Incontro con Giovanna Gagliardo: Pubbliche virtù cinematografiche, appassionate visitazioni psicoanalitiche

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto

Amedeo Caruso: Vogliamo cominciare con la commissione che ebbe per il documentario su Emilio Servadio?

Giovanna Gagliardo: Sì, eravamo nella seconda metà degli anni ottanta, era l’ottantotto o forse l’ottantanove. All’epoca c’era all’Istituto Luce come Presidente Stefano Rolando, che aveva grande sensibilità per temi antologici. Voleva fare il Novecento, fare una collana sul ‘900 con grandi testimoni, ognuno nella propria disciplina. Decise così’ di cominciare con i padri fondatori del Movimento Psicoanalitico. Lui aveva una moglie psicoanalista e pensò al lombardo Fabio Carpi per Musatti che viveva appunto a Milano e a me per Servadio che viveva a Roma come me. Io ero molto coinvolta nel movimento psicoanalitico sia perchè ero in analisi ed anche perchè ero molto amica di Piero Bellanova a cui sono stata legata da affetto fino alla sua morte. Bellanova infatti contribuì con la sua consulenza per il mio lavoro su Servadio. Così mi affidarono Servadio, che io non conoscevo, ma col quale entrai in contatto attraverso la dottoressa Renata Thiele – moglie di Stefano Rolando – che era un’allieva di Servadio. Continua a leggere…

Alla ricerca delle radici psicoanalitiche del Cinema Italiano d’Autore Incontro con lo scrittore e regista Fabio Carpi: Parliamo tanto (psicoanaliticamente) di lui.

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto

Amedeo Caruso: Come ben sai, essendo Tu il Nume Tutelare e l’Alleato Principe della mia impresa, sono alla ricerca delle radici psicoanalitiche del cinema Italiano d’Autore. Ho infatti incontrato Vittorio De Seta e Nelo Risi solo grazie al Tuo aiuto. E infatti Tu hai messo lo zampino, collaborando alle sceneggiature di entrambe le opere strettamente psicoanalitiche dei Tuoi amici, “Un uomo a metà” del primo e “Diario di una schizofrenica” del secondo. Il primo è del 1966, il secondo del ’68. Dunque i tuoi interessi di intellettuale cinematografico nei confronti della psicoanalisi sia junghiana che freudiana risalgono a circa venti anni prima la realizzazione di “Cesare Musatti Matematico Veneziano” dell’85 e “Barbablù, Barbablù” che è del 1987, giusto?

Fabio Carpi: Devo fare una piccola precisazione. Il mio contributo a “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta è stato di carattere molto particolare e non ha minimamente influito sull’ideazione e i contenuti del film di cui Vitti è l’unico e indiscusso autore. Infatti, anche se il mio nome figura generosamente nei titoli di testa come coautore della sceneggiatura, io sono intervenuto quando il film era stato già, non soltanto interamente girato, ma perfino montato. E poiché la sua lunghezza appariva eccessiva se ben ricordo raggiungeva le tre ore, tale da renderlo difficilmente proiettabile in una sala cinematografica, sono stato chiamato da Vitti per aiutarlo a riorganizzare i materiali operando tagli radicali, alleggerimenti all’interno delle scene, e spostamenti di intere sequenze, per renderlo più facilmente leggibile e consono alle esigenze di una distribuzione. Il mio contributo è stato quindi di natura esclusivamente tecnica e professionale, tanto più che i miei cosidetti interessi psicoanalitici non comportavano familiarità alcuna con il mondo di Jung. Diversa è stata la collaborazione a “Diario di una schizofrenica” di Nelo Risi, che iniziò quando Nelo mi fece leggere due libri di Madame Séchehaye, entrambi pubblicati dalle Presses universitaires de France, il “Journal d’une shizophrène “appunto, e un testo di natura scientifica sulla realizzazione simbolica. Il lavoro fu lungo e faticoso, fianco a fianco, per vari mesi, e alla fine comportò anche una visita di qualche giorno a Madame Séchehaye a Ginevra per sottoporle la prima versione della sceneggiatura e correggere con lei i nostri eventuali errori. L’incontro con Madame Séchehaye è stato per me di grande importanza, e conservo ancora una bella fotografia che la ritrae insieme a Mademoiselle Dűss la quale, come scoprimmo in seguito, non era altri che la schizofrenica guarita. I miei interessi per la psicoanalisi risalgono però a molti anni prima, all’immediato dopoguerra, quando Umberto Saba, grande poeta e inguaribile nevrotico saltuariamente in cura, che aveva appena pubblicato (o stava per pubblicare?) “Scorciatoie e raccontini”, frequentava regolarmente la nostra casa a Milano, o per meglio dire la mia stanza. Inoltre, in quel periodo, viveva con noi anche il marito di una mia sorella, Gaddo Treves, psichiatra, e in seguito psicoanalista di matrice freudiana. In tempi successivi mi appassionarono due altri testi stampati dalle Presses universitaires, uno di Gérmaine Gueux sulla nevrosi d’abbandono, e un altro dell’americano Rosen per la sua insolita tecnica che comportava anche una specie di spettacolare lotta terapeutica con l’analizzato. E ancora voglio ricordare fra i miei autori preferiti Norman O. Brown e Georg Groddeck. Continua a leggere…

Alla ricerca delle radici psicoanalitiche del cinema italiano d’Autore Incontro con Nelo Risi, un poeta cineasta sensibile a Psiche

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 7, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008

Amedeo Caruso: Il film che naturalmente interessa subito noi psicoanalisti è Diario di una schizofrenica. Cominciamo da qui?

