Una donna compiuta, immersa nella vita anima e corpo. Un colloquio con Silvia Rosselli

A cura di Amedeo Caruso

Il contributo di Silvia Rosselli a questo libro consisterà in un’intervista che il dio Mercurio, attraverso la sua speciale intermediaria – e sua personificazione terrestre – Simonetta Putti, ha delegato, bontà sua, al sottoscritto.

Ricevuto l’incarico, mi sono documentato su di lei, leggendo un po’ di materiale pubblicato (psicoanalitico e non), e sono pronto ad incontrarla, nonostante covi il dispiacere di non essere stato in grado di reperire un libro – non scritto da lei, ma che la riguarda fortemente – che è ormai introvabile, L’intruso, il cui autore Brett Shapiro è stato il compagno del figlio di Silvia, Giovanni Forti. Giovanni è morto a soli 38 anni per aver contratto il virus dell’AIDS, e lo scrittore Shapiro gli ha dedicato questo libro intenso e straordinario, contenente anche una scelta di lettere di Giovanni, con una incisiva prefazione di Rossana Rossanda. Il giorno precedente la nostra chiacchierata, prima di recarmi all’opera per Il Ratto dal Serraglio di Mozart, mi fermo alle bancarelle adiacenti la stazione Termini, che sono lì dalla prima volta che vidi Roma, anche se ora sono indiani e cingalesi i maggiori referenti, e non si sentono più le vocione dei romani bancarellari che si indignano sui prezzi che i clienti vogliono strappare. Non ho molto tempo, giusto una decina di minuti per sbirciare alla più vicina se c’è qualche volume interessante, ed ecco che dopo neanche due minuti scopro il libro di Shapiro, come se mi fosse venuto incontro lui, quando ero ormai rassegnato a parlarne con Silvia senza averlo letto.

Così dopo il teatro mi immergo nel testo e capisco che sempre Mercurio, il dio che domina anche le interviste, mi è favorevole. Racconto a Silvia questa storia, e lei, da brava psicoanalista, allieva di Bernhard, intuisce subito che le premesse sono sincronicistiche, e si dispone con animo sereno e curioso alla nostra conversazione. Silvia ha un aspetto leggiadro e venerabile, e una mente agile e attenta. Ha lavorato per circa trent’anni come psicoanalista, iniziando sotto la guida del più importante padre junghiano che l’Italia abbia avuto, Ernst Bernhard. Questi era di origini ebraico-ungheresi, ma nato a Berlino, da cui fuggì nel 1936, e poiché l’Inghilterra gli rifiutò l’ingresso, si diresse nel nostro paese, dove ha formato ottimi analisti (Marcello Pignatelli, Aldo Carotenuto, Claudio Modigliani, la Hélène Erba Tissot, tra i tanti) e preso in cura grandi personaggi e artisti (Natalia Ginzburg, Amelia Rosselli, Bobi Bazlen, Vittorio De Seta, Federico Fellini, Adriano Olivetti, e molti ancora). Su Bernhard Silvia ha scritto un articolo pubblicato nel volume collettivo Ebrei sul confine a cura di Pupa Garribba, nel 2003, ma mi dice subito, nel prestarmelo, che non le è piaciuto il titolo del suo pezzo, anche se concorda sul suo buon effetto editoriale, che è L’analista di Fellini. Il padre Nello, storico e antifascista (nonché bravo pittore , come dimostra un suo bellissimo quadro affisso all’ingresso della sua semplice e delicata abitazione, lontana dai frastuoni trasteverini, ma proprio nel cuore della vera Roma) fu assassinato barbaramente in Francia insieme al fratello Carlo, per ordine del regime fascista nel 1937, quando Silvia aveva appena nove anni. Nel 2008 è stato pubblicato da Sellerio un suo libro di memorie dal titolo Gli otto venti, di cui parleremo in seguito.

