andiamo esaminando. In una vasta gamma di modalità – dalla più pervasiva alla più circoscritta – la paura del rifiuto può configurarsi come timore del no sempre possibile da parte dell’altro. Anche semplicemente come timore del no al tema specifico che costituisce l’argomento della comunicazione e/o alle emozioni connesse.

La paura dell’aggressività: è pur essa frequentemente rintracciabile, trascolorando talvolta nella paura di reazioni violente se non addirittura potenzialmente distruttive.

Molteplici sono le forme e le sfumature di cui detta paura può rivestirsi: a volte assume la forma di un confessato e/o inconfessabile “fastidio per le discussioni” o ?intolleranza per i toni elevati della voce”.

La paura della emotività: come timore generalizzato a vivere situazioni che espongano alla manifestazione delle emotività altrui/propria si riscontra non raramente nel paziente che verbalizza un “fastidio per le lacrime”, e talvolta una “avversione/antipatia” per le manifestazioni emotive tutte, che dai sopradetti pazienti vengono connotate come “pesanti/patetiche/melense/insopportabili”, od anche come elementi di cui “vergognarsi”.

Abstract

L’Autore espone qui sinteticamente osservazioni e riflessioni – maturate nel corso di più di venti anni di lavoro clinico – su talune forme comunicative del paziente, caratterizzate dall’esser situate ai limiti dello spazio/tempo analitico e denominate comunicazioni marginali e/o border acting. Nel corso del tempo, dette comunicazioni si sono via via conformate all’evoluzione dello sviluppo tecnologico e delle I.C.T., assumendone non di rado le forme tipiche. L’Autore ha verificato che la restituzione simbolica e l’elaborazione delle comunicazioni prodotte del paziente consente di accedere ad alcuni suoi significativi meccanismi; la progressiva coscientizzazione degli elementi soggiacenti a dette comunicazioni porta in luce aspetti rilevanti della strutturazione psicopatologica dello stesso e talora ne mette in luce germi creativi.

Intelligenza collettiva e mente connettiva: dove va l’uomo?

(con Tonino Cantelmi), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

Ancora negli ultimi anni del decorso millennio, Derrick de Kerckhove evidenziava che – al culmine della rete di distribuzione – il cablaggio del sistema di informazione del pianeta è stato compiuto con tre reti integrate, ma tecnicamente sovrapposte: i cavi del telegrafo, i tavoli di commutazione del telefono e il World Wide Web.

Giunti a tale livello di interattività, dal modello globale emerge qualcosa di inedito e si comincia a parlare di “cyberspazio”.

De Kerckhove ci chiariva che mentre tutti i media stanno adesso convergendo on line, “in aria” vanno sviluppandosi le architetture delle comunicazioni satellitari e cellulari, come una nuova serie di vincoli materiali.

Nel pensiero dell’Autore, con la compresenza dei sistemi di distribuzione on line e wireless “si riempie tutto lo spazio disponibile con la presenza dell’intelligenza, un po’ come gli dei dell’antichità…”.

Nell’approccio multimediale e integrato attualmente consentito dalle I.T.C. le categorie consuete con le quali siamo abituati ad essere nel mondo, mutano radicalmente.

Per l’Autore, le nuove tecnologie – il World Wide Web, Internet – stanno svolgendo il ruolo prima ricoperto dall’alfabeto.

L’alfabeto e Internet possono essere considerate due tecnologie della mente, due strumenti diversi per guardare e comprendere la realtà.

L’alfabetizzazione ha portato la nostra mente a strutturare una “griglia” attraverso cui guardare la realtà; l’internettizzazione porta la nostra mente in una “rete” attraverso cui immergersi in quella medesima realtà.

Se prima – utilizzando la griglia – ci ponevamo nel nostro “punto di vista” per guardare la scena del mondo; oggi – utilizzando la rete – ci troviamo in un “punto di stato” situato nella scena medesima.

Caduta la distanza fra soggetto e oggetto, immersi nel cyberspazio, ci troviamo in un campo attivo di interazioni possibili, in una dimensione immersiva.

Così come tutta l’interattività è tattile in linea di principio, così tutte le interazioni oggi possibili sono immersive.

Internet e il Web accedono allo spazio pubblico, al cyber spazio pubblico: una dimensione condivisibile ed espandibile nella quale potremo sempre avere un posto e una posizione che dipendono soltanto da noi.

Ma è nell’ambito dei media bilaterali, nello specifico del telefono cellulare, che, grazie alla Wirelessness (tecnologie senza fili), si sta verificando una nuova rivoluzione copernicana.

Le tecnologie senza fili mutano radicalmente il nostro rapporto con lo spazio fisico, in quanto tendono a dilatare e a diluire gli assembramenti umani, anziché favorirne il concentramento in un solo posto.