Nelo Risi: Ho trovato in una libreria francese il libro della Sechehaye e ne ho parlato con Fabio Carpi. Ecco qui il nostro soggetto, gli ho detto; lui è stato d’accordo e siamo andati a trovarla. Ne abbiamo parlato anche con la Casa Editrice che lo pubblicava, la Presse Universitaire per concordare i costi. Erano tempi in cui questi film si potevano fare con due lire, in più era un film “quasi” analitico e onestamente non aveva nessuna possibilità di smercio. Invece è andato benissimo. Continua a leggere…

Intervista a Umberto Galimberti – Operazione Tuono-Ga

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 6, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008

Amedeo Caruso: Professor Galimberti, grazie per aver accettato l’invito del Centro Studi di Psicologia e Letteratura fondato da Aldo Carotenuto. Noi siamo lieti di ospitarLa anche per via video al nostro Convegno che, come sa, si intitola Dalla Maieutica al Transfert. Consulenza filosofica e psicoterapia a confronto. È stato proprio Lei a portare la consulenza filosofica in Italia, vero?

Umberto Galimberti: Sì. Sono stato io perché ho avuto l’impressione che la psicoanalisi perdesse un po’ i colpi. Le ragioni per cui li perde sono che la psicoanalisi è un grandioso sistema fondato sulla metafora della sessualità. Ma ora la metafora della sessualità ha perso potenza perché il sesso non è più un tabù, è diventato pratica abituale. Allora bisogna organizzare altri tipi di scenari che non siano rigorosamente riferiti a quelle due pulsioni della specie che per Freud costituiscono la base dell’inconscio: sessualità per la riproduzione e aggressività per la difesa della prole. Credo che attualmente le forme del disagio siano cambiate. Siamo passati da una società della disciplina, dove il conflitto era tra permesso-proibito, a una società dell’efficienza dove il conflitto è tra ce la faccio-non ce la faccio a raggiungere gli obiettivi che mediamente mi si pongono, sia a livello personale che a livello di apparati. Allora, in un contesto di questo genere, la stessa depressione ha cambiato forma: non è più organizzata su un complesso di colpa, ma su una sensazione di inadeguatezza. Questo perché la nostra società diviene sempre più americana, perché le nostre prestazioni devono essere sempre al massimo livello, perché tutti gli apparati tecnici alzano ogni anno l’asticella. E in questo contesto lavorare con apparati psicoanalitici che fanno riferimento a sessualità, aggressività e a divieti superegoici, potrebbe non essere più così efficace. Il problema sta nel reperire un significato alla propria esistenza a partire da un riconoscimento della propria identità. E questa identità ci viene data dal riconoscimento degli apparati di appartenenza. Se gli apparati di appartenenza ci negano o non ci riconoscono, anche la nostra identità va in frantumi. Di qui tutte le forme del disagio. Questi sono gli effetti dell’età della tecnica. E l’età della tecnica ha determinato degli scenari che la psicoanalisi non aveva previsto. Quindi noi, in qualche modo, dobbiamo incominciare ad aprire un dialogo tra l’apparato psicoanalitico, che è un apparato molto significativo, e la novità tecnologica. Io ipotizzo addirittura un inconscio tecnologico, ma di questo parlerò in seguito. Continua a leggere…

Conversazione con Carlo Lizzani un regista di sinistra che sogna Hitler e Mussolini

da Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura

Lizzani: Devo confessarle che in quel periodo (parliamo del 1942-1943) cominciavo a sognare di diventare un rivoluzionario politico di professione. Ma già nel ‘44-’45, con Roma liberata, e l’attività politica legalizzata, la vicinanza con Berlinguer mi fece capire che non avevo la tempra di tessere quella rete fitta di rapporti e conoscenze, fatta di pazienza che ci vuole per un vero politico.

Caruso: Ho letto infatti che subito dopo la guerra Lei lavorò fianco a fianco con Enrico Berlinguer alla Federazione Giovanile Comunista ma come dice Gualtiero De Santi nella bella biografia a Lei dedicata e pubblicata da Gremese nel 2001 “La strada del rivoluzionario di professione non gli era congeniale, ed in ogni caso non ebbe il sopravvento”. Credo però che la formazione politica Le sia servita come scuola di rigore intellettuale e di onestà formale per il suo cinema, che comincerei a distinguere come psicologico soprattutto rispetto alle immagini, nel senso che la sua capacità di ottenere uno scandaglio profondo del comportamento umano consiste nel mostrare crudamente ciò che gli uomini e le donne fanno, e mi riferisco a film come “Actung banditi”, “L’oro di Roma”, “Il gobbo”, “Kleinhof Hotel”, “Banditi a Milano”, “Svegliati e Uccidi”, “Storie di vita e malavita”, “San Babila ore 20”. Ma torniamo alla Sua biografia.

La mia autobiografia comincia proprio con il sogno in cui mi apparve Hitler. Hitler in realtà lo avevo visto già la prima volta nel 1938 quando mi trovavo tra i giovanissimi avanguardisti che lo salutavano in via IV Novembre a Roma. Ne avevo sentito però l’odore malsano anche a Berlino nel 1947 dove mi trovavo come aiuto regista di Rossellini per “Germania Anno Zero”. Dalle macerie del bunker e della Cancelleria, esalavano ancora miasmi che sapevano di putrefazione, di morte. Il sogno viene a visitarmi nel 1960, o forse era il ‘61. Sto girando un film. Durante la pausa mi accorgo che una delle comparse è proprio lui, Adolf Hitler. Chiedo al maestro d’armi di procurarmi subito una pistola che mi viene fornita. Sono così deciso ad affrontarlo ma mi accorgo di procedere molto lentamente perché in realtà sono diviso interiormente tra due grandi possibilità: diventare un eroe, il giustiziere del secolo che passerà alla storia per aver cancellato dalla faccia della terra l’artefice dell’Olocausto oppure l’artista, l’autore che riesce a farsi raccontare i segreti del Bunker, colui insomma che mette a punto uno scoop mondiale, che gli consente di entrare nel labirinto del cervello del più malefico criminale della storia, intervistandolo in un posto tranquillo. Sono deciso però a spaventarlo, a metterlo in ginocchio e la pistola serve proprio a questo… ma nell’attimo in cui sto per premere il grilletto mi sveglio e resto con una sensazione di amaro e il desiderio di saperne di più. Come ho scritto nella mia biografia, continuo ancora oggi ad interrogarmi sui molteplici significati di quel sogno. Continua a leggere…