Spegne spontaneamente il suo cellulare e stacca anche il telefono di casa ( il sogno segreto di ogni intervistatore!) e ci disponiamo vicini mentre le ricordo il nostro primo e solo incontro avvenuto circa venti anni fa alla Libreria Bibli, in occasione della presentazione di un libro di Carotenuto, che me la presentò, proprio nel momento in cui lei aveva deciso di chiudere con la sua attività psicoanalitica. Ero fiero di aver conosciuto un personaggio che faceva già parte della storia della psicoanalisi italiana, e mi domandavo che cosa avrebbe fatto in futuro. La risposta la trovo oggi, insieme a Chi ci leggerà, nel percorso a ritroso nel tempo di una donna forte, vivace, riflessiva, curiosa, combattiva, e ancora dolcemente ma tenacemente progettuale. Cominciamo allora dai suoi progetti, perché è stata scelta dal regista Federico Bruno, che sta preparando un film sull’ultimo anno di vita di Pasolini, per interpretare il ruolo della madre del poeta.

Silvia Rosselli: Devi sapere che quando vivevo in America facevo teatro, e mi è rimasto questo desiderio, che ora prenderà corpo, e ne sono molto felice.

Amedeo Caruso: Sono davvero contento per te. Quando cominceranno le riprese?

A giugno, sembra.

Entriamo ora nel tema del nostro libro, che si intitola Corpo, Riflessione e Immagine. Non vorrei sollevare dolori e tristezze, ma di corpi mi sembra che ce ne siano stati molti nella tua vita, contenenti affetti e cuori essenziali per ogni esistenza, che ti sono stati strappati troppo precocemente e tragicamente…Se penso poi che il primo film di Fabio Carpi aveva tuo figlio Giovanni come co-protagonista, e il film si chiamava proprio Corpo d’amore.

Era l’esordio di Fabio nel cinema, e il primo film che Giovanni ha interpretato! Poi ha partecipato ad altri film e pièces teatrali, anche se già lavorava al Manifesto.

Avevi allora circa 60 anni quando hai perduto tuo figlio, ed eri appena una bambina quando hanno ucciso tuo padre.

Della morte di mio padre sono stata informata molto gradualmente, mentre i miei cugini, i figli di Carlo, la cui madre era inglese, sono stati edotti in maniera quasi “violenta”!

Ho conosciuto abbastanza bene tua cugina Amelia Rosselli, una poetessa meravigliosa e amabile come una bambina. Lei in persona mi ha raccontato della sua esperienza analitica con Bernhard, e di come lui fosse riuscito a farle ritrovare la memoria di quel tempo lontano così tragico per lei.

Ah, dunque hai conosciuto Melina, la chiamavamo tutti così…e che impressione ti ha fatto?

Mi è sembrata una persona estremamente fragile e indifesa, come una fanciullina, ripeto, ma aveva la poesia nelle vene.

Oh, sì, era davvero un poeta formidabile, sul lavoro sapeva il fatto suo, anche se i suoi componimenti non sono proprio facili da capire.

Credo che siamo giusto in tema, parlando anche ora di corpi che sono esistiti, delle immagini che stiamo rievocando insieme, e di riflessioni che facciamo su di loro. Pensa che l’ultima volta che mi sono recato al Cimitero Acattolico o degli Inglesi, come lo chiamano in città, mi sono imbattuto nella tomba di Amelia, l’unico personaggio da me conosciuto in vita, tra i tanti poeti e scrittori come Shelley, Keats, Gramsci e Gadda, che riposano in questo luogo ameno e sacro agli dei e alle muse dell’arte.