Stanti le sopra ricordate possibilità di integrazione e convergenza, il telefono cellulare (che per l’Autore è “la più intima di tutte tecnologie di comunicazione, sebbene alcuni potrebbero sostenere che è anche la più rumorosa e la più invasiva”) per l’ampia gamma di comunicazioni che consente, rappresenta la tecnologia che meglio evidenzia e supporta la nostra nuova scala mentale, caratterizzata appunto dall’ essere globale.

Il telefono cellulare comporta un concetto di spazio come ambiente permeabile, in quanto ne estende i confini ai limiti delle capacità di raggiungimento delle chiamate, e nel contempo sostiene l’immagine di un corpo individuale che – in quello spazio – ha un punto d’origine.

Il corpo individuale, così ubicato, viene ad avere una sorta di “punto di stato” che si affianca e completa il “punto di vista”. Attraverso l’utilizzo di internet, l’intero campo percettivo viene ad esser cambiato: caduta la predominanza visiva, è adesso il tatto che ci conduce nel mondo.

Nel pensiero dell’Autore “c’è una continuità nuova fra la mente privata ed il mondo e c’è anche – nel mondo – una nuova connettività fra le menti private”.

Lo sviluppo, l’integrazione e la confluenza delle I.C.T. rende dunque possibile una continuità nuova fra la nostra mente ed il mondo e consente una nuova connettività fra le menti di chi è connesso in Rete: gli interscambi attuabili sono pressoché infiniti.

Si sta formando quella che l’Autore chiama “mente connettiva”. Quanto ci riconosciamo oggi in questa configurazione? Stiamo utilizzando e/o utilizzando appieno le potenzialità della “mente connettiva”?

Abstract

I primi anni del terzo millennio sono e sono stati caratterizzati dal progressivo sviluppo delle I.C.T.. La diffusione crescente delle tecnologie internet correlate ha messo a disposizione dell’utente forme nuove di comunicazione: chat, e-mail, blog, web-cam sono ormai entrate nella quotidianità. Quanto le nuove forme del comunicare hanno mutato o potenzialmente possono mutare le relazioni? L’utilizzo delle nuove tecnologie mediatiche comporta un approccio radicalmente nuovo alla realtà: questa esperienza modifica o potenzialmente può modificare la mente? Il progressivo ampliamento delle possibilità comunicative configurato dalla tecnologia Wireless cosa comporta a livello della percezione di sé, di sè nel mondo e di sé nella relazione con l’Altro? Gli Autori tracciano una sintetica mappa del nuovo territorio comunicazionale e cercano d’individuarne vantaggi e svantaggi, rischi e benefici, avanzando ipotesi su possibili scenari futuri.

La casa e la scatola

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006

Una riflessione probabilmente impopolare

In questo breve scritto propongo alcune riflessioni che – prendendo spunto da due eventi casuali – si sono avviate su quella che è stata una modalità di lavoro di Aldo Carotenuto.

Non a caso scrivo una modalità e non la modalità: con Carotenuto ho svolto la mia prima analisi personale a partire dal 1973 traendone l’esperienza di una modalità di lavoro e di approccio al paziente che via via ho visto modificarsi nel tempo, attraverso i racconti di altri che successivamente lo ebbero come analista.

La mia esperienza – durata quattro anni – mi aveva consegnato l’immagine di un analista attento, presente, abile nel decodificare i sogni…solo a tratti coglievo qualche trasgressione, quale il rispondere ad eventuali telefonate non riducendo al minimo la comunicazione, o, relativamente al setting, la presenza di altre persone nella sua casa.

Via via mi giungevano racconti di un Carotenuto poco attento, quasi distratto da “altro” rispetto al temenos della seduta.

Ne prendevo atto, sempre con beneficio d’inventario, così come consuetamente mi detta l’atteggiamento verso realtà che non ho sperimentato personalmente.

I fatti

Nel 1989 – essendo io diventata nel frattempo psicologa analista e quindi collega – Carotenuto mi chiese di scrivere una sua biografia per il libro Psicologia Analitica Contemporanea, insieme di scritti sugli analisti junghiani redatti da quelli che ne furono allievi.

A fronte dell’impegno accettato, parlai lungamente con il maestro, così come scherzosamente amava farsi chiamare, sugli aspetti caratteristici della sua vita e della sua personalità.

Carotenuto si definì un trasgressore nato, e su questo tema ci soffermammo più volte; andava così confermandosi – attraverso le sue stesse parole – un’immagine diversa da quella che avevo soggettivamente memorizzato.

La trasgressione rimanda necessariamente alla regola…Carotenuto pareva essersi affrancato progressivamente dai limiti intrinseci alla regola, limiti che sentiva come argini rassicuranti ma soprattutto difensivi.

Prendevo atto di una sua modalità che andava cambiando, e non mi riconoscevo in essa pur comprendendone talune ragioni.