Ricordo di Luigi Aurigemma con la sua ultima intervista

da Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura

Luigi Aurigemma: Jung non riusciva a formulare bene alla fine della sua vita quello che sapeva della non-morte, della morte totale, cioè l’esperienza dell’eternità…

Amedeo Caruso: Secondo Lei che idea aveva Jung dell’esperienza dell’eternità?

Ripeto, Jung sapeva che esiste una morte non totale.

Mi viene in mente quella poesia di Montale, se la ricorda? (e gliela recito a memoria, è una delle mie preferite: Sono pronto ripeto, ma pronto a che? / Non alla morte cui non credo / né a questo brulichio d’automi che si chiama la vita / L’altra vita è un assurdo / ripeterebbe la sua progenitrice con tutte le sue tare / l’oltrevita è nell’etere che se ne ciba per durare più a lungo nel suo inganno / Essere pronti non vuol dire scegliere / tra due sventure o due venture / oppure tra il tutto e il nulla / È dire io l’ho provato /ecco il velo, se inganna non si lacera).

Più invecchio e più mi sento animato e turbato dal dubbio. Invecchiare bene significa aver capito almeno qualcosa di quello che è stato, ma in questi giorni sono pervaso dal dubbio. È difficile invecchiare quando non si capisce, e pensare di non capire vuol dire non essere capace di tirare le somme di quel che si è vissuto. Invecchiare bene significa conoscere meglio la verità delle cose. Arricchire la conoscenza. Intendo dire la conoscenza della verità non tanto la conoscenza delle cose. Questo significa invecchiare saggiamente, non lasciarsi sfuggire l’essenziale.

Le confesso Professore che mi da un grande conforto ricordare a me stesso la magia imponderabile che usa Jung per descrivere la nostra esistenza: “la vita è un breve intervallo tra due grandi misteri, che poi sono uno soltanto”.

Però perchè lei ha scritto che il tempo della vita è breve?

(È un lapsus, non oso interpretarglielo, ma è chiaro, chiarissimo: si duole del fatto che la vita sia breve… in realtà io ho scritto che “il tempo della morte” è breve… non della vita).

Diciamo che è un modo per familiarizzare con il concetto della morte. Non vorrei parlare soltanto per bocca di altri ma Bataille lo ha scritto in modo sconvolgente: l’unico modo per familiarizzare con l’idea della morte è quello di collegarla a un’idea libertina. È un po’ quello che lei dice quando invita a “lasciar respirare il diavolo”.

Sono contento che lei ricordi e tenga presente questa mia espressione, è proprio quello che ci vuole, per noi umani, lasciar respirare il diavolo in noi.

Abstract

Questa intervista ha avuto luogo il 29 luglio 2007 a Parigi. L’autore ha conversato con il famoso curatore dell’Opera Omnia di Jung in Italia nonché autore de “Il Segno Zodiacale dello Scorpione” e di “Prospettive Junghiane”. In questo dialogo vengono toccati i temi della psicoterapia, della vecchiaia e della morte e rievocati gli anni della formazione di Luigi Aurigemma che è morto meno di tre settimane dopo a Parigi. L’intervista si trasforma così in un ricordo-testamento di questo eminente psicoanalista e storico vissuto nella capitale francese per oltre cinquant’anni senza rinunciare alla cittadinanza italiana.

Le radici junghiane del cinema italiano d’Autore. Intervista a Vittorio De Seta, il regista dell’Ombra

