A colloquio con Simona Argentieri, la psicoanalista “principessa dello schermo delle sue (e nostre) brame” che ha incoronato Freud a Hollywood.

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

Amedeo Caruso: dottoressa Simona Argentieri, se Freud si è fermato a Hollywood possiamo dire che Jung è arrivato a Cinecittà, pensando al bel film di Lizzani Cattiva?

Simona Argentieri: Proprio bello quel film. Lo sa che la De Sio si è molto dispiaciuta per il taglio che fece Lizzani di alcune parti che erano secondo lei quelle in cui si era espressa meglio?

(Come farà a sapere queste cose? Il mio sospetto è che sul suo lettino si siano sdraiati molti attori e registi e pertanto conosce tanti segreti che naturalmente non può rivelarmi, e così evito la domanda banale su dove ha letto queste dichiarazioni). Quali sono i film italiani che Lei predilige?

Come le ho premesso non mi sento un’esperta di cinema italiano, anche se mi piace, ma la mia passione è per il cinema americano e anche d’oltralpe. Naturalmente apprezzo i registi italiani come Bellocchio e Bertolucci, Giovanna Gagliardo e Fabio Carpi, per fare riferimento a quelli che maggiormente sono stati influenzati dalla psicoanalisi.

Cosa ne pensa di cinema e psicoanalisi in Italia?

Sono sconcertata dall’uso del cinema che fa la psicoanalisi attualmente. Mi sembra che una buona focalizzazione l’abbia fatta Edoardo Sanguineti in un articolo su La Stampa di qualche tempo fa, dove sottolineava che “il grimaldello di Freud” era prima importante per gli autori cinematografici e invece ora si assiste a un ribaltamento, e cioè oggi sono gli psicoanalisti a essere innamorati del cinema. Ora non c’è convegno dove non ci sia un film. Usare film da parte di comunità psicologico-psichiatriche e chiamarla terapia le confesso che non mi convince.

Cosa pensa quindi della film-terapia?

È un modo scherzoso, finché è un gioco, un’allusione e allora può essere carino. Temo però che la questione sia basata su un equivoco. Non vedo come un film possa curare. Tutt’al più può essere un pretesto, una metafora. Può funzionare in un contesto di gruppo. Va bene finché si usa un’immagine come evocativa di uno stato d’animo.

Le capita mai di consigliare dei film a dei suoi Pazienti?

Sono troppo freudiana… (sorride di sé). Insomma, in analisi, no!

Dunque nessuna prescrizione cinematografica…

Io sono della vecchia scuola che crede non sia utile intervenire come guida, ma che io debba consentire al Paziente, nello scenario della psicoterapia, di poter esprimere se stesso.

Le è piaciuto il film-documentario che Giovanna Gagliardo ha girato su Emilio Servadio?

Oh, certo! Deve sapere che con Giovanna abbiamo condiviso quei tempi. Anzi, io avrei voluto che Lei facesse ancora dei lungometraggi, per esempio su figure anche scomparse della psicoanalisi come Alessandra Tomasi di Lampedusa, per restare in Italia, o la francese Marie Bonaparte. La Gagliardo sarebbe stata perfetta per fare altri ritratti di psicoanalisti importanti.

Lei ha conosciuto la moglie di Lampedusa?

Sì, in occasione di un convegno a Palermo. Era una bizzarra signora, colta, imponente e (pare) cattivissima.

Infatti anche negli accenni che ne fa Francesco Orlando in Ricordo di Lampedusa non ne esce bene, con quel suo timore che le idee socialiste dell’altro “quasi figlio” poi misconosciuto e mai diventato adottivo del principe avrebbero potuto consegnare le pagine del Gattopardo a una distruzione “comunista”…

Licy (come la chiamava il marito) era lituana e aveva avuto sicuramente una vita difficile, ma insomma si comportava in modo piuttosto rigido. Al congresso di Palermo di cui le dicevo, ci comunicò che avrebbe ricevuto un po’ di psicoanalisti, ma stabilì un numero, non più di dieci, e fu intransigente. Si immagini che – e oggi mi viene da ridere – facemmo quasi a gara per poterla incontrare. Il suo scritto più noto si intitola, pensi, Un caso di licantropia… e poi in verità si trattava di un povero contadino psicotico, ma lei seppe “ricamarci” sopra.

Mi sembra che abbia pubblicato poco, anche se ha avuto un certo ruolo nella psicoanalisi italiana di quei tempi.

Sì, ha fatto le supervisioni a quelli che sono stati miei maestri. Corrao, per esempio, era uno dei suoi allievi prediletti. Ma… ci siamo allontanati dal nostro percorso! L’uso del cinema oggi è un po’ troppo disinvolto, perché c’è una confusione del limite tra quella che può essere un’esperienza benefica e la terapia, per restare nell’ambito delle persone comuni, non dei Pazienti. La terapia è qualcosa che ha un compito molto più ambizioso, mettere in moto dei processi, produrre dei cambiamenti. Non è solo una cosa piacevole e che ti fa bene, sennò funzionerebbe qualunque cosa, anche la cioccolato-terapia, o una bella chiacchierata, perché no?

Sì, anche questo può essere terapeutico, non crede?

Io preferisco però non chiamarla terapia, questa è vita. La terapia presuppone una patologia, e pone un ruolo individuato tra chi cura e chi è curato, con un progetto di cambiamento, seppure di minima, o se vuoi anche sintomatico. Ma ci deve essere un senso. Mi sembra troppo “disinvolto” definirla terapia.

Abstract

A colloquio con Simona Argentieri, la psicoanalista “principessa degli schermi delle sue brame” che ha incoronato Freud a Hollywood.

Nell’intervista Amedeo Caruso continua la sua ricerca delle radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore. Questa volta è a colloquio con la più famosa e importante psicoanalista italiana che si occupa e che soprattutto capisce di cinema. In questa intervista la dottoressa Argentieri parla dei suoi film preferiti dal punto di vista psicoanalitico ed esprime le sue opinioni sui film italiani che maggiormente hanno segnato una vera collaborazione e determinato un giusto dialogo tra psicoanalista, artista e paziente. In questa conversazione si parla anche di quanto sia cambiato il rapporto tra psicoanalisti e autori cinematografici rispetto al passato.