Il tempo trascorreva… nei quasi quindici anni seguenti ho visto Carotenuto come collega, maestro, uomo che sapeva muoversi nella realtà con pragmaticità e coraggio, cogliendo l’ammirazione e il successo, nonché l’inevitabile correlato di critica e invidia.

A proposito di quest’ultima soleva ripetermi: “non bisogna aver paura dell’invidia …”

In questo eravamo molto vicini.

Provvisorie conclusioni

Guggenbühl-Craig scrive che le professioni d’aiuto (quindi anche l’essere psicoterapeuta) analizzate al di là della superficie, rivelano un quadro complesso di tratti di personalità, motivazioni, rischi.

Tra questi ultimi, il rischio dell’onnipotenza: sentirsi guaritore e quindi onnipotente.

Occorre invece mantenere una memoria attenta del proprio essere come Chirone, guaritore ferito.

Soltanto mantenendo viva questa percezione di sé l’analista può guardarsi dal rischio di cadere nell’onnipotenza e di ritenersi oltre la necessità delle regole.

Sentirsi soltanto guaritore comporta proiettare sul paziente l’immagine del malato.

Mentre sentirsi guaritore ferito consente di percepire nel paziente anche la corrispettiva parte sana e di attivarne la funzione autoguaritrice.

Se talune modalità di Carotenuto lasciano ipotizzare tratti di onnipotenza, c’è però da ricordare che egli si è spesso soffermato sui rischi connessi.

Così come il tema dell’inflazione psichica – definita come una fase molto insidiosa – è stato spesso trattato nei suoi scritti:

“….c’è il rischio di impossessarci di qualcosa che non ci appartiene. Si indossano senza troppa consapevolezza le effigi della divinità, dimenticando che qualità dell’uomo è proprio la sua finitezza, il suo essere mortale.

…. solo nella consapevolezza della propria finitudine è implicito il desiderio di una approssimazione alla conoscenza, che come tale è tensione e non raggiungimento. Laddove un’idea si cristallizza, attingendo a una sorta di paradisiaca onnipotenza, siamo in presenza di un dogma, il vero inferno della conoscenza.”

Carotenuto non è mai stato dogmatico… aveva una capacità di ironia e di umorismo che non consentiva la caduta nell’inferno del dogma.

Carotenuto soleva dire che un analista non può dirsi junghiano o freudiano..

L’analista può dire di aver appreso una modalità junghiana o freudiana…

In sintesi l’analista è se stesso, con le carenze ed i punti di forza che lo caratterizzano e che progressivamente si integrano nelle opinioni, nelle convinzioni, nell’esperienza fatta sul campo.

Una fantascienza per il limite?

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57, Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto

La trattazione del tema della fantascienza da parte della letteratura e della cinematografia è in genere caratterizzata da elementi comuni ricorrenti. Anzitutto il verificarsi di un evento drammatico per l’uomo o per l’umanità, oppure la volontà dell’uomo di realizzare un qualcosa di straordinario e perciò difficile, utile per sé e o per il genere umano. Nel primo caso la drammaticità dell’evento impone la necessità di eliminarne le conseguenze, pena la morte; nel secondo il conseguimento dell’obiettivo ha come risultato una nuova vita; il che è, specularmente, quasi la stessa cosa.

Il secondo elemento è dunque il dilemma vita – morte.

Terzo elemento è il tempo, generalmente coincidente con la vita umana, verificandosi tuttavia, in molti racconti, la dilatazione di quell’arco temporale in relazione a scoperte scientifiche o a concezioni Einsteiniane dello spazio- tempo.

Ogni costruzione fantascientifica è, evidentemente, rapportata all’uomo, ai suoi principi, ai suoi valori ed è questo l’elemento che “fa la differenza”. Va da sé che l’elemento comune per definizione è l’uomo, il quale – nel processo creativo della sua attività – si avvale di scienza e fantasia. Gli elementi costituenti la tematica in oggetto, elementi ricorrenti, potremmo dire necessari, sono, dunque:

– L’evento (da cui tutelarsi o da conseguire)

– Il dilemma vita / morte

– Il tempo

– l’uomo come soggetto che esperisce/subisce/inventa….

Un altro elemento che quasi sempre caratterizza i racconti di fantascienza è la paura, il terrore, generati da un qualcosa di oscuro, minaccioso, incontrollabile e incombente che va a turbare e confondere la coscienza, rendendo difficili reazioni adeguate. Ciò in quanto, appunto, il verificarsi dell’“evento” va a scardinare sicurezze acquisite e fa sprofondare l’uomo nelle sue drammatiche paure originarie. Come se fosse riproiettato nel caos primordiale dove fa fatica a ritrovare l’“ordine” per una reazione cosciente.