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007

L’avventurosa storia del Cinema Italiano d’Autore percorre itinerari che non sempre passano per le autostrade intitolate a Fellini o Antonioni, o superstrade a tre corsie denominate Visconti e Bertolucci. Esistono sentieri, (gli americani le chiamano strade blu), che conducono il viaggiatore verso panorami inusitati e bellezze nascoste che soltanto chi vuole imparare a viaggiare può conoscere. Per questo motivo da anni ormai davo la caccia a un film introvabile e importantissimo, secondo me, dal titolo “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta. Pur possedendone la sceneggiatura sapevo che il film era abbastanza diverso dallo script e pertanto ero curiosissimo di vederlo. Qualche anno fa avevo chiesto anche l’aiuto a quel nuovo e caro amico che è il regista Fabio Carpi, poiché egli ha collaborato alla sceneggiatura del medesimo. Sebbene Carpi sia stato generosissimo e disponibile con i suoi film, non aveva una copia della pellicola in questione e neppure notizie di De Seta da molto tempo. Ero riuscito ad appurare soltanto che viveva da qualche parte in Calabria e nessuno sapeva di più, né telefono né indirizzo. La ragione per la quale ero cosi ansioso di vedere il film e conoscere il regista era dovuta al fatto che, conversando con il mio amico e maestro Aldo Carotenuto, anni orsono ero venuto a conoscenza che De Seta conosceva bene il maestro di Carotenuto, di Fellini e di tanti altri intellettuali e psicologi e medici e scrittori che orbitavano nel mondo artistico e psicoanalitico della Capitale negli anni ’50-’60. Carotenuto nel suo libro Jung e la cultura italiana riporta una amabile conversazione con Fellini durante la quale viene citato un amico e collega di Federico, il regista De Seta, per merito del quale l’artista riminese è entrato in contatto con Ernst Bernhard, il medico ebreo allievo di Jung che era fuggito in Italia ai tempi della persecuzione nazista. La storia di Bernhard è stata più volte raccontata da tanti suoi allievi – pazienti, (lo stesso Carotenuto, Natalia Ginzburg, Fellini) ed è stato a lui dedicato anche un numero della Rivista di Psicologia Analitica (fondata da Aldo Carotenuto). Avevo letto da qualche parte che il film di Fellini Giulietta degli spiriti portava inizialmente una dedica a Bernhard che non ho trovato nelle copie in videocassetta e in dvd che ho consultato. Non ricordo neanche di averla vista sulla pellicola che vidi nei primi anni ’70. Forse si era trattato solo di una dichiarazione di Fellini, oppure di una informazione data a Tullio Kezich dal regista suo amico senza che poi si scrivesse mai la dedica. Fatto sta che poi ho letto nella sceneggiatura che il film di De Seta è dedicato espressamente ad Ernst Bernhard. Se un film viene dedicato ad uno psicoanalista questo è un motivo valido per andare in cerca del film in questione, ed è quello che mi sono proposto appena scoperta la traccia junghiana. Come sempre accade a chi cerca con fede e convinzione, ho trovato per serendipity il regista Vittorio De Seta una sera che ero dalle parti dell’Associazione Culturale “Apollo 11” di Roma fondata da un giovane ma vecchio amico (che ho ritrovato già sulla via del successo per la regia del docu-musical L’Orchestra di Piazza Vittorio), che guarda caso organizzava una retrospettiva del regista, con la presenza dello stesso. Da qui è cominciata la frequentazione telefonica, epistolare, telematica e di persona con questo gentiluomo siciliano che vive prevalentemente in Calabria, ma che ad oltre ottant’anni ha tanta voglia ancora di vivere, di viaggiare e di lavorare, come ha dimostrato recentemente con il suo bellissimo film “Lettere dal Sahara”. Vittorio De Seta si è dimostrato nei miei confronti di una cortesia e di una disponibilità davvero superlative. Grazie al suo aiuto sono riuscito a prendere visione di tutti (dico tutti!) i suoi film, dai primi documentari al film girato in Francia che è quasi più irreperibile di “Un uomo a metà”, L’invitata.

Se dovessi paragonare la portata della corazzata De Seta direi che l’unico calibro al quale si avvicina è quella dello scrittore E.M. Forster. Dice Arbasino a proposito di questo scrittore inglese che la sua fama aumentava ad ogni libro che non scriveva, che il suo valore cresceva per ogni opera che lasciava nel cassetto (ed infatti il bellissimo Maurice uscirà postumo). Pochi libri assolutamente meravigliosi, un’intensa attività critica, insegnamento ad Oxford, lunga permanenza in India. Una vita trascorsa nella dimora dell’impegno civile, della letteratura, della libertà. Così è anche il nostro De Seta che esordisce nel lungometraggio a poco meno di quarant’anni con Banditi a Orgosolo un film che ancora oggi ha molto da dire sul fenomeno del banditismo e non solo. De Seta ha girato due cortometraggi in Sardegna negli anni precedenti (Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia) e tra il 1954 e il 1959 altri che sono delle perle di etno-cinematografia (Vinni lu tempu de li piscispata, Isole di fuoco, Sulfarara, Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro, Pescherecci, I dimenticati). Dopo il film sui banditi sardi che ottenne alla Mostra di Venezia del 1961 il Premio Opera Prima, e fu giudicato come «la sola rivelazione» del festival da parte della mitica rivista francese “Cahiers du Cinema”, il regista siciliano gira il celebre (solo per gli iniziati) Un uomo a metà. Questo film fu apprezzato da Moravia e Pasolini che ne scrissero tutto il bene possibile. Fu invece distrutto dalla critica ed il pubblico lo disertò. La rivincita di De Seta avrà luogo oltre quarant’anni dopo al Moma di New York che lo consacra tra i più importanti film del cinema italiano. Si accorgono di lui, quasi in contemporanea Martin Scorsese in America ed Agostino Ferrente in Italia. Tra i critici italiani che contribuiscono a riportarlo alla ribalta figurano Goffredo Fofi e Gianni Volpi che gli dedicano una lodevole monografia, “Vittorio De Seta, Il Mondo perduto”. Nel 1966, dunque quattro anni dopo “Otto e 1/2” compare quest’opera che secondo noi può essere considerata come il film ombra del film di Fellini. Non essendo dei critici cinematografici – come abbiamo più volte ribadito a Vittorio De Seta e confermiamo in questa sede – non intendiamo abbandonarci a elucubrazioni o interpretazioni che spettano agli addetti ai lavori. Desideriamo soltanto aprire una finestra psicoanalitica sulla lunga trincea della critica e lanciare una pacifica e inoffensiva ventata di idee – da addetti ai lavori della psiche – riguardo a una possibile lettura de “Un uomo a metà” come della parte nascosta e inguardabile, difficile e indigesta della natura umana che questo film cattura e mostra. In un mio prossimo volume verranno pubblicate le riflessioni allargate a tutto il cinema di De Seta e all’influenza della psicoanalisi nella sua opera. Mi limito per ora a citare soltanto il raro e pregevolissimo film L’invitata girato in Francia con Michel Piccoli, un vero capolavoro di essenzialità, eleganza e bellezza sul tema dell’incomunicabilità, tanto migliore di alcuni Antonioni sopravvalutati, e soprattutto ancora valido e giovane, senza una ruga. Dello stupendo Diario di un maestro (1973) ho accennato appena nella rubrica Viste di questo numero. Come Forster, De Seta ha portato a termine poche opere, una diversa dall’altra, tutte legate da fili invisibili ma tenaci, dei veri gioielli di rigore, etica e comunicazione, delle autentiche opere d’arte. La sua fama è cresciuta ad ogni film che non ha fatto e ci ha consegnato finora cinque film di rara poesia, una dozzina di documentari senza dimenticare il lungometraggio In Calabria.