Hai ragione, sai, se ci penso la storia dei corpi mi ha accompagnato tutta la vita. Penso a mio cugino John, per il quale nutrivo un certo turbamento amoroso da piccola, ed anche da adolescente. Lui in realtà rappresentava per me il fratello maggiore che non avevo mai avuto. Quando l’ho conosciuto in Francia, a Juan Les Pins, per me era meraviglioso. Fin da piccolo, sapeva già tutto!…o almeno io così pensavo. Io avevo 5 anni e lui 6, e per me era una sorgente di conoscenza. Mi ha spiegato cos’era una vedova – la zia Giorgina aveva perduto il marito – e lui, che stava sempre coi grandi, era costantemente informato, e mi spiegava le cose; poi mi faceva vedere come si disegnano i profili, ancora costruivamo insieme i vulcani sulla spiaggia…ed io ero deliziata. Mi aveva insegnato qualche frase in francese ed io ero convinta di parlare la lingua! Ma a proposito di corpi, devo constatare che, nel corso della mia vita, mi sono trovata svariate volte al letto di morte di persone per me altamente significative. A cominciare da Bernhard, che è stato il primo. Ero a casa sua quando morì, ed avevo capito subito che lo era irrimediabilmente, ma fui costretta da Dora, la moglie, a praticargli un’iniezione intracardiaca che il suo medico aveva predisposto, in caso di urgenza, e così ho adempiuto a questo compito, perché lei insisteva. Ma, un attimo, ora che mi sono concentrata sul tema, ho assistito precedentemente anche alla morte della nonna Amelia, insieme con mia madre. Come se io fossi chiamata, destinata, a sovrintendere, assistere, al passaggio ultraterreno di queste persone a me care…E come dimenticare il momento dell’exitus di Giovanni, mio figlio, davvero una sorta di destino che mi convoca al momento culminante della storia di ognuno di noi, come testimone, come presenza, come accompagnatrice del transito. Tanti amici passavano a visitarlo in continuazione, ma quel mattino fui proprio io insieme al mio ex-marito e suo padre, a vederlo spirare ancorato alle nostre mani. E lo stesso mio ex-coniuge – col quale ogni dissapore era ormai dissolto, anzi fu proprio lui ad avvicinarmi al buddismo – che andavo a trovare a Milano quando era già malato, cosa che facevo con una certa consuetudine, mi trovò accanto a lui nel momento della sua dipartita, insieme a tutta la sua famiglia. E per concludere Nello, il mio compagno siciliano, di cui racconto la fine nel mio libro Gli otto venti. E Melina, che sono andata a trovare all’ obitorio qui a Roma, con il fratello John.

Passiamo ora ai tuoi anni della psicoanalisi, come allieva e come professionista.

Non ricordo se nel mio libro ho raccontato di una mia seconda analisi, con Claudio Modigliani, che era un freudiano, ma che si era imbevuto appassionatamente della lezione e della frequentazione con Bernhard, in quanto trascorreva con lui lunghe serate didattiche.

Dunque il tuo apprendistato è durato moltissimo, mi dicevi che hai anche seguito le lezioni di Gianfranco Tedeschi alla Facoltà di Medicina.

Oh, sì, quelli di noi che non erano medici erano invitati a seguire le lezioni di Tedeschi all’università, con questi casi così speciali.

Hai nostalgia del lavoro psicoanalitico che hai lasciato ormai da 20 anni?

Direi di no. Sai quello che ho fatto dopo un po’ di tempo? Ho bruciato tutte le cartelle cliniche dei miei Pazienti! Lo scopo era di non permettere che qualcuno potesse mai leggere o curiosare in faccende intime e private e così segrete come quelle raccolte nel setting analitico, e così mi sono risolta a distruggerle.

Hai voluto sigillare nella cenere la chiusura del tuo lavoro analitico, risorgendo da quelle ceneri con il lavoro da scrittrice, con il tuo impegno buddista, ed ora con la carriera da attrice!