Per Aldo Carotenuto,7 il viaggio tra le immagini inquietanti proposte dalla Fantascienza può ben rappresentare un viaggio attraverso le lande più oscure e spaventose dell’anima e l’addentrarsi in tali immagini “consente, tuttavia, di svelare e comprendere tanto le angosce a cui la psiche è soggetta, quanto il loro significato e progetto di trasformazione.”

L’uomo si viene così a confrontare col binomio bene – male, laddove il bene è la vita e il male è la morte. Ma il conflitto è sempre perdente per l’uomo perché anche se i suoi tentativi di esorcizzare il male hanno successo, la fine della sua vita è comunque sempre incombente e, in definitiva, vincente.

La dimensione interpersonale on line

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 55, Roma, Di Renzo Editore, 2004

Noi abbiamo vissuto – nella storia – in spazi diversi.

Lo spazio delle città è stato inizialmente caratterizzato da tortuosità e confusione.

Soltanto nel V secolo avanti Cristo, lo spazio delle città inizia ad essere progettato e concepito con ordine e regolarità.

Come ricorda Derrick de Kerckhove,2 è stato Ippodamo da Mileto a introdurre nella storia occidentale ciò che sarebbe diventato la tipica griglia urbana: prima, infatti, “..le città sono cresciute senza un piano, semplicemente costruendo ciò che serviva per abitare, difendersi e pregare. Ippodamo ha introdotto un principio di razionalità – un principio che si traduce in ‘proporzionalità’ se applicato all’architettura – che fino alla caduta dell’Impero si è riflesso in ogni aspetto della vita romana. Più tardi l’invenzione della stampa ha rinforzato lo spazio come noi lo conosciamo per strutturare la coscienza culturale e sociale.”

De Kerckhove individua una connessione diretta fra alfabetizzazione greca e griglia urbana, evidenziando come l’uso delle lettere per i fonemi del linguaggio abbia introdotto – fra le culture interessate – una nuova relazione con lo spazio.

La connessione – per de Kerckhove come già per McLuhan – risiede nel fatto che l’alfabeto rappresenta una tecnologia centrale dell’elaborazione umana dell’informazione, e la sua applicazione ha esiti non solo sul contenuto dell’informazione ma anche sulla struttura della sua elaborazione.

In sintesi, i Greci – aggiungendo le vocali alla linea di consonanti già in uso nel modello fenicio – hanno reso inequivocabile la decifrazione della sequenza di fonemi: questo ha comportato un radicale cambiamento nella strategia che il cervello usa per decifrare la linea di scrittura.

In tal modo l’approccio analitico ha assunto priorità rispetto a quello contestuale.

Ha così assunto predominanza – nella cultura occidentale alfabetizzata – la tendenza visiva.

Come lettori apprendiamo a rappresentare e interiorizzare il campo visivo e lo riproduciamo nell’immaginazione: le immagini in tal modo riprodotte vanno a costituire il nostro spazio mentale.

L’inclinazione visiva è basata sul “punto di vista” e presuppone una distanza fra soggetto e oggetto.

Secondo De Kerckhove “il dominio della tendenza visiva spinge la realtà, il mondo, lontano da sé, tenendo il mondo per così dire a una distanza ragionevole.”3

Infatti, se noi ci poniamo in rapporto al mondo in un nostro punto di vista, vediamo il mondo stendersi otticamente dalla superficie del nostro occhio verso l’esterno ed il nostro corpo risulta letteralmente estromesso dallo spettacolo.

Si viene così a configurare una separazione fra “mondo” e “mente privata”, individuale, di chi quel mondo guarda.

Proprio in relazione all’assetto sopra detto, si sta verificando nell’ultimo decennio uno sviluppo psicologico radicalmente nuovo, indotto dalla cosiddetta rivoluzione digitale, ovvero dalla introduzione nella quotidianità delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

Si sta formando quella che De Kerckhove chiama “mente connettiva”.

Le nuove tecnologie – il World Wide Web, Internet – stanno svolgendo il ruolo prima ricoperto dall’alfabeto.

L’alfabeto e Internet possono essere considerate due tecnologie della mente, due strumenti diversi per guardare e comprendere il mondo.

L’alfabetizzazione, come si diceva all’inizio, ha strutturato una griglia attraverso cui guardare la realtà; l’internettizzazione sta strutturando una rete attraverso cui immergersi in quella medesima realtà.

Oggi il nostro privato spazio interno è continuamente sfidato e forse già ristrutturato dall’emergenza del cyberspazio, il nuovo ambiente cognitivo supportato dai media elettronici.

Se, prima, ci ponevamo nel nostro punto di vista per guardare la scena del mondo, oggi ci troviamo in un punto di stato situato nella scena medesima.

Viene a cadere la distanza fra soggetto e oggetto: immersi nel cyberspazio ci troviamo in un campo attivo di interazioni.