Ospitiamo ora una breve conversazione con il regista a proposito delle sue radici junghiane.

Amedeo Caruso: – Lei è stato fra i primi artisti ed intellettuali a conoscere e frequentare Ernst Bernhard. Vuole parlarmene?

Vittorio De Seta: – Lo conobbi nel ’58. Avevo un fratello maggiore, Emanuele che tra il ’56 e il ’58, fu incarcerato e processato per reati di droga. Piuttosto ingiustamente. Ne uscì psicologicamente malconcio. Era instabile, aveva subito traumi in guerra. Lo ospitai per mesi. Uno psicologo incaricato dal tribunale suggerì una psicoterapia. Bernhard venne a casa mia, a Roma, all’Aventino. Sconsigliò un’analisi. La “psicoanalisi” era considerata allora, qui da noi, una scienza esoterica, scientificamente dubbia, tenuta in poco conto, osteggiata dalla Chiesa, dal partito comunista. Tuttavia quel dottore mi colpì. Avevo anch’io problemi psicologici.

Qual era stata la sua formazione?

Sono nato nel 1923, a Palermo. Di famiglia aristocratica, genitori separati; non avevo quasi conosciuto mio padre. Poca cultura durante il fascismo, poca formazione etica. Studi irregolari, convitti religiosi, anni di collegio in Svizzera.. Poi (1943-45) 2 anni di prigionia in Germania. Studi svogliati d’architettura. Passione per la lettura, un’oscura necessità di comprendere le cose. Nel ’47-’48 iscritto per un solo anno, al partito comunista. Nel 53 avevo deciso di fare cinema. Prima come aiuto regista. Dal ‘54 al ‘58 realizzai nove documentari di 10 minuti, apprezzati. Nel ’55 mi ero sposato.

Entrò allora in analisi con Bernhard?

Si, analizzavamo i sogni, parlavamo. Cosa insolita, prese in cura anche mia moglie. Ricordo che un giorno, in un momento di tensione, andammo da lui, per aiuto. Ci ricevette senza quasi parlare, preparò un thè e quando tutto fu pronto ci guardammo, con mia moglie: ogni contrasto era svanito. Questo era Bernhard. Faceva in modo che alle conclusioni si arrivasse da soli. Nel 1960 m’incoraggiò, mi “autorizzò” a fare Banditi a Orgosolo. Interrompemmo l’analisi per un anno.

È noto che è stato proprio lei a far conoscere Bernhard a Fellini. Com’era il suo rapporto con l’autore de La dolce vita?

Dopo il successo di quel film, il produttore, Rizzoli, finanziò la “Federiz”, una casa di distribuzione, affidata a Fellini, con l’intento di favorire il cinema d’autore. Aprirono una sede sontuosa in via della Croce. Ma non funzionò. Fellini, a causa del suo genio, particolare, non riusciva a badare al lavoro degli altri. Non aveva la pasta critica, cinefila, di un Pasolini, un Truffaut, uno Scorsese. Fra l’altro aveva un collaboratore, regista anche lui, al quale non andava bene niente. In poco tempo riuscirono a bocciare Il posto di Ermanno Olmi, Banditi a Orgosolo, già fatti, e Accattone, di Pasolini, pronto per le riprese. Ciononostante diventammo amici. Un giorno eravamo nella sua “500” bianca – che decisamente ci stava stretta, eravamo grossi tutti e due – in un piccolo largo, sopra il Tritone. Ci mettemmo a parlare e lui diede fondo al suo malessere, proprio come si fa con le persone conosciute da poco. Davanti a noi si apriva la prospettiva accattivante di via Gregoriana, dove abitava Bernhard. Un segno del destino? Ricordo come fosse adesso. Mi venne spontaneo dirgli: “Perché non vai da Bernhard?”. Ci andò in capo a qualche giorno.

Forse “Otto e mezzo” ebbe inizio proprio lì…

Non c’è dubbio, l’analisi ha avuto un effetto determinante su lui. In seguito ebbi tempo di riflettere. Con La dolce vita, aveva tirato fuori tanti contenuti inconsci e se li era trovati davanti, ancora segreti, dolorosi, insidiosi. Per questo stava male.

Vi siete frequentati in seguito? Soprattutto avete avuto modo di parlare del vostro comune analista?

Questo no, sarebbe stato imbarazzante. Non ci siamo quasi più frequentati perché non riesco a coltivare le amicizie. Non sono mai andato a Fregene. Fellini era un incanto, ti avvolgeva d’attenzione, simpatia, affetto. Poi, da quel momento, tutti e due lavorammo ad un film d’autoanalisi. Non ce lo siamo mai detto. Ci siamo persi di vista.

Sente di aver creato un film – Un uomo a metà – che rappresenta in un certo senso l’ombra di “Otto e mezzo”?