Ci sono però stati, e ancora qualcuno c’è, dei miei clienti, con cui ho mantenuto un certo rapporto; mi sono venuti a trovare, ed ho anche una collega che avevo in training, con cui sono ancora in contatto, che mi rimanda ancora un’immagine molto positiva e felice dell’analisi che ha fatto con me. Poi mi ha anche inviato una sua parente, in cura, e ricordo con molto piacere uno scambio epistolare che avemmo, durante un suo viaggio, che fece da sola, e si fece viva così per lettera, ed io ho deciso di risponderle, con un effetto, per entrambe, credo, molto gratificante. Forse non era molto ortodosso, mi rendo conto, ma essendo stata allieva di Bernhard, ero molto più libera e sicura di quel che facevo, perché il suo insegnamento ed il suo esempio erano improntati molto sull’importanza dei sentimenti, e la sicurezza che se si sentiva di fare del bene terapeutico, forse si poteva anche trasgredire ogni tanto.

Raccontami adesso di Dora, la moglie di Bernhard, di cui dici delle cose piuttosto forti nel tuo libro e la sua figura non ne esce affatto simpatica. Il mio maestro e amico Aldo Carotenuto mi ha espresso personalmente le difficoltà comunicative ed empatiche reciproche, con quella che in fondo era sempre la compagna del vostro Maestro, e psicoanalista lei pure.

È una storia strana. Devi sapere che Dora era la sua seconda moglie, dopo che lui aveva divorziato dalla prima, dalla quale aveva avuto due figli. Si tratta di una vicenda molto tragica. La prima moglie era medico anche lei, e loro due insieme avevano aperto a Berlino un ambulatorio pediatrico. Quando siamo diventati amici, Bernhard mi ha raccontato un sogno che gli ha fatto decidere di lasciarla, ed il sogno era semplicemente questo: che lei gli porgeva del pane avvelenato! Poi si è recato a Zurigo, ricevendo una delusione da Jung, che non volle prenderlo in analisi, né tantomeno optò per inviargli dei pazienti.

E pensare che invece è stato proprio lui a portare in Italia il pensiero di Jung! Davvero intrigante, questa storia!

Sì, lui ha fatto conoscere Jung in Italia, e ha fondato la Scuola junghiana italiana. Tra di noi allievi si discusse a lungo, dopo la sua morte, se Bernhard fosse soltanto un analista e non soprattutto un guru: direi che fosse anche un guru, una persona religiosa, un personaggio straordinario.

Ma torniamo a Dora.

D’accordo. La incontra a Berlino, e poi sono partiti insieme.

Ho conosciuto qualche analista che è stato formato professionalmente da Dora.

Ma le ha insegnato tutto lui! E tieni presente che quasi sempre bisognava passare anche da lei, perché Bernhard consigliava, ma era una indiretta prescrizione, di fare analisi con un didatta di altro sesso, e c’era a quei tempi solo Dora! Dunque non avevi scelta! Era una donna che definirei “incomprensibile”.

Nel tuo libro esprimi su di lei dei pareri taglienti, corrosivi quasi. Eccoci quindi al corpo di Dora, alla sua immagine ed alle tue riflessioni. La descrivi come dura, rigida, fredda, intollerante.

Rammento che all’AIPA, quando qualcuno discuteva un proprio caso, lei era sempre quella che esprimeva brevi, secchi gesti di diniego, di chi non è d’accordo, muovendo la testa a piccoli scatti a destra e a sinistra, scoraggiando l’oratore, come a dirgli: “non ci siamo, non hai capito, hai sbagliato, non dovevi fare così”. E a me ha proposto di seguire un caso che conosceva lei, dove era presente un intreccio per cui lei voleva ficcare il naso in questa storia in quanto conosceva il di lei marito. Ma il caso mi era stato affidato da Bernhard ed io non volevo assolutamente che lei appurasse cose che mi sembrava giusto restassero segrete. Bernhard era già morto, dunque non poteva aiutarmi, ma io mi impuntai , e alla fine la spuntai!

Se ho ben capito, Dora ti aveva chiesto di parlare del caso in questione nell’analisi di supervisione con lei, perché potesse appurare cose che avrebbero potuto essere comunicate al marito, giusto?