Viene anche a cadere la predominanza visiva tipica della cultura alfabetica: la cultura del cyberspazio è infatti digitale, è il tatto che ci conduce nel mondo.

Lingiardi e Gazzillo osservano che, nelle relazioni on line, ”la mediazione delle due macchine (e tutte le sue implicazioni) sembra, in alcuni casi, la condizione dell’intimità. La maggior distanza relazionale si rivela un lenitivo delle angosce fusionali o persecutorie.”

Gli Autori sottolineano che il tema relazionale in questione è quello del raggiungimento di una distanza ottimale.

Qui ci troviamo in pieno accordo.

Il problema della distanza, che è, nell’ottica proposta da molti Autori, il nucleo centrale della patologia borderline, vede infatti il soggetto oscillare continuamente tra sentimenti di abbandono, solitudine e helplessness da una parte e sensazioni di “ingolfamento oggettuale” dall’altra.

La patologia borderline, paradigmatica – per Fonagy22 – della nostra epoca, può essere utilizzata come metafora e figura esasperata di molte caratteristiche relazionali contemporanee.

Le relazioni on line sembrano infatti, anche a parere di chi scrive, configurare la possibilità di una “distanza ottimale” per quei soggetti che – nella vita reale e nei concreti incontri – stentano a trovare la “distanza giusta”.

Nelle relazioni on line si può essere, nello stesso momento, vicini e lontani.

Il setting a distanza: riflessioni sulla e-psychotherapy

in PSICOTECH (Rivista della S.I.P.tech, Società Italiana di Psicotecnologie e Clinica dei Nuovi Media), anno 1 numero 2 Luglio – dicembre 2003, Franco Angeli Editore, Milano – Estratto

… dovremo considerare impossibile una psicoterapia on line se accettiamo l’assunto secondo cui lo specifico della relazione terapeutica richiede necessariamente “una situazione di vicinanza fisica” e quello, strettamente correlato, secondo il quale l’attività di interpretazione non può aver luogo o, comunque, appare poco proponibile in una relazione in cui analista e paziente non sono fisicamente vicini.

Se riteniamo imprescindibile quell’assunto, allora, non resta che invalidare ogni relazione psicoterapeutica on line in quanto tale.

Occorre però stabilire se effettivamente il criterio della vicinanza fisica sia a tal punto imprescindibile e vincolante.

Ci sembra che questo modo di porre la questione sopravvaluti, per così dire, la lettera e penalizzi lo spirito, anzi, l’anima, la dimensione simbolica.

Ci sembra più probante porre al questione partendo dal considerare cosa veramente significhi rapporto analitico.

In altri termini: si può stabilire un rapporto analitico tra paziente e analista a prescindere dalla loro vicinanza fisica?

E’ importante ribadire che appunto questo viene configurato dalla psicoterapia on line: una dialogo nel quale può strutturarsi un rapporto analitico, ovvero un rapporto nel quale i due analizzanti analizzano e possono – proprio in virtù di un movimento dialettico condiviso – accedere a possibili cambiamenti e trasformazioni.

Ciò può avvenire a dispetto della distanza geografica, dell’assenza della fisicità dei due contraenti, a dispetto della asincronia (come nel caso della psicoterapia via e-mail), nell’impossibilità di una condivisione visiva del volto dell’altro (come nel caso della psicoterapia via e-mail e via chat).

Secondo noi al fondo la cifra caratterizzante il rapporto che si viene a stabilire è quanto sopra abbiamo indicato come ancoramento, elemento che si connette alla dimensione simbolica e non necessariamente alla presenza.

Anche in un setting a distanza si può fare anima.

Il fare anima non passa necessariamente attraverso la condivisione di una fisicità.. Potremmo dire che antiche dottrine, come quelle che riguardano la capacità di automovimento dell’anima, trovano oggi forse imprevedibili concretizzazioni.

L’anima che si muove da sola, platonica e medioplatonica, è la dimensione che si cala nel rapporto terapeutico on line. L’anima che unisce nel rapporto i due contraenti lontani ancorandoli a sé, al proprio automovimento.

E’ di questo automovimento dell’anima, corrispettivo in fondo della dimensione simbolica, che si avvalgono i due analizzanti in una psicoterapia on line.

Lo scambio d’una email – che presuppone un pensare, uno scrivere, un inviare – può veicolare un movimento che – in modo legittimo – s’intitola all’anima e alla sua irrinunciabile tensione al rapport

La parola scritta dall’altro ha effetti su di noi, contribuisce a costruire una storia comune, anche un registro comune, condiviso.

L’altro è nel rapporto comunicativo e quindi nel rapporto, ancorato a un rapporto.

