Bash…

di Neil LaBute, Regia di Marcello Cotugno, Con Alessia Giuliani, Paolo Sassanelli, Violante Placido, Fulvio Pepe

“Bash” è un termine dal doppio significato: “pestaggio” e “festa”.

Nella commedia, la doppia valenza espressa dal titolo diventa emblematica di una esistenza nella quale gli elementi mortiferi sembrano confondersi con quelli più quotidiani e banali.

La commedia, rappresentata per la prima volta nel 1999 a New York, Off Broadway, al Douglas Fairbanks Theatre, è arrivata recentemente in Italia grazie alla regia di Marcello Cotugno.

La scelta del regista appare tempestivamente centrata rispetto agli accadimenti che viviamo o che, per meglio dire, conosciamo attraverso le pagine di una cronaca che ben può definirsi nera.

Una cronaca che sempre più spesso ci racconta di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove, soltanto a fatica, possiamo cercare di rintracciare significati che non siano la sola espressione di un vuoto di valori.

Basta soltanto accennare ai tragicamente insensati lanci di sassi dai cavalcavia, o ai fatti di Novi Ligure, ai due adolescenti che progettano ed attuano un omicidio come in una sorta di macabro gioco, o all’attuale ineffabile infanticidio di Cogne, per cogliere quanto spesso la morte, persa ogni sacralità, divenga fatto slegato da ogni umana logica e quindi in-accettabile.

In “Bash”, come lo stesso autore suggerisce, il “new black” si configura nella atrocità di morti che, proprio in quanto in-utili, lasciano nello spettatore un senso di inaccettabilità.

Il testo di LaBute si divide in tre atti unici.

Nel primo assistiamo alla confessione/monologo di una giovane donna che, violentata e resa madre a tredici anni dal professore di inglese, trascorre in una apparente quieta accettazione il tradimento e l’abbandono dell’uomo.

Dopo quattordici anni, avendolo cercato e incontrato, uccide il figlio nato da quel lontano rapporto in una sorta di dilazionata e esterefatta vendetta trasversale.

Nel secondo, un uomo sui trentacinque anni racconta ad uno sconosciuto, nel bar di un motel, la morte della propria figlia di pochi mesi. Una morte, se non proprio cercata, lasciata avvenire: nello sragionante pensiero dell’uomo questo elemento avrebbe potuto tornargli utile, aiutandolo ad evitare un licenziamento per la pietà che da quella perdita gli sarebbe derivata.

Nel terzo, una coppia di giovani fidanzati racconta al pubblico, in una sorta di alternato monologo, l’eccitante trasferta, compiuta insieme agli amici, per recarsi ad una festa a New York. Attraverso la frivola e compiaciuta descrizione degli abiti, nella vuotezza dei clichès mentali tipici degli adolescenti non solo americani, si perviene

Al racconto dell’omicidio di un omosessuale. E’ il protagonista maschile a compierlo, aiutato dagli amici, in una delirante azione punitiva in un bagno di Central Park.

Il linguaggio che unifica, pur nella diversità dei ruoli, lo stile comunicativo dei protagonisti è frammentato e frammentario, così come la sequenza delle azioni, che sembra sfuggire ad ogni prevedibilità razionale.

In “Bash” l’assurdo si mescola alla quotidianità, e ne viene tragicamente riassorbito in una progressiva perdita di senso.

Ne emerge un quadro desolato e desolante, non lontano dai modi e dai mondi di quella cronaca nera alla quale facevamo cenno.

La regia di Marcello Cotugno sa cogliere ed evidenziare anche le analogie tra questo contesto attuale e l’universo delle tragedie greche: in entrambi i mondi scorre il filo della morte, la violenza gratuita, la soppressione dell’Altro come gesto apparentemente liberatorio.

I sostanziali ed elementari valori umani sembrano perdersi in una corsa verso il nulla che, paradossalmente, crea nello spettatore una rinnovata ricerca di senso.

Anatomia della morte di…

di Marcello Cotugno, 1999

“Un grande schermo collegato al computer permetterà al pubblico di vedere in tempo reale tutti i movimenti di ‘mouse’ e tastiera che gli attori effettueranno su di esso, inclusi i collegamenti ad internet. Sarà quindi attivata una linea telefonica, dedicata, preferibilmente veloce.” Con queste righe – scarne ed efficaci – inizia il prologo del pezzo teatrale. Parole che già implicitamente sembrano adombrare la scenografia: oggetti in grigio, in bianco/nero…i colori prevalenti nell’hardware. Parole che descrivono una realtà multimediale ormai immessa nella quotidianità: Daniele è il protagonista, ma può esserlo anche il computer, entrambi immersi nella Rete delle reti. Daniele e la sua comunicazione mancata, Internet come amplificatore di comunicazione. Un pezzo teatrale di radicale attualità, che mette a nudo le contraddizioni di una società che ha saputo globalizzare gli scambi, ma che solo raramente ritrova la possibilità di una relazione pienamente umana.

Lo spettacolo è visibile in Internet, su Kataweb/teatro oppure su videocassetta.

Attraversare la crisi

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013

Frequentazioni

L’analista è un frequentatore abituale della crisi.

Anzi, potrei dire in accordo con Aldo Carotenuto, che l’analista nasce dalla crisi dei primissimi rapporti significativi che genera la ferita iniziale: quella che – cicatrizzata e tramutata in feritoia – spesso determina la scelta di questo mestiere non semplice.