Sì E la ragione risiedeva nel fatto che il marito non si fidava troppo di me.

Tu scrivi nel libro, che, spazientita, l’hai minacciata di deferirla ai probi viri per il suo comportamento scorretto.

Già. E a quel punto lei ha mollato!

Come ti spieghi tutto ciò?

Era una strana creatura, ma devo anche confessarti che ho conosciuto suoi pazienti che ne parlavano molto bene. Parlo di pazienti…ma i colleghi, a quanto mi risulta, si sono tutti trovati male!

Per quale ragione?

Per spiegartelo meglio ti racconto un’altra storia. Io sono diventata una buona amica della figlia di Bernhard, Silke, che ho incontrato anche a Roma. Lei e il fratello hanno sofferto molto dopo la separazione dei genitori, perché la loro mamma, la prima moglie di Bernhard, si è legata sentimentalmente con un nazista! In famiglia hanno dunque sentito parlare malissimo del padre, descritto come una persona indegna. Ebbene questa figlia mi diceva che Dora non è che si esprimesse male solo in italiano, il che è comprensibile per una straniera, ma che il suo eloquio era molto contorto, perché anche le lettere che le scriveva in tedesco, erano spesso incomprensibili, con un pensiero confuso, astruso. Mi spiace dire queste cose, non vorrei aggiungere altro, ma le cose stavano così.

Comprendo la tua ritrosia e apprezzo la tua delicatezza, ma credo che arguisci che quello che vorrei non consiste in una condivisione becera di pettegolezzo, bensì capire come fosse possibile che un grande psicoanalista, solare, un guru, così amabile e paterno con tutti i suoi allievi e pazienti, fosse così intimamente legato a lei.

Ebbene lui vedeva la loro vicenda come un fatto squisitamente karmico: Dora era la persona con cui lui doveva spiegarsi in questa vita.

Una specie di Ombra dentro casa.

Lui non l’ha mai lasciata, ma, per usare una formula corrente, erano separati in casa. Quando lui era malato, negli ultimi mesi lei non poteva addirittura entrare nella sua stanza! Ci diceva che lei lo agitava, ed essendo malato di cuore, avvertiva la sua presenza come “opprimente”. Negli ultimi tempi, a turno, ciascuno di noi, gli allievi più intimi, dormivamo nella sua stanza per stargli accanto, per farlo sentire confortato e continuare il nostro dialogo con lui. Ebbene lei non potè farlo mai, in quanto non accettata.

A questo punto potresti dirmi secondo te se lui avesse un’altra realtà sentimentale?

(mi guarda prima intensamente, poi un po’ di sottecchi, inclinando gli occhiali, e, come liberandosi da un colpo di tosse, esclama, con un sottile compiacimento da persona informata delle cose che ti dice solo l’essenziale) Penso che ne avesse avute parecchie! Ma non si è mai separato.

Mi piacerebbe che mi parlassi, se lo sai, di ciò che riguarda tutti gli appunti di sogni e riflessioni di Bernhard dopo la sua morte.

Non se ne è saputo niente, ma Bernhard stesso diceva che se certe cose non vedono la luce, parlando del suo pensiero, ci sarà qualcun altro che le dirà. Insomma, non era preoccupato che tutto quello che aveva in mente di comunicare fosse pubblicato. La stessa Mitobiografia è stata compilata dopo la sua morte dalla Erba Tissot, ma voglio ribadire che nel libro rivive solo una parte del suo lavoro intellettuale.

Hai frequentato ancora Dora dopo la morte del marito?

No, non più. Certo, l’ho incontrata all’AIPA, ed era cosi’ buffo, pensa che aveva a volte due padri domenicani alti e belli che la accompagnavano, quasi un quadretto felliniano…

E poi, alla morte di Dora, che era ultracentenaria, qualcuno ha potuto guardare appunti o altro di Bernhard?