Per quanto detto, paradossalmente potremmo anche affermare che proprio nella psicoterapia on line – in questo nuovo luogo del fare analisi – e forse proprio a partire da una serie di mancanze (mancano i volti, mancano le voci, manca la fisicità), si rivela la realtà dell’anima, la sua effettività che non abbisogna dei vincoli della lettera.

Quelli che abbiamo chiamato analizzanti, attraverso il loro riconoscersi nel dialogo e il loro condividere un registro di discorso, partecipano, a dispetto delle distanze, di una realtà simbolica che contiene in sé forme possibili di trasformazione.

Concludiamo per ora le nostre note esprimendo la credenza che, in campo psicoterapeutico, la tradizione ed il cambiamento siano integrabili.

Da poco superato il millennio, crediamo che le forme analitiche tradizionali possano proficuamente fondersi con le innovazioni tecnologiche.

Non possiamo – oggi – prefigurare gli sviluppi futuri, ma possiamo prevedere che il tempo a venire sarà sempre più fortemente caratterizzato dall’impiego dei nuovi mezzi di comunicazione.

Hermes continuerà a danzare con noi….

La coppia terapeuta e paziente nel setting a distanza

(con G. Antonelli), in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 52, Roma, Di Renzo Editore, 2002

Poco più di un anno fa scrivevamo dell’annunciata morte della psicoanalisi e del suo possibile rinascere in forme nuove.

Ricordavamo come – nell’ultimo ventennio – sempre più frequenti si erano levate voci contrarie alla psicoanalisi.

Mettevamo in evidenza che in tali voci si potevano rintracciare i più differenti accenti: dalla reiterata taccia di “non scientificità” alla sottolineatura delle presunte nefandezze dei grandi padri Freud e Jung, alla denuncia degli irreparabili danni ascrivibili alla psicoanalisi.

Ricordavamo appunto il continuo rinnovarsi di tali attacchi, la cui ripetitività ci sembrava attestare, in primo luogo, proprio la forza dell’oggetto che si vorrebbe morto.

Quella forza consideravamo, proprio nell’ottica della rinascita.

Ragionavamo sulla morte, che fa parte intrinsecamente della storia della psicoanalisi.

La storia della psicologia del profondo può in effetti essere considerata come una sequenza di morti, nascite e rinascite.

Per Rollo May, esponente della psicologia umanistico-esistenziale, uno dei fattori che avrebbero portato alla nascita e alla diffusione della psicoterapia nel mondo contemporaneo è rappresentato dalla morte dei nostri miti.

È morta la mitologia greca ed è nata la psicologia del profondo.

Jung affermava che i miti di un tempo andato per sempre, e dunque i miti morti, sono rinati nelle patologie dell’uomo contemporaneo: gli dèi che gli stessi antichi hanno per tempo iniziato a considerare morti ritornano….

Consideravamo altresì che il nostro tempo è il tempo della globalizzazione: Internet -la Rete delle reti – è ormai sinonimo sia di una comunicazione divenuta globale sia di una società che ha immesso nella quotidianità i sistemi informatici.

Avanzavamo – provocatoriamente secondo alcuni – un interrogativo: potrebbero quegli stessi dèi aver trovato modo di rinascere proprio in Internet ?

Internet è “organismo ed ambiente”, configura ormai il nostro habitat naturale, e si sta infiltrando sempre più nelle nostre quotidiane psicopatologie: in questo processo in atto con modalità pervasive e forse irreversibili, non potremmo ipotizzare la realtà rinata, rinnovata, ad esempio di Hermes?

Hermes è comunicazione e le coordinate essenziali del processo di cambiamento in atto sono rappresentate dalle nuove tecniche e dal sistema di comunicazione informatico.

Ed anche la “rivoluzione digitale” – come la psicoanalisi – ha attivato voci molteplici e differenti accenti…. dalla adesione entusiastica ai timori di una possibile ibridazione Uomo/Macchina, sino alle sconcertanti profezie di una “macchinizzazione” dell’Uomo.

I nuovi territori virtuali configurati da Internet, come ogni spazio ancora poco conosciuto, evocano in alcuni visioni mitiche di “nuova terra dell’oro” e per altri visioni apocalittiche di una realtà degradata.

Ma le alternanti voci di enfasi ottimistica e di paura irriflessiva si negano entrambe – come atteggiamenti estremi – all’esercizio critico.

Anche in questo caso invochiamo l’equilibrio della ragione.

La Rete amplifica le possibilità stesse del comunicare, rende possibile un dialogo anche tra interlocutori distanti migliaia di chilometri.

La ratio – che concepisce la propria attività nello stabilire connessioni – considera questa amplificazione e guarda agli spazi innovativi aperti per questa via.

Noi pensiamo – cercando di evitare i rischi degli appena cennati opposti estremismi – che il World Wide Web costituisca uno spazio potenziale per la crescita anche delle relazioni e delle relazioni terapeutiche.