Oddio, che s’intende per “ombra”? Lo diciamo in senso junghiano? Certo che il mio film è stato l’ombra dell’altro, nel senso che Otto e mezzo ha riscosso un successo mondiale, visto da milioni di persone, vinto premi, riconoscimenti, mentre Un uomo a metà è stato distrutto dalla critica, apparso fugacemente nelle sale, insomma, ricoperto d’obbrobrio. Solo Pasolini e Moravia e pochi altri l’hanno sostenuto. Tuttavia a distanza di 40 anni viene ancora proposto. L’anno scorso l’ho rivisto negli Stati Uniti. Ci saranno state 500 persone, (e lì quasi tutte hanno fatto l’analisi), ma alla fine, mi è sembrato, ha suscitato ancora imbarazzo, disagio. È un film casto, eppure in Francia, nel ’67, la censura l’ha vietato ai minori di 18 anni. Che dire? Mi piacerebbe parlarne con Fellini. Certamente mi aiuterebbe a capire. Ma non ha molto senso chiedere a un autore un giudizio sulla sua opera, su quella degli altri. Un film è un tessuto fitto di sentimenti, pensieri, intuizioni. Perché tentare di sezionarlo col bisturi della cosiddetta “ragione”? Vorrei dire solo due cose: Un uomo a metà non è consolatorio e – come gli altri miei lavori – è un “film della realtà”, sia pure psichica.

Sono passati molti anni, cosa le è rimasto, quanto ha influito sull’uomo, sul regista De Seta, l’esperienza psicoanalitica? Pensa che sia stata decisiva per il suo percorso umano e professionale? Crede che il suo ultimo film, Lettere dal Sahara, risenta del lavoro con Bernhard?

Certo, l’influenza della psicanalisi è stata decisiva. Mi ha tirato fuori dal marxismo, dal materialismo. Con l’influenza junghiana ho riscoperto il senso del mistero, mi sono avvicinato alla religione. Mi è sembrato di tornare alla fede. Ma non ero soddisfatto, c’era qualcosa che non andava, non riuscivo a rinunciare alla ragione. Infine sono stato aiutato in modo decisivo dai saggi morali e religiosi di Tolstoj. Vede, è stato un percorso continuo. In sostanza non ho fatto i miei film dopo aver capito le cose, li ho fatti per comprenderle. Non mi sono mai specializzato. I film più che un fine sono stati un mezzo, (per questo sono pochi e diversi tra loro). Ma non vorrei prendermi troppo sul serio. È per dire che proprio il dinamismo, il coinvolgimento continuo, in prima persona, mi hanno impedito di naufragare nel nichilismo. Certo che il mio ultimo film Lettere dal Sahara risente del lavoro con Bernhard. Lui ha segnato la mia vita, in modo decisivo.

Che rapporto ha oggi con la sua vita onirica?

Non sogno più, o almeno non ricordo i sogni. Giorni fa finalmente ne ho fatto uno. L’ho trascritto ma non ho tentato di interpretarlo, come facevo una volta. Mi dispiace.

Sono quasi certo che De Seta tornerà a sognare e a interpretare i sogni come faceva una volta. Sono assolutamente sicuro che è tornato a farci sognare con il suo ultimo film “Lettere dal Sahara” che è una vera lezione di umanità ad occhi aperti, seppure nel buio delle sale cinematografiche. Il mio invito e la mia speranza sono di aver convinto i nostri lettori a tornare a vedere o a scoprire i suoi film, quelli di un vero, lucido e sincero maestro del cinema italiano.

Abstract

L’autore incontra una figura ormai mitica del cinema italiano, Vittorio De Seta, autore di quello che Caruso definisce il film “ombra” de “La Dolce Vita” di Fellini, “Un uomo a metà”. L’intervistatore paragona De Seta a E. M. Forster, lo scrittore inglese tra i più importanti del ‘900, la cui fama cresceva ad ogni libro che non scriveva; così è De Seta che con i suoi pochi film in oltre cinquant’anni ha segnato un solco indelebile nella cinematografia tricolore. In questa conversazione scopriamo che fu proprio De Seta a presentare il famoso Ernst Bernhard, (il medico e psicoterapeuta maestro di tanti bravi psicoanalisti e di molti importanti artisti italiani) a Federico Fellini. Abbiamo così un ritratto di uno degli ultimi mostri sacri della Settima Arte in Italia, che si dimostra un autentico gentiluomo (nobile lo è davvero per discendenza) nell’aprirsi per la prima volta su argomenti molto “psicoanalitici” e privati.

Vie (e) regie dell’inconscio. Intervista a Giorgio Albertazzi

in Amedeo Caruso – Regie dell’inconscio – Le radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore, Alpes, Roma, 2014. Clicca qui per l’intervista completa

Se il sogno è la via regia all’inconscio, come afferma Freud, molti artisti hanno trovato, forse prima di Freud, attraverso la loro creatività – come la psicoanalisi ha fatto con i suoi propri strumenti – la strada per conoscere i labirinti della vita interiore degli esseri umani.

Giorgio Albertazzi, che ammette candidamente di non sognare mai – o quasi, è stato ed è uno dei sommi ricercatori internazionali della rappresentazione scenica e cinematografica guidato (inconsapevolmente forse) dal demone ispiratore e illuminante – luciferino, dunque – dei misteri della psicologia del profondo.

Avvicinarsi ai segreti dell’inconscio pretende un corteggiamento quotidiano di opere letterarie fino a portarsele a letto, risvegliandosi e sognando ad occhi aperti di trasferirle sul palcoscenico o sul set, facendole passare prima dal filtro della propria imagerie.