No, non si è trovato nulla.

E’ divertente la storia che racconti dell’appartamento occupato dai Bernhard e della possibilità che ottenne lui dal proprietario di occupare una stanza della sua abitazione limitrofa, con i tedeschi dentro Roma.

Era il giudice Chiarelli, che gli consentì di occupare vita naturaliter questa stanza dal tempo dell’occupazione nazista, ed era lì che lui si rifugiava quasi sempre, per il timore di essere nuovamente imprigionato. Bernhard ottenne il permesso di annettere al suo appartamento questa stanza, che era stata il suo rifugio, dopo la liberazione.

 

Parliamo, per concludere, della vicenda di Brett Shapiro, il compagno del figlio Giovanni, che è rimasto a vivere a Roma, dopo la sua morte. Silvia è contenta che abbia trovato un nuovo partner, e che la sua vita sia cambiata in senso molto positivo. Ho sottolineato la scorsa notte una frase del toccante libro L’intruso, che ho trovato miracolosamente ieri, che è di Giovanni verso Brett: …probabilmente mi manchi meno di quanto io manco a te, ma in ogni caso mi manchi più di quanto mi sia mancata qualsiasi persona adulta nella mia vita.

Se Lillian Hellman scrisse di sé come titolo della sua autobiografia Una donna incompiuta, mi andrebbe di affermare che di Silvia Rosselli si possa dire che è una donna compiuta. Con la sua comprensione delle cose della vita, la sua accettazione antisismica ed olimpica di tutto ciò che ci accade. Mi ha parlato ancora con tenerezza e affetto delle sue figlie e del figlio adottivo di Brett, che è diventato un militare dell’aviazione americana, nonostante Brett sia quanto di più antimilitarista esista al mondo, e mi ha raccontato dell’appoggio paterno incondizionato che lo stesso gli ha dato nelle sue scelte. Ho incontrato una donna che ha affrontato il dolore e l’amore con la stessa passione, una donna immersa nella vita anima e corpo. E se, come scrive Rossana Rossanda nella sua struggente introduzione al libro di Shapiro questa … è un’opera capace di non dissolversi con l’immediato che l’ha prodotta…e quando l’immagine di Giovanni morrà con noi che l’abbiamo conosciuto, e l’AIDS forse sarà sconfitto, e i tempi volgeranno ad altri approdi,…l’intelligenza di questo amore e dolore rivivrà in chi prenderà questo libro nelle mani senza saper altro di noi… ebbene, Silvia continuerà anche lei ad essere una testimonianza della ricerca dell’armonia e dell’integrazione di ogni diversità, compito che spetterebbe ad ogni essere umano per potersi dichiarare tale. Con un sano amalgama, quello dell’ironia, l’unico capace di rendere leggero il mondo, come la simpatica storiella che mi racconta del personaggio che la incontra e le chiede: Ma lei è la figlia dei fratelli Rosselli?! E lei, di rimando, compunta ma divertita: No, beh, veramente solo di Nello!

Per chi volesse conoscere tutta la storia della sua vita, di cui in questa conversazione Silvia ci ha raccontato anche qualche parte segreta che non si troverà nel suo libro autobiografico, io ne raccomando la lettura per conoscere meglio non solo una delle protagoniste del secolo passato e degli albori di questo nuovo, ma per chiunque voglia mettersi in un contatto autentico con gli unici valori che contano nella vita, e di cui Silvia ha dato esempio, e continua a darne. Tra i suoi amici buddisti è considerata un guru, ma lei sorride di tutto questo, prendendosi in giro, consapevole che la persona saggia non si lascia sviare dagli otto venti: prosperità, declino, onore, disonore, lode, biasimo, sofferenza e piacere. Non si esalterà nella prosperità, né si lamenterà nel declino. Da questo pensiero di un maestro buddista è nato il titolo del suo libro, ed è con questa saggia convinzione che ci congediamo entrambi dai Lettori.