dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica
Spero ricordiate tutti una tremenda e fantastica coppia del cinema e del teatro e finanche della vita: Elizabeth Taylor e Richard Burton, grandi attori, fenomenali bevitori, splendidi amanti, impareggiabili litigiosi sia sullo schermo che nella realtà. (La Bisbetica Domata non poteva che aspettare loro al cinema). Questa coppia superlativa ha fatto parlare di sé sia per i successi conseguiti insieme sia per la furibonda passione che li ha caratterizzati; sbronze colossali, matrimoni, divorzi, fidanzamenti e ancora matrimoni, che hanno contratto ripetutamente e il più delle volte fra di loro. Per buona pace dei nostri lettori non continueremo in una cronaca rosa postdatata. Vogliamo solo presentare un geniale e terribile figlio adottivo. Che ha scritto due capolavori del teatro di questo secolo. Il primo si chiama Chi ha paura di Virginia Woolf? del 1962 che ha avuto un incredibile numero di repliche ed é stato immortalato per lo schermo proprio dalla coppia Burton-Taylor per la regia di Mike Nichols e che ha fruttato nel 1966 l’Oscar alla bisbetica e indomita Liz e a Sandy Dennis, futura attrice altmaniana. Il secondo, Tre donne alte, è stato scritto nel 1991, dopo quasi trent’anni di sopore creativo, rappresentato in un teatrino sperimentale della 15ma strada, ha vinto nel 1994 il premio Pulitzer. Come non volevamo fare commenti da rivista patinata prima, così ora non desideriamo fare opera di critica teatrale. Quello che ci interessa a proposito di queste opere è un aspetto delicato e spietato contenuto in entrambe. Si tratta del rapporto genitori-figli.
Ci occorre riassumere brevemente il contenuto delle due commedie, che insieme rappresentano un vero trattato di psicopatologia quotidiana della coppia con e senza figli. In Virginia Woolf un opaco professore universitario cinquantenne sposa la figlia viziata del preside della facoltà e ne disattende le aspettative di diventare a sua volta preside, ospita insieme alla moglie-arpia in una serata alcolicissima una giovane coppia, anch’essa universitaria, lui professorino ambizioso, lei tenera, fragile e fresca sposa affetta dall’angoscia della gravidanza vissuta come induttrice di atroci patologie. In un crescente gioco di massacro la coppia anziana si procura dapprima le ferite più cocenti rinfacciandosi debolezze e colpe lontane e presenti per poi coinvolgere i due attoniti pivelli. Sembrano entrambe coppie senza figli, ma ad un certo punto viene fuori un’invenzione tragica: un presunto figlio della coppia più vecchia e più alcolemica viene tirato fuori soltanto per essere ucciso, sempre nell’invenzione, in un tragico incidente, trascinando i due inconsapevoli alla finestra del loro probabile baratro.
In Tre donne alte, recentemente visto anche in Italia per la accorta e sensibile regia di Luigi Squarzina, dopo l’enorme successo americano, si parla di tre donne e si scopre che non sono nient’altro che le tre età di una sola donna, divisa in tre per ragioni drammaturgiche, come Le Tre Età di Casorati, i Sussurri e grida di Bergman, le Tre Donne di Altman. Il partner maschile è assente sulla scena ma si parla di lui (malissimo). Un figlio presente nell’azione drammatica per poco tempo, non parla mai.
Se come dice Keats di Shakespeare ogni drammaturgo è un camaleonte che si trasforma nelle sue creature, qui le creature della vita del drammaturgo lo assillano non per essere trasformate, ma trasportate dalla realtà sulla scena; così il commediografo americano affonda il coltello nella piaga delle relazioni genitori-figli.
Vediamo in queste opere che cosa riesce a fare la sofferenza di un bambino rifiutato dai genitori biologici e adottato dai ricchissimi Albee, eredi di teatri di varietà ed impresari teatrali. Dopo aver vissuto, come tutti i rampolli di famiglie alto-borghesi, un’adolescenza protetta, comoda e ottusa, Edward Albee, oggi sessantottenne, sempre sessantottino, rompe con la sua famiglia adottiva dopo aver tentato disperatamente e senza successo di contattare i suoi veri genitori. Il giovane Edward vive le trasgressioni più in voga al Greenwich Village, fa i lavori più modesti, ma vive una vita tutta all’insegna dell’abbandono, accetta i lavori più umili e pratica per un certo tempo l’omosessualità, che non ha speranza né progetti di figli e poche probabilità (almeno negli anni 60) soprattutto di adozione. Abbandona i genitori adottivi quasi come i genitori biologici hanno abbandonato lui, e accetta soltanto un piccolo aiuto di un parente, quasi a farsi beffe dell’immensa fortuna dei secondi genitori. Intanto però si forma come scrittore ed anche come regista dei suoi lavori, cui la fortuna arride assai presto. Scrive Chi ha paura di Virginia Woolf? attingendo a ricordi e fantasie che lo vedono figlio assente, morto senza nascere così come si immagina essere stato per i genitori che lo hanno creato. Dopo trent’anni chiude i conti (o li apre, che è lo stesso) anche con la famiglia adottiva. Quel figlio muto al capezzale della madre vecchissima è forse lui, senza parole, perché non ci sono parole per descrivere la sofferenza di non aver risposto alla chiamata della madre adottiva moribonda.
Non ci sono proprio risposte? Crediamo di sì. Ci piace pensare che l’unica risposta possibile fosse trasformare questo gioco assurdo di amore materno, paterno e filiale che non ha mai recettori e soltanto anticorpi in una rappresentazione drammaturgica che non ha paragoni. Perché non soltanto di questi rapporti si tratta nelle due commedie, ma di molto di più. Il peso dell’esistenza, la sofferenza dell’invecchiamento, i volti dietro le maschere. L’inferno della coppia si può guardare da tutte le angolature, l’agente segreto teatrale Albee ha frantumato ogni muro della sacra famiglia. Nel dittico in questione nulla è risparmiato a questa istituzione. Un piccolo spiraglio di pacificazione sembra ravvedersi nel dolore di tutti, unico lenitivo delle richieste d’amore mai appagate. Su entrambi i lavori si stende un sudario pietoso di accettazione e nient’altro. Una calma catartica ci riveste alla fine dei due drammi, senza vincitori né vinti, senza più frastuono né urla di dolore. Si scorge soltanto in lontananza un sorriso triste sulla bocca del grandissimo Albee che con la pena della sua infanzia difficile ha consegnato alla sua penna creativa innumerevoli coazioni a ripetere le scene di vita familiare nei teatri di tutto il mondo, per rifletterci e farci riflettere.