Si tratta di utilizzare secondo me una trance peculiare degli artisti, che – quando sono tali – versano in uno stato perpetuo di reverie, che è in bilico tra il duende e l’ipnosi terapeutica.

Nel caso di Giorgio Albertazzi non soltanto il lavoro degli altri ma anche i suoi personali e originali scritti hanno configurato un mirabile e prezioso quadro che ci consentono di definirlo un vero e proprio “principe quaternario dell’inconscio teatrale e filmico”, con una strizzatina d’occhio a Jung, che “guarda caso” il Nostro ha anche conosciuto personalmente.

Un principe quaternario che si autodefinisce “un perdente di successo” che ha introdotto Dostoevskij e la Gradiva di Jensen-Freud nelle nostre case e vite televisive fin dagli anni ’70. E Shakespeare e “Il Silenzio delle sirene” e “Pilato sempre” e “Le Memorie di Adriano” e Pirandello e centinaia di altre rappresentazioni nei maggiori teatri italiani e stranieri.

Non c’è un autore o un testo da lui interpretato e/o diretto che non abbiano a che vedere con le problematiche e le meraviglie intriganti dell’inconscio. Basterebbe il suo dottor Jekyll per vincere una eventuale scommessa sull’importanza di psiche nella carriera di questo Senex-Puer in perfetto equilibrio tra saggezza e follia, raggiunta probabilmente mediante l’esperienza di impersonare anche mister Hyde, e riuscendo in quello che non riuscì al personaggio di Stevenson, che altro non è che un processo individuativo, una non-divisione tra l’essere e l’ombra, la ricerca della soluzione di continuo fra i due stati umani contrapposti.

Il Maestro ha capito che l’unico modo per partecipare al grande enigma della vita e dello spettacolo è quello di giocare nelle vesti del loser, dell’errante. L’unica possibilità per capire qualcosa della vita e dell’arte è di porsi nelle condizioni di giocarsi tutto sempre, perchè per capire il gioco bisogna cominciare a sapere come si sta quando si perde, quando si è disperati. Anche la vita riusciamo ad apprezzarla soprattutto quando rischiamo di perderla, o di perdere chi amiamo.

Mettersi in gioco nel caso di Albertazzi vuol dire ancora di puntare su testi difficili della roulette dello spettacolo (come rischiare insomma soltanto su un numero anziché accomodarsi sul rosso e nero).

Ma il destino degli iniziatori, di coloro che aprono la breccia nel muro che divide il vecchio dal nuovo, degli sperimentatori curiosi ed aperti a nuove conoscenze è sempre quello di sentirsi dei diversi, dei solitari che suscitano invidie ed incomprensioni ed in cambio ottengono una capacità introspettiva che li rende capaci di intravedere tutta la meschinità e la miseria umana. Questo è anche il compito e il destino del lavoro psicoanalitico, saper cercare per sè e per i propri psicoanauti le strade di una vita nuova, sostenendosi e sostenendo il lavoro comune nella ricerca della autenticità e della autonomia, per sedere insieme al tavolo della vita con il nostro personale doppio, che si chiami mr. Hyde oppure Dorian Grey ed aprire una “conversazione mai interrotta”, sotto il sole della creatività e senza mai dimenticare la lezione di Shakespeare che ci definisce tutti attori sulla scena dell’esistenza.

Queste sono le premesse psicoanalitiche che sono diventate un tessuto connettivo di grande fibra, resistenza e persistenza nelle amabili conversazioni con il Maestro Giorgio Albertazzi.

ABSTRACT

Amedeo Caruso prosegue il viaggio iniziato con le interviste ad artisti su sogni e psicoanalisi pubblicato in “Di che sogno sei?” (Liguori, ’97) incontrando questa volta l’attuale Direttore del Teatro Stabile di Roma Giorgio Albertazzi, attore e regista famoso in Italia e all’Estero (conosciutissimo protagonista di “L’anno scorso a Marienbad” (‘61) di Alan Resnais, nel cast di “Eva” (‘62) di Robert Losey, ancora con Resnais ne “L’assassinio di Trotzsky” (’72) e parla con lui della creatività e del mestiere dell’attore e del regista (Albertazzi ha interpretato in Italia centinaia di spettacoli teatrali lavorando, tra gli altri, con Visconti, Zeffirelli, e dirigendo opere scritte da lui stesso – Pilato sempre, Uomo e sottosuolo, nonché Pirandello e Shakespeare, senza tralasciare la televisione con un indimenticabile Idiota da Dostoevskij e un memorabile Memorie di Adriano dal libro della Yourcenar che sarà presto anche a New York). L’autore invita l’artista a parlargli delle motivazioni che lo hanno invogliato a realizzare il suo film “Gradiva” (’70) che è la prima trasposizione cinematografica mondiale del lavoro di Freud basato sulla novella di Jensen, il primo lavoro di psicologia dell’arte del fondatore della psicoanalisi. Conversa con questo brillante e disponibilissimo gentiluomo anche a proposito di un’importante messa in scena televisiva del dr. Jekyll e Mr. Hyde ispirata al racconto di Stevenson, scoprendo insieme ad Albertazzi le sue simpatie junghiane nate dal suo incontro con Jung a Bollingen nel 1954.

Intervista a Paolo Coelho

dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica – Estratto

Caruso: Il libro L’Alchimista, è pieno di riferimenti ai sogni. Per esempio Lei scrive: “…la possibilità di rendere la vita degna di essere vissuta, è quella di realizzare i sogni”, e ancora “…più vicini siamo ai sogni, più vicini siamo alla vita”, e anche “… chi crede nei sogni è capace anche di interpretarli”. Come è arrivato a questa bellissima conclusione per condividere la quale anche uno psicanalista può impiegare tanti anni?