La rinascita della psicoanalisi on-line

(in collaborazione con Giorgio Antonelli), in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 49, Roma, Di Renzo Editore, 2001

Si dice che la psicoanalisi stia morendo, morirà, sia già morta. Ma una morte non è forse la premessa possibile d’una rinascita? E se questo è vero, dove rinascerà la psicoanalisi? Sulla rete?

… soltanto se si può dimostrare che quello dei due contraenti/analizzanti (terapeuta e cliente che chiede di accedere al servizio di psicoterapia on-line) non è un rapporto reale (cioè capace di incidere sulle singole realtà dei due contraenti), si potrà consequenzialmente concludere che la psicoterapia on-line è un impossibile.

Analogamente dovremo pensare impossibile, impraticabile una psicoterapia on-line se accettassimo l’assunto secondo cui lo specifico della relazione terapeutica, come è stato affermato, richiede necessariamente “una situazione di vicinanza fisica” e quello, connesso, secondo il quale l’attività di interpretazione non può aver luogo o, comunque, appare poco proponibile in una relazione in cui analista e paziente non siano fisicamente vicini.

Se, dunque, dovessimo ritenere che la vicinanza dei corpi costituisca la condizione necessaria e imprescindibile di una relazione psicoterapeutica, invalideremmo ogni relazione psicoterapeutica on-line in quanto tale. Se, insomma, si dà psicoterapia soltanto a condizione che analista e paziente partecipino, per così dire, di un setting fisico, una psicoterapia on-line non sarà per definizione mai possibile.

Occorre allora, preliminarmente a ogni discorso che abbia come oggetto la possibilità di una psicoterapia on-line, stabilire se in effetti il criterio della vicinanza fisica sia a tal punto vincolante. Ora, a noi sembra che questo modo di porre la questione sopravvaluti, per così dire, la lettera e penalizzi lo spirito, anzi, l’anima, la dimensione simbolica.

A noi sembra più probante porre la questione a partire da una considerazione di cosa veramente significhi rapporto analitico. In altri termini: si può stabilire un rapporto analitico tra paziente e analista a prescindere dalla loro vicinanza fisica?

Vogliamo allora ribadire che appunto questo viene configurato dalla psicoterapia on-line: un rapporto analitico, ovvero un rapporto nel quale i due analizzanti analizzano e possono, in virtù di questo movimento dialettico condiviso, accedere a possibili trasformazioni, a, diciamo così, minori, quotidiane rinascite.

Che ciò avvenga a dispetto della distanza geografica, dell’assenza della fisicità dei due contraenti (in una sorta di condivisa sospensione, anche morte del corpo), a dispetto dell’asincronia (come nel caso della psicoterapia via e-mail), nell’impossibilità di una condivisione visiva del volto dell’altro (come nel caso della psicoterapia via e-mail e via chat), non inficia quello che secondo noi costituisce al fondo la cifra caratterizzante il rapporto che si viene a stabilire: quanto sopra abbiamo indicato come ancoramento e che ha a che vedere, sostanzialmente, con la dimensione simbolica (piuttosto che letterale, di presenza letterale per esempio).

Anche on-line (e forse soprattutto on-line) si fa anima. E fare anima non passa necessariamente attraverso la condivisione di una fisicità. Rohde potrebbe comprenderlo meglio forse di molti sedicenti analisti dell’oggi, approdati a un terzo millennio le cui tracce rischiano già di perdere.

E a ridosso di Rohde e dell’antica, greca percezione dell’anima, possiamo comprenderlo anche noi. Antiche dottrine, come quelle che riguardano la capacità di automovimento dell’anima, trovano oggi forse imprevedibili concretizzazioni.

L’anima che si muove da sola, platonica e medioplatonica, è appunto l’anima che si cala nel rapporto terapeutico on-line. L’anima che lega nel rapporto i due lontani contraenti ancorandoli a sé, al proprio automovimento.

E’ appunto di questo automovimento dell’anima, corrispettivo in fondo della dimensione simbolica, che si avvalgono i due analizzanti in una psicoterapia on-line.

La scrittura, l’invio, lo scambio d’una email, insomma, veicolano un movimento che legittimamente s’intitola all’anima e alla sua irrinunciabile tensione al rapporto.

L’altro acquista allora realtà, “Wirklichkeit”, l’altro incide, ha effetti su di noi, le sue parole contribuiscono a costruire una storia comune, anche un registro comune, condiviso. L’altro è in rapporto, insomma. E’ ancorato a un rapporto.

Paradossalmente potremmo anche affermare, alla luce di quanto precede, che proprio in questo inedito luogo del fare analisi, che è la psicoterapia on-line, a partire da questa sequela di mancanze (mancano o possono mancare i volti e le voci, manca in ogni caso la fisicità), si rivela la Wirklichkeit dell’anima, la sua realtà, la sua effettività che trascende i vincoli della lettera.