Una feritoia attraverso cui guardare l’Altro, il Mondo, e comprenderne il dolore. L’analista da tale feritoia si affaccia e cerca – aiutando il paziente – di aiutare anche se stesso

Al di là dell’essere punto d’origine, o uno dei punti d’origine di questa scelta professionale, la crisi è presenza costante nel temenos analitico.

Il paziente che si determina alla scoperta di sé è spesso motivato proprio dall’essere arrivato ad una fase di vita percepita come critica, come guado difficile da attraversare.

L’analista è lì, almeno nelle aspettative del paziente, per aiutare a comprendere i nodi immersi nel profondo, trasformando quindi acque cupe e minacciose in acque adeguatamente chiare e quindi attraversabili.

Pur nella grandissima varietà dell’esperienza umana, la crisi è quindi elemento pressoché sempre presente nella quotidianità del lavoro analitico: crisi spesso oscura all’inizio, man mano più comprensibile, augurabilmente sfociante in un nuovo assetto della vita e/o delle relazioni del paziente.

Crisi non solo come momento topico ma anche come percorso.. l’analista ha, a mio parere, il compito di far vedere al paziente che una fase di impasse può diventare evento propulsivo e/o percorso da intraprendere e seguire… agendo.

Ma al là della stanza d’analisi, in presenza di una crisi che si definisce globale, cosa può dire (e fare) l’analista?

Nella stanza d’analisi.

In circa trenta anni di lavoro clinico ho visto che – pur nella vastissima gamma dell’esperienza umana e della tipologia – allorquando i pazienti in corso d’analisi afferrano e fanno proprie alcune acquisizioni, i momenti critici vengono affrontati con minor rischio di distruttività, e/o più agevolmente.

Stanti i limiti editoriali che ci siamo dati, accennerò soltanto sinteticamente alle sopradette acquisizioni, che potrei anche chiamare strumenti, o metodi, o modalità.

Comunicazione chiara

Distanza emotiva che consenta migliore visione dell’oggetto

Relativizzazione

Sdrammatizzazione

Senso del limite

Investimento non totalizzante sull’oggetto.

Nello svolgersi del percorso analitico, proprio in quanto talking cure, la comunicazione verbale assume una posizione centrale e sta all’analista cogliere gli eventuali nodi che talvolta rendono ardua, a volte inibiscono sino talora a impedire, una comunicazione chiara e diretta. Per ricostruire o costruire la possibilità di un dialogo attendibile e di una parola chiara, occorre attenersi ad alcuni fattori basilari: fiducia, rispetto, correttezza, attendibilità. Sono questi i mattoni per costruire – nel paziente e con il paziente – una fiducia che consenta l’affidamento, la possibilità di dirsi, la potenzialità della trasformazione grazie anche al Noi che si è andato strutturando attraverso il rapporto Io-Tu.

Se l’analista riesce a situarsi ad una distanza adeguata nel rapporto con il paziente, ha già posto le basi perché tale distanza sia non soltanto interpersonale ma anche intrapsichica. In questa distanza che consente l’avvicinamento ma esclude la fusione, il paziente potrà imparare a guardare i propri contenuti profondi ed il Mondo vedendone man mano le dimensioni reali.

Spesso, infatti, una impasse nei percorsi della vita è costituita dall’aver perso, o non aver acquisito mai, il senso della misura. Fantasie e aspettative, successi e fallimenti, soltanto per fare semplici esempi, assumono talvolta dimensioni sproporzionate e l’eccesso della misura percepita crea nuovi ingorghi emotivi.

Imparare a relativizzare confrontando la propria percezione con l’esterno, ascoltando ed elaborando opinioni diverse dalla propria, consente di non sentirsi più – a seconda dei casi ed estremizzando per esemplificare – vittima impotente o onnipotente salvatore.

La relativizzazione accompagna per mano la sdrammatizzazione.

Guardare dentro e fuori di sé, relativizzando i propri accadimenti, storicizzando e confrontandosi, permette di non percepire più come catastrofico e/o distruttivo l’elemento che prima era terrifico o paralizzante.

Queste acquisizioni consentono man mano di non investire più in modo totalizzante su un solo oggetto, bensì – ridata ai diversi elementi una connotazione chiara e adeguata – permettono la costruzione di una rete interdipendente di valori e rapporti, di spazi e di tempi in cui muoversi con sufficiente agio.

Abstract

La crisi è elemento pressoché sempre presente nella quotidianità del lavoro analitico: crisi non solo come momento topico ma anche come percorso. l’analista ha il compito di far vedere al paziente che una fase di impasse può diventare evento propulsivo e/o via da intraprendere. Ma al là della stanza d’analisi, in presenza di una crisi che si definisce globale, cosa può dire (e fare) l’analista? L’Autore riflette sulle possibilità d’azione nel collettivo allargato che si configura nel nostro tempo e ipotizza che ogni azione è opportuno parta dall’osservazione della dimensione clinica, dalla quale trarre elementi eventualmente esportabili.

Seminario di tecnica analitica. La filosofia e la “funzione trascendente”

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Nel 2008 il CSPL decideva di dedicare il convegno annuale al fenomeno della c.f., in progressiva espansione anche in Italia.

Allora mi soffermavo su alcuni aspetti che riprenderò ora, cercando di meglio valutarli anche alla luce del tempo trascorso; non mi soffermerò invece sulle condizioni storiche e sociali che videro la nascita dell c.f. in Germania negli anni ottanta ad opera di G. Achenbach, e successivamente di Peter Raabe , né sull’approdo in Italia al passaggio del Millennio ad opera di Neri Pollastri e neanche sui contesti filosofici che ne favorirono la diffusione: questi dati sono reperibili nel n. 4 della Rivista.

Avanzo soltanto una notazione ed una domanda: allora quei contesti – caduti i valori forti di riferimento – vedevano in scena il Pensiero cosiddetto debole e la c.f. si poneva anche come risposta al crescente disagio esistenziale; ora che il Pensiero debole si confronta con il New Realism … cosa possiamo aspettarci …?

Riprenderò alcune analogie e differenze che caratterizzano la consulenza filosofica e la psicologia analitica e che, sin dal 2008, aprivano uno scenario ampio, fatto di interconnessioni possibili ed anche di collaborazioni produttive da attuarsi nella chiarezza delle rispettive identità, dei metodi e degli scopi. Metterò in luce anche alcune criticità.

Un circoscritto ambito di discorso

Il titolo – Filosofia e Funzione trascendente – è spunto organico per queste note e preciso l’ambito di discorso in cui mi muoverò: il termine filosofia lo intendo come filosofia oggi, concretamente calata sulla terra, nella piazza, consulenza filosofica.

La funzione trascendente è una espressione utilizzata da C. G. Jung in diversi momenti ed in diverse accezioni di significato che comunque sempre rinviano al processo di individuazione, e quindi al portato specifico della psicologia junghiana.

Userò le abbreviazioni:

c. f. consulenza filosofica;

f. t. funzione trascendente;

p. a. psicologia analitica.

Parto dunque dalla f.t., ricordando che lo stesso Jung si era adoperato ad indicarne lo specifico senso. In una nota allo scritto Il metodo sintetico o costruttivo, evidenzia infatti che il concetto di f.t. esiste anche nell’alta matematica, a indicare la funzione di numeri reali e immaginari.

Così si esprime Jung:

Fare i conti con l’inconscio comporta un processo o, a seconda dei casi, anche una sofferenza o un lavoro, cui è stato dato il nome di funzione trascendente, trattandosi di una funzione che su fonda su dati reali e immaginari o razionali e irrazionali, e che getta quindi un ponte sul solco che separa la coscienza dall’inconscio.

Nella psicologia analitica, l’espressione allude quindi al fare i conti con l’inconscio, ad un processo, ed anche alla sofferenza ed al lavoro connessi, che consente una messa in comunicazione.

Via via scorrendo i testi vediamo che f.t. può anche alludere ad un confronto, al percorso che ha per meta la realizzazione della personalità totale, alla modificazione stessa della personalità, ad una capacità e destino individuale… .

In Gli archetipi dell’Inconscio collettivo:

Questo confronto permette di superare la linea di confine finora esistente, e perciò l’ho definita col termine di funzione trascendente.

In merito al problema dei contrari, ed alla opportunità di trattarli non sempre ma solo quando si giunge alla svolta della vita, così Jung si esprime:

L’elaborazione cosciente di questi dati dà luogo alla funzione trascendente, formazione concettuale procurata dagli archetipi che unifica i contrari.

Ed ancora a proposito della f.t. come processo:

Il processo ha per senso e meta la realizzazione della personalità originariamente contenuta nel germe embrionale in tutti i suoi aspetti. È l’attuazione ed il dispiegarsi dell’ originaria totalità potenziale.

Ne La tecnica della differenziazione tra l’Io e le figure dell’Inconscio, Jung così si esprime sul mutamento della personalità

A questa modificazione della personalità che viene raggiunta attraverso il confronto con l’inconscio, ho dato il nome di funzione trascendente.

Troviamo poi un richiamo a Silberer (Probleme der Mystik und ihrer Symbolik,Vienna e Lipsia, 1914; e anche Jung, Psicologia e Alchimia, 1914.

Nel medesimo testo, nell’evidenziare come l’evoluzione non attenga a tutti, ma vi sono casi in cui questa avviene per intima necessità, si sottolinea che la via della funzione trascendente è un destino individuale.

In queste rapide citazioni si evidenzia il rapporto Coscienza – Inconscio che la f.t. consente di connettere, consentendo l’ascolto e l’elaborazione dei contenuti profondi in vista di una unificazione dei contrari, che porta alla trasformazione della personalità.

Quindi l’Inconscio è sempre presente nella scena.

Questa pregnante presenza sembra dirci che la funzione trascendente non è via praticabile per la consulenza filosofica: infatti la sfera d’azione della c.f. è la coscienza.

Possiamo ipotizzare una funzione trascendente che si situi solo nell’ambito della Coscienza?

Forse, se intendiamo la f.t. in senso ampio e lato, come capacità di ascolto, di elaborazione di contenuti contrastanti e/o contraddittori in vista del superamento del conflitto cosciente.

Allora la f. t., in questo senso circoscritto, mi appare ora contenuta e rappresentata anche nella capacità di mediazione, e nella possibilità di pervenire all’ET ET, in luogo dell’AUT AUT.

Questo può essere un senso della f.t. praticabile nella e dalla consulenza filosofica: cercare non necessariamente sempre la pacificazione e abolizione dei contrasti, ma anche l’assunzione vivificante della loro contrapposizione, accettandone la com-presenza, in vista di successive mediazioni possibili.

In questo senso la f.t. appare come processo che il c.f. può attivare nel campo della coscienza del cliente, capacità e processo che – se le cose andranno bene – il cliente porterà avanti per la durata della vita.

In analogia, quindi, al processo di individuazione che caratterizza la psicologia analitica e che non è meta ma processo continuo e interminabile, in cui l’Io si sposta progressivamente verso il Sé inconscio, così la f. t. intesa come la capacità di ascolto/accettazione/mediazione può porsi come processo in-terminabile di cui il senso radicale è il suo stesso procedere. Metodo di vita.

Questa può essere una forma di liberazione del pensiero che presuppone il superamento di stereotipi, di pregiudizi, pseudo ancoraggi che possono essere lasciati allorquando la persona inizia a concepire la possibilità di essere autonoma e non più soltanto etero diretta, stabilendo quindi la propria rotta nella navigazione della vita.

Analogie, differenze, criticità

Ho evidenziato man mano quali siano i rispettivi territori di competenza per la p.a. e per la c.f. perché credo che proprio dalla consapevolezza dei limiti e da una chiara visione delle differenze e dalle analogie, possa stabilirsi una connessione produttiva e non confusiva.

Ricordando, qui, che la meta – per la c.f. – è la liberazione del Pensiero, l’analogia più rilevante mi sembra il tendere, per entrambe le discipline, alla messa a punto di un Individuo affrancato dalle strettoie del pensiero collettivo, e pertanto adeguatamente libero nel Pensiero.

Altra evidente analogia è l’utilizzo dello strumento dialogico.

A fronte di quanto Neri Pollastri scrive: la prima cosa che può essere detta della consulenza filosofica è che essa è essenzialmente un dialogo.. il che vuol dire che i partecipanti, assieme e cooperativamente, producono un logos, un discorso e che essa fondamentalmente è un confronto dialogico tra due esseri di pari dignità per assonanza ricordo che Jung sosteneva il metodo dialettico , vale a dire con le parole di Mario Trevi un disarmato esporsi della personalità del terapeuta nel confronto con il paziente, una rinuncia ad ogni difesa dottrinale da parte dell’analista…

Ed è appena il caso di ricordare l’opinione di Mario Trevi, sulla capacità dialogica come unico universale nell’uomo.

Ancora per Neri Pollastri, la consulenza filosofica non può curare e non è terapia.

L’obiettivo della consulenza filosofica è dunque il filosofare, e questo significa molte cose: principalmente, esaminare la vita del consultante, sottoporla a critica; identificarne i presupposti di significato e di valore; cercarne la coerenza e/o le contraddizioni; comprenderne le emozioni ed i valori soggiacenti; studiare i molteplici sensi delle problematiche concettuali emerse; vagliare le possibili soluzioni al’interno di comprensioni del mondo diverse; pensare gli eventi della propria vita entro una visione del mondo ampliata; mettere via via alla prova le nuove prospettive emergenti nella ricerca progressiva e sistematizzante di una nuova visione del mondo.

Per Jung, il processo di individuazione (inteso come meta tendenziale verso la quale tendere, pur sapendo che non potrà essere pienamente raggiunta) consiste in estrema sintesi nel rendere l’Uomo In-dividuo, affrancandolo dalle strettoie e dai condizionamenti personali (consci e inconsci), nonché dalle pressioni eccessive di una dimensione sociale, che Jung denomina Coscienza e Inconscio collettivi, consentendogli di diventare quello che è realmente.

La differenza fondamentale risiede, come più volte detto, nel situarsi dia-logicamente a livello della Coscienza (c.f.) o nell’offrire ascolto e interpretazione alla Coscienza e all’ Inconscio (p.a.).

Altra differenza facilmente coglibile riguarda la durata del percorso: a fronte di una psicoterapia medio-lunga, la brevità stimata della consultazione in ambito di consulenza filosofica. Da questa relativa brevità discendono, almeno ad un primo esame, alcuni vantaggi per il cliente: limitato investimento di energia-tempo-denaro, minor rischio di dipendenza, minore esposizione al perdurante stigma sociale che ancora e paradossalmente esiste nei confronti di chi intraprende una cura.

Qui emergono, però, alcuni punti critici in quanto l’accennata brevità comporta l’insorgere di qualche perplessità, formulabile in poche domande:

possono pochi incontri conseguire l’obiettivo di liberare il pensiero?

è possibile in un arco volutamente circoscritto di tempo suscitare e promuovere nel consultante uno sguardo filosofico su se stesso e sul Mondo?

soprattutto è conseguibile – nei limiti temporali di cui sopra – l’obiettivo di rendere il consultante filosofo?

Queste domande mi conducono ad ipotizzare un rischio: che negli incontri di consultazione filosofica si possa configurare un dialogo eminentemente intellettuale e razionale, con le possibile conseguenze di una ipertrofia del pensiero stesso, quindi anche di una intellettualizzazione difensiva, e di uno sviluppo unilaterale della coscienza .

Ricordando, con Jung, l’importanza di una sinergia/collaborazione delle quattro funzioni (pensiero, sentimento, intuizione, sensazione), un lavoro svolto prevalentemente sul Pensiero mi pone dubbi sullo sviluppo/promozione di una personalità armoniosa, mentre potrebbe – come estrema conseguenza – portare ad una dissociazione nevrotica.

Ed ancora: può il c.f. comprendere adeguatamente quali siano i casi trattabili e distinguerli da quelli che invece necessitano di cura?

È abbastanza ferrato il c.f. per individuare in sé e nel cliente la presenza e l’azione di quei meccanismi di difesa che talora celano, mistificano, rimuovono parti di realtà?

Potrebbe allora il c.f. giovarsi di una analisi personale prima di addentrarsi nel concreto operare?

Un ponte transitabile

Stanti queste premesse, e invertendo l’opinione di Marinoff, vedo nella consulenza filosofica anche un ponte accessibile e transitabile tra le sponde del disturbo sottovalutato e/o negato e la possibilità di una adeguata risoluzione terapeutica.

In termini semplici, la consulenza filosofica proprio per il suo porsi come non cura e non terapia potrà essere intrapresa senza eccessive resistenze da quei soggetti che, temendo lo stigma sociale ritengono la psicoterapia cosa da evitarsi e da non consigliare.

Se le cose vanno bene, il consulente filosofico proprio con il liberare il pensiero del consultante, potrà renderlo atto a recepire (e a non più misconoscere/negare) la necessità – allorquando ne ricorrano le circostanze – della cura.

Una prospettiva di integrazione

Auspicando quindi un operare integrato e interconnesso tra c.f. e p.a. vedo vantaggi per il singolo ma anche per la collettività; in sintesi un onesto e radicale filosofare che liberi il Pensiero potrebbe avere esiti oltremodo positivi nel far evolvere tanto la coscienza individuale quanto la coscienza collettiva, promuovendo una nuova etica della responsabilità personale e conseguentemente anche una nuova etica della relazione fra individui.

Una etica che si fondi su chiarezza e responsabilità; che sappia vedere e valutare i pro e i contro del proprio operare, ed assumersi il rischio della verità seppur relativa che ad ognuno è dato di scorgere.

Nella prospettiva auspicata, la liberazione del Pensiero si porrebbe come propedeutica ad uno scatto evolutivo nella direzione della responsabilità.

Il Femminicidio tra ombra ed eruzioni

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Jung ci ricorda che l’equazione personale di giudizio entra in azione sin dal momento dell’osservazione. Giacché si vede ciò che la propria individualità consente di vedere.

Così sempre meglio, man mano che recuperavo dall’Ombra le parti prima rifiutate, ho potuto coglierne la presenza nell’ambito clinico.

Parti portate dai pazienti, a prescindere dal sesso anagrafico e dall’identità di genere, perché Anima ed Animus, come componenti controsessuali, corrispettivi del Femminile e del Maschile, sono presenti in ogni soggetto. Come presente in ogni soggetto è l’Ombra.

Dall’osservatorio che il temenos costituisce, ho visto negli anni cambiare e spesso invertirsi le posizioni ed il potere degli uomini e delle donne: il motore di fondo, la paura, mi è parsa restare costante.

Considerando che ogni persona costituisce una irripetibile miscela somato-psichico-culturale e partendo proprio dal soma, dalla biologia, ritrovo nella memoria la tesi avanzata dalla Sherfey, che, a partire da ricerche embriologiche, proponeva una chiave di volta alla questione della femminilità. La Sherfey evidenziava che l’embrione non è né bisessuale né tantomeno indifferenziato: è femmina; lo sviluppo del maschio può essere considerato come una deviazione del modello femminile di base. Evidenziava altresì, spostando l’attenzione alla sessualità, che a partire da alcune specie di primati e via via sino alla donna primitiva si riscontra una marcatissima potenza sessuale; caratteristica che sommandosi nella femmina umana alla mancanza di periodi di estro e all’assenza di anestro durante l’allattamento avrebbe drasticamente ostacolato le responsabilità e le cure materne nelle donne primitive, creando forti difficoltà nel contesto sociale che si andava organizzando in strutture centrate sulla famiglia biologica. Fu quindi inevitabile per i maschi reprimere violentemente le sfrenate esigenze sessuali femminili per consentire una economia basata sui diritti di proprietà e sulle leggi della consanguineità.

C’è questo scenario all’origine della repressione e della violenza esercitate sulla donna?

Da qui si origina quella paura ancestrale che l’uomo nutre nei confronti della donna?

Credo che potremmo ammettere l’ipotesi e ri-considerare tutta la copiosa messe di teorizzazioni susseguitesi nelle diverse epoche, a sostegno o contro l’asserita inferiorità della donna, nonché a spiegazione delle relazioni uomo-donna.

Abstract

Ad uno sguardo diacronico l’Uccidere donne appare fenomeno esteso ad ogni epoca. Di contro, e nonostante la diffusione in ogni latitudine, il femminicidio è fatto di cui si parla solo episodicamente, mentre sembra prevalere un evitamento – rimozione – negazione sia a livello del singolo sia del collettivo. Lo stesso termine Femminicidio appare poco conosciuto, anche se riunisce in sé la più grande applicabilità potendo riferirsi sia all’uccisione concreta e storica di donne sia alla soppressione di elementi femminili nella persona. Tento una chiarificazione degli aspetti in ombra (anche junghianamente intesa), e porto l’attenzione al correlato tema delle responsabilità, avanzando qualche ipotesi a partire anche dalla frammentaria consapevolezza del femminicidio. Consapevolezza che metaforicamente assimilo al fenomeno geotermico dei geyser, auspicando che le improvvise eruzioni di comunicazione e consapevolezza vengano organizzate nella coscienza dell’individuo e del collettivo, trovando nella sottostante materia (prima in ombra) la fonte di una energia utile per tentare il cambiamento.

Minerva tra utopia e progetto

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011

Dopo Edipo e Narciso, mi piace – tra utopia e progetto – chiamare in scena Minerva . Minerva (Atena nel pantheon greco, e Minerva in quello etrusco) è la divinità romana della saggezza e della guerra, tutrice dell’operosità e del commercio, dell’arte e della libertà…

Riservandomi di illustrare le caratteristiche di Minerva più estesamente in altro scritto, qui ricordo il calculus Minervae , aspetto rilevante in quanto mi appare come sintomatico di potere decisionale ma anche di capacità di mediazione.

Il calculus in questione, ovvero la pietra di Minerva, è espressione tipica del diritto romano e talvolta ancora in uso, che indica il voto decisivo espresso dal presidente in un organo collegiale che si trovasse in stallo per parità di voti su una proposta, approvata ed avversata in pari misura dal medesimo numero di votanti.

Mi soffermo su questo dato perché mi consente di mettere in luce la duplice valenza della figura di Minerva, ovvero gli aspetti maschili e femminili.

Minerva nacque dalla testa di Zeus, e quindi ben può rappresentare gli aspetti animus, talvolta adeguatamente integrati e talora strabordanti, che si osservano nelle modalità dell’essere donna attualmente. Non è osservazione difficile a farsi, oggi, come sia la donna – nella relazione e nella famiglia – a esprimere molto spesso il voto decisivo. Fattore che può certamente spiegarsi come reazione ad una antica sottomissione all’uomo, reazione transitata nella fase del femminismo, e che oggi, talvolta, supera i limiti di un adeguato equilibrio (anche decisionale) tra i partners.

Sottolineo questo aspetto per evidenziare come ogni figura assunta a riferimento, in questo caso Minerva, può essere ambivalente e presentare aspetti negativi e positivi.

D’altra parte, saper mediare, contrattare e decidere, per quanto sopra accennato rispetto alla realtà del nostro tempo, appare capacità centrale da inserire in un potenziale progetto terapeutico volto a contrastare la superficialità, cercare la riflessione, ricomporre gli elementi in opposizione; e questa meta appare desiderabile per ogni persona, al di là della identità di genere.

A livello collettivo, considerando le problematiche del consenso e della formazione delle volontà/decisioni, questa capacità appare indispensabile nella sfera istituzionale e politica, laddove occorre saper mediare senza cadere nella debolezza e nel panico, e saper assumersi l’onere della decisione laddove la si ritenga adeguata alla realtà sociale.

A livello del singolo, la capacità di mediazione appare desiderabile per ogni persona, al di là della identità anagrafica e di genere.

Come iniziare ad avviare questo progetto?

Darsi l’opportunità della pausa, come isola nell’arcipelago dell’esistenza; isola nella quale temporaneamente ed anche brevemente ritirarsi per osservare e vedere, a distanza adeguata, l’arcipelago intorno.

Nel tempo della pausa, avviare dunque una riflessione, a partire da domande poste alla realtà che ci attornia ed a noi stessi.

Per Jung, “L’istinto della riflessione è ciò che costituisce l’essenza e la ricchezza della psiche umana.” … recuperiamo, allora, questo istinto e proviamo sospendere la reazione immediata, guardandoci dentro, pensando, facendoci domande, e ascoltandoci..

Per questa via i valori e i contenuti che sono stati rimossi dalla coscienza e eclissati nell’inconscio potrebbero ritrovar voce e ricomparire sulla scena: della coscienza e della vita.

Avere fiducia nell’inconscio.

Abstract

Nel linguaggio della comunicazione mediatica appare in misura crescente il termine schizofrenico per denotare il modo di vita, lo stile comportamentale, la realtà economica e politica del nostro paese. La realtà attuale sembra configurare frequentemente una junghiana scissione degli opposti. Situazione che trae origine anche dai cambiamenti che hanno caratterizzato gli ultimi 50 anni: lo spartiacque del 1968 e la cosiddetta Rivoluzione digitale hanno alterato ruoli e usi, imponendo e/o comunque concorrendo a generare modalità nuove di relazione e di pensiero. La stessa percezione della realtà è andando mutando e così la percezione di sé nel Mondo. È ormai entrato nell’uso comune denominare questa realtà attuale come tempo di Narciso, in contrapposizione ad un precedente tempo di Edipo: laddove, infatti, dapprima si imponeva la regola e il divieto, con conseguenze sulla strutturazione del Super Io e del senso di colpa, ora pare dilagare la mancanza e/o comunque la trasgressione della regola, in una sorta di delirio di onnipotenza non più arginato dal senso del limite. È possibile – in questo quadro – auspicare l’avvento di una fase nuova, che vorremmo chiamare il tempo di Minerva?

L’ambigua identità dello psicopatologo clinico e dell’analista junghiana

(in collaborazione con Bruno Calllieri) in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 12, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011

Nel nostro pensiero condiviso nessuno ha il permesso epistemologico di violare concettualmente la libertà del tu, ovvero dell’Uomo come inscindibile unità somato-psichico-relazionale che spesso l’etichetta diagnostica mette a margine, se non addirittura dimentica e/o scinde. Dedurre unicamente il comportamento dell’Altro da leggi prestabilite (secondo un certo cognitivismo), leggere il sintomo sul riconoscimento di modelli combinatori più o meno rigidamente fissati è modalità spesso difensiva che tende ad allontanare la possibilità dell’incontro.

Incontro anche come evento e appello che richiama entrambi all’ascoltarsi ed all’interrogarsi sugli aspetti sincronici; al curante sta il porsi domande: perché questo paziente è arrivato a me? Cosa viene a dire alla mia realtà psichica? Quale mio aspetto si rispecchia nel disturbo nel paziente?

In questa prospettiva, soltanto l’esperienza fenomeno logico-clinica dell’incontro interpersonale è esperienza veramente donatrice di senso, messaggio che sale dall’intima struttura dell’esistenza, che è sempre co-esistenza.

Indubbiamente il trincerarsi dietro l’applicazione dei protocolli – sia nel momento oggettivante della diagnosi sia nella terapia – esime il curante dal mettersi in gioco personalmente.

E qui nuovamente tornano attuali le parole di Jung : “Quanto più il trattamento procederà in modo schematico, tanto più provocherà le resistenze giustificate del paziente, e tanto più dubbia sarà la guarigione. Lo psicoterapeuta si vede quindi costretto, piaccia o no, a prendere in considerazione l’individualità dell’ammalato come fatto essenziale e ad adattare ad essa il suo metodo di cura.” 1962.

L’individualità dell’Altro assume allora ben altra dimensione rispetto alla sola sofferenza o al solo sintomo: è storia e tempo, cultura e presenza e relazione, corpo e silenzio.

Se guardiamo il paziente cercando di cogliere i molteplici e stratificati fili che ne costituiscono la trama potremo cogliere il soggetto nella sua relazione esistenziale irripetibile, nella sua storia interiore , e trovare in esso il presupposto fondamentale per la comprensione clinica.

Abstract

Gli Autori – lo psicopatologo clinico fenomenologicamente orientato e l’analista junghiana – svolgono una riflessione che si aggancia allo spirito del nostro tempo, caratterizzato anche dal fenomeno immersivo della globalizzazione. Un tempo in cui talora l’identità sembra divenire multipla e decentrata. Oggi più che mai, è opportuno integrare nella propria ottica ed in modo intercambiabile le lenti dell’antropologia e dell’etnologia, della psicologia analitica, della fenomenologia e della narratologia e delle neuroscienze, per non trovarsi impreparati di fronte al sintomo che l’Altro ci propone o dietro il quale talora si nasconde. È il nostro anche il tempo in cui sembra aver collettivamente successo un approccio tecnico e spesso tecnicistico: sono di radicale attualità le polemiche e controversie attorno al DSM ed alla derubricazione di varie entità esistenziali e nosologiche. Nel pensiero degli Autori nessuno ha il permesso epistemologico di violare concettualmente la libertà del tu, ovvero dell’Uomo come inscindibile unità somato-psichica-relazionale che spesso l’etichetta diagnostica mette a margine, se non addirittura dimentica e/o scinde. Nell’ottica proposta, l’Altro/paziente è soggetto che va colto nella unicità dell’incontro, nella sua autentica relazionalità, che diviene leggibile in una dimensione interpersonale in cui possa delinearsi il volto dell’Altro. Sul punto gli Autori avviano un riflessione in transito che prende le mosse anche dal pensiero espresso da Heidegger nei Seminari di Zollikon: ovvero che “all’ordine del giorno va posta la radicale necessità che si diano dei medici pensanti, i quali non siano disposti a cedere il campo ai tecnici della scienza.”.

Il limite come attrattore di senso

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010

Anche nel piano collettivo, l’evento/Morte si fa interprete di copioni paradossali: spesso la morte è negata/rimossa/esorcizzata; talora avvolta da difensive fantasie onnipotenti (pensiamo ai corpi ibernati, in attesa di possibili rinascite…), e nel contempo satura con la sua presenza le pagine e gli schermi dei mass media.

La sofferenza e il dolore vengono anch’essi spesso rimossi, grazie alle micro e macro–scissioni ben identificate da Argentieri, o spettacolarizzati.

Per avviare una comprensione della scena attuale considero brevemente l’atto appena conclusosi di un XX secolo al termine. Periodo in cui è possibile rintracciare la linea portante della lotta tra democrazia e integralismo e che ha visto verificarsi eventi bellici e politici di portata potenzialmente globale.

Periodo che – alla luce dell’Undicesimo Comandamento enunciato da Glucksmann: che nulla di ciò che è inumano ti sia estraneo – ha tutti richiamato alla necessità di guardare in faccia la realtà e divenirne consapevoli.

La consapevolezza e la connessa assunzione di responsabilità ha liberato incertezze forti, generando la ricerca di certezze nuove, spesso surrettizie.

Dalla metà degli anni ‘80, lo sviluppo progressivo e interconnesso delle nuove tecnologie – amplificando in modo prima impensabile le possibilità stesse del conoscere e del comunicare – ha in primis alterato la stessa percezione/fruizione della realtà, favorendo il diffondersi di modalità non di rado connotate di onnipotenza; l’ampliamento delle informazioni ha favorito la rapida diffusione di modelli e stili di vita prima ignorati: si è usciti dai confini del proprio mondo e ci si è trovati immessi nel Mondo, smarrendo e/o perdendo non di rado le coordinate identitarie e comportamentali consuete.

Il fenomeno della globalizzazione, comportando benefici e rischi , ha configurato germi di mutazione che hanno investito ad ampio raggio la sfera dell’esistenza umana, e quindi, inevitabilmente, le categorie di Vita e Morte; cambiamenti rilevanti hanno investito non solo l’ambito dell’informazione, della produzione e del consumo, ma anche della relazione interpersonale, della fruizione del piacere e della sessualità, modificando e sfumando, l’identità stessa dei soggetti.

L’Io è andato via via presentandosi come istanza sempre meno unitaria, a rischio anche di frammentazioni e proiezioni; il Sé non di rado è andato configurandosi come proteico , abbozzando progressivamente un’identità multipla e decentrata, da non considerarsi necessariamente come segno di isteria o di schizofrenia . Nel diffondersi di un’intelligenza collettiva si può cogliere il costituirsi di una mente connettiva mentre, nel contempo, l’identità va, secondo taluni, diventando liquida.

Grazie all’accesso al web e quindi all’informazione, sono state sottoposte all’attenzione collettiva tematiche complesse quali aborto, accanimento terapeutico, eutanasia, procreazione assistita, inducendo almeno un tentativo di riflessione su argomenti prima racchiusi in un ambito scientifico, filosofico ed etico.

L’idea della Morte – come oggi vissuta nel collettivo – appare emblematica di una junghiana scissione degli opposti: tra rimozione e spettacolarizzazione, tra ricerca spasmodica dell’eterna giovinezza, e apoteosi della terza e quarta età; mancanza di mediazione che sfocia talvolta in agiti inconsulti e distruttivi, sino agli epiloghi parossistici del togliere/togliersi la vita anche per eventi carenti o privi di senso.

Abstract

La morte – come certa incertezza – costituisce il limite dato a ognuno di noi. Questo limite, accettato e coscientizzato, può dare, dinamicamente e retroattivamente, senso al vivere e – dando senso – può dare adeguata serenità. La consapevolezza di essere costantemente nel margine che costituisce il territorio della vita – nel confine imprevedibile ma ineludibile con il territorio della morte – può divenire, per l’economia psichica, blocco o motore. I diversi destini di questa consapevolezza caratterizzano l’esistenza individuale: come la pratica clinica evidenzia, la concezione del mondo di ogni persona è, in ultima analisi, strutturata attorno al luogo in cui si è posta e fatta operare l’idea della Morte; e della propria morte. L’Autrice, rivisitando il pensiero filosofico con particolare attenzione a Heidegger e Jankélévitch, e ponendolo in rapporto al pensiero psicoanalitico, con riguardo specifico a Freud e Jung, riflette sulla possibilità di accettare creativamente la Morte. Viene altresì osservata la scena collettiva, nella quale spesso l’evento Morte si fa interprete di copioni paradossali: l’idea della Morte appare oggi come emblematica di una junghiana scissione degli opposti. Della morte e delle concezioni attinenti si sottolineano le implicazioni etiche, scientifiche, giuridiche. L’Autrice – esposto il proprio discorso sulla centralità della Morte nell’esperienza clinica – auspica un maggior rilievo di detta tematica nel training previsto per i futuri curanti del corpo e della psiche.

Relazione sul primo seminario clinico tenutosi nell’ambito del CSPL

pubblicato in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, nr. 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, ottobre 2009

Relazione di Simonetta Putti sul primo seminario clinico tenutosi nell’ambito del Centro Studi Psicologia e Letteratura, anno 2009 (pubblicato in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, nr. 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, ottobre 2009)

Testo base: Studi sulla tecnica psicoanalitica, di H. Racker (1968), Roma, Armando Editore, 1976

Premessa

Perché scegliere un testo di Heinrich Racker, freudiano, per il primo seminario del Centro Studi Psicologia e Letteratura? Scelta che può parere non chiara laddove si consideri che la nostra Associazione è stata fondata da Aldo Carotenuto, una delle figure più significative dello junghismo internazionale. Perché non scegliere, allora, un testo di C. G. Jung?

Ricordo qui brevemente che Carotenuto ha avuto una esperienza analitica varia e composita: il suo percorso personale iniziò nel 1960, negli Stati Uniti, con Edward Whitmont, proseguì in Italia con Ernst Bernhard e successivamente con Claudio Modigliani, freudiano. Carotenuto ha mantenuto costantemente aperto il dialogo con la psicoanalisi: nella fase in cui è stato didatta dell’Associazione Italiana per lo Studio della Psicologia Analitica (A.I.P.A.), tra i testi base presenti nei suoi seminari teorici, aveva inserito in primo piano proprio il testo che qui vado presentando.

La mia scelta, però, non rappresenta la mera ripetizione dell’esperienza vissuta, prima come paziente, poi come allieva e infine come collega di Carotenuto, bensì esprime la consonanza con un pensiero ed un approccio. Consonanza con Carotenuto nel riconoscere l’ineludibile valore strutturante della psicoanalisi per chi voglia occuparsi del mondo interiore e delle sue forme di sofferenza, e consonanza con l’approccio teorico e tecnico rappresentato da Racker. Carotenuto e Racker, sono entrambi presenti nel modello di modelli che sono andata costruendo nel corso del tempo, pur se – almeno ad uno primo sguardo – si colgono in essi più differenze che analogie.

Un primo sguardo potrebbe infatti cogliere in Carotenuto l’aspetto della libertà, talvolta trasgressiva, anche rispetto alle regole tecniche che caratterizzano l’analisi ed in Racker l’attento e rigoroso maestro della tecnica. Trasgressione e regola, dunque? Junghianamente, qui mi limito a ricordare un pensiero di C. G. Jung: “ogni tensione antitetica urge verso uno sbocco, da cui deriva il terzo. Nel terzo si risolve la tensione..” (Jung, 1940). Soggettivamente, ritengo che il pensiero psicoanalitico sia fondante e ineludibile in ogni seria riflessione sull’uomo e sulla sua peculiare sofferenza.

Nel 2001 scrivevo, insieme a Giorgio Antonelli, che nell’ultimo ventennio le voci contrarie alla psicoanalisi sono state sempre più frequenti. Notando che – al passaggio del millennio – ancora era dato assistere al rinnovarsi degli attacchi, evidenziavamo allora che proprio la ripetitività di tali attacchi sembrava attestare la forza dell’oggetto che si voleva esaurito e morto. Riconoscevamo che la storia della psicologia del profondo può in effetti essere considerata come una sequenza di morti, nascite e rinascite ma vedevamo in tale sequenza il segno di una strutturale vitalità. Oggi, ancora, sostengo che l’ottica psicoanalitica è un modo di vedere il mondo, è un’ottica sul mondo. Un’ottica e non l’ottica che tutto coglie ed esaurisce.

Ancora oggi, posso confermare l’opportunità di una concezione del Mondo politeistica, che sappia – junghianamente – cercare l’Et Et in luogo dell’Aut Aut