Coelho: Prima di tutto la ringrazio molto per questi complimenti che mi ha fatto. Secondo, posso dirle che anche io ho passato un periodo della mia vita in cui c’è stata la psicoanalisi. Ma io ero davvero troppo giovane e certe cose non le potevo capire, avevo appena 19-20 anni. Sicuramente questa idea dell’anima mundi, (di cui parlo nel libro) molto più junghiana che freudiana, è stata (ed è ancora) tanto presente durante la mia vita. Quando io ho studiato l’alchimia, un’opera che mi ha davvero impressionato, è stato questo libro di Jung Alchimia e psicologia. In questo libro si parla molto del sogno come di una coscienza, intendo dire un epifenomeno che è una manifestazione universale. Nella vita ci sono molti archetipi che continuamente si trasformano e sono poi i codici di comprensione tra gli uomini. Si parla molto di questa luminosità, cioè di riuscire a condividere un certo simbolo anche se non lo si conosce, se non fa parte della propria logica. Gli antichi alchimisti, tramite questi simboli universali, hanno sviluppato quella che è la teoria, più che altro l’essenza, di questo linguaggio tramite i simboli, che molte volte si esprimono proprio tramite i sogni.

Allora veniamo al Suo mondo dei sogni. Questi sono cominciati prima dell’interesse per l’alchimia? Sono i sogni che hanno determinato l’interesse per l’alchimia?

Coelho: No. E’ stato il contrario: l’alchimia mi ha risvegliato l’interesse per i sogni.

Quando è cominciato questo interesse per l’alchimia?

Coelho: Verso i 22-23 anni, durante la generazione hippy. Sono stato affascinato non dalla parte classica della alchimia ma da quella riguardante l’applicazione diretta di essa. E, come tutti gli intellettuali, ho pensato che avrei potuto raggiungere un obiettivo concreto soltanto tramite la teoria. Questo, comunque è un equivoco, perché l’alchimia è la manifestazione di ciò che è la teoria trasportata sul piano concreto. Voglio dire che ciò che è nel mondo spirituale, il sogno per esempio, si riflette poi nel mondo concreto. Sicuramente questo non fa parte solo di me, non è una cosa solo mia, tutti gli oggetti che ci circondano fanno parte di sogni di altre persone, che poi si sono concretizzati.

I Racconti del Cuscino di Peter Greenaway

sul Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Con i “Racconti del Cuscino” si inaugura una nuova stagione per il Cinema: possiamo considerarlo il prototipo delle future pellicole e delle pellicole del futuro. Riesce in questa impresa il regista de “I Misteri del Giardino di Compton House” con ardimenti e sperimentazioni paragonabili a quelli del “Napoleon” di Abel Gance (che abbiamo visto restaurato alla Rassegna di Massenzio per i novant’anni del Cinema), ricordando le prove cromatiche di Antonioni per il remake de “L’Aquila a due teste” dal titolo “Il Mistero di Oberwald”, e ancora le costosissime tentazioni e realizzazioni tecnologiche di “One from the Heart” di Coppola che lo hanno portato al fallimento dei suoi Zoetrope Studios.

“Pillow book” è il titolo in inglese (perché così si chiamano nei Paesi di lingua anglosassone i diari personali degli adolescenti ed anche dei più cresciuti) e “Note del Guanciale” si chiama il libro di Sei Shonagon che ha ispirato il film.

Il testo letterario appartiene a quel tipo di letteratura giapponese che si ispira ai quaderni personali e segreti che buona parte delle persone istruite dalle parti del Sol Levante scriveva e continua a scrivere; ne abbiamo già visto la presenza in Tanizaki (“La Chiave”, racconto, poi film di Brass) ma anche dalle parti di Mishima e poi Ozu e ancora Kurosawa.

Se è vero, come dice l’onorevole zia della piccola Nagiko, che nella vita esistono soltanto due grandi piaceri, quello della carne e quello della letteratura, ebbene qui c’è pane per i giusti denti. Forse è per questo che la protagonista unisce perfettamente le due gioie: scrive letteratura sulla carne dei suoi amanti.

Questa giovane modella giapponese, che ha ereditato la passione del tatuaggio fine (calligrafico, artistico) dal padre che è uno scrittore umiliato e offeso (seviziato!) dal suo editore, ordisce la sua trama vendicativa come per un editore meglio non si potrebbe. La sua rivincita è anche duplice quando fra lei e l’editore malvagio si aggiunge un giovane amante di entrambi.

La bravura di Greenaway nell’affrontare un tema così “dermatologico” nonché “anatomopatologico” (ci riferiamo allo scuoiamento dell’amante bisex) consiste nel mantenere la bellezza orientale figurativa ispirata a Utamaro, Hokusai e Hiroshige, tre grandi disegnatori di temi erotici, raggiungendo eleganze estreme e rare precisioni cromatiche, con delicatezze espressive che accompagnano le proiezioni diverse con diversi colori e differenti dimensioni tutto in contemporanea senza che gli occhi si stanchino della voluttà di percorrere velocemente lo schermo dall’alto in basso e da destra a sinistra e poi a sorpresa nel quadrante superiore destro e poi già di lato…

Il film compie un percorso circolare, con ripetizioni e iterazioni sospese tra il didattico e l’ipnotico: ascoltiamo buona letteratura ed assistiamo a raffinato erotismo in questa educazione sentimentale ripescata dal padre del Baby of Macon nelle notti dei guanciali di mille anni fa. Carne, morte, letteratura e al diavolo la psicologia! (N.B.: inteso come: al diavolo spetta la psicologia!)