Con il loro riconoscersi attraverso un indirizzo email, ad esempio, e il loro condividere un registro di discorso, paziente e analista partecipano, a dispetto delle distanze, di una realtà simbolica che contiene in sé orme possibili di trasformazione.

Anche in rete, dunque, si può rinascere.

Messaggi in rete e terapia analitica

in Giornale Storico di Psicologia dinamica, 47, Di Renzo Editore, Roma, 2000

Continuando la riflessione da tempo avviata sul tema delle “comunicazioni” che si osservano nel campo analitico, mi sono soffermata sulle “comunicazioni in Rete” ed in particolare sui messaggi che si scambiano nelle Chat-line. Messaggi caratterizzati dall’esser costruiti in forma scritta e dall’esser scambiati in tempo reale; messaggi che non hanno limitazione di portata nello spazio e possono indirizzarsi a riceventi noti e/o ignoti.

Nella concreta esperienza clinica, mi è occorso di verificare come la frequentazione delle vie telematiche, frequentazione ovviamente non episodica, attraverso i nuovi media, abbia prodotto in alcuni pazienti effetti psicologici rilevanti. Il fruitore delle comunicazioni in rete può provare una sensazione di onnipotenza, considerando l’apparente mancanza di limiti nella dimensione spazio-temporale e l’ampiezza delle possibilità di interconnessione. In taluni casi, alla ampliata possibilità di comunicazione può corrispondere una sensazione profonda di solitudine e/o isolamento, nonche un concreto impoverimento dei rapporti sociali reali, stante il tempo dedicato allo scambio in rete.

Può esserci il rischio di una progressiva astrazione dalla realtà concreta legato all’immettersi in una realtà virtuale. In taluni casi, ho rilevato nei pazienti che più assiduamente fruivano delle comunicazioni in rete un cambiamento nel rapporto con la realtà e variazioni nella stessa capacità di esaminarla criticamente. Può assumere dimensioni rilevanti il fenomeno della fruizione/ frequentazione dei siti hard, quindi di una sessualità a distanza, senza corpo e senza relazione. La distanza che caratterizza l’interazione garantisce, almeno in apparenza, lo scrivente dall’impatto emotivo diretto con il ricevente, e consente la marginalizzazione di timori e paure anche profonde. Allorquando i messaggi sono indirizzati a riceventi non conosciuti nella loro identità reale, si configura il confronto con l’ignoto.

Il medium, il moderno mezzo di comunicazione, assumendo la valenza di una estensione del nostro corpo e delle nostre capacità percettive, modifica il rapporto dell’uomo con se stesso e con gli altri uomini. Il medium diviene, quindi, modalità nuova di essere, di entrare in relazione. Le stesse reazioni sensoriali e le forme della percezione vengono ad essere alterate in quanto i media, amplificando la vista, l’udito, il tatto, estendono e modificano contemporaneamen la struttura mentale e sociale. McLuhan ha denunciato anche il «torpore” generato dai media a livello subliminale e l’effetto di «amputazione” ricadente sui sensi residui rispetto all’estensione di senso privilegiato nella fruizione dei media stessi. Si evidenzia, nelle ulteriori analisi dell’Autore, la ricaduta sull’intero complesso di produzione dell’immaginario ed il rischio per l’uomo di divenire un «raccoglitore di informazioni».

La Scrittura e l’Analisi

(in collaborazione con Mario Cardillo) in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 44, Napoli, Liguori, 1998 – Estratto

S. Quale è secondo te il rapporto tra lo scrivere e la manifestazione delle emozioni?

M. Per me scrivere vuol dire fissare nella forma e quindi limitare e superficializzare ciò che, nel suo divenire più profondo, è di per sé non esprimibile con la parola scritta.

S. Al contrario di te, la parola scritta è per me il miglior modo possibile per dare forma, espressione alle emozioni… La via privilegiata attraverso la quale i contenuti ancora confusi assumono chiarezza e, quindi, dicibilità.

M. Per me il rapporto tra lo scrivere e il fluire delle emozioni è problematico; intendo dire che il mio mondo emotivo si sviluppa in un fluire libero di intuizioni, immagini, parole non strutturate; mentre la scrittura – con le sue regole formali – non è adeguata ad accogliere lo spazio del profondo, perdendone la carica energetica.

S. E se la parola scritta diviene… arte?

M. Già… allora stai dicendo che non è tanto il mezzo espressivo in sé a limitare od aprire il fluire delle emozioni, quanto il come ed il chi lo usa.

S. Nel mio mondo personale, la scrittura rappresenta non soltanto il mezzo e la modalità di espressione; è il divenire stesso delle emozioni… La chiarificazione dei contenuti avviene attraverso la formalizzazione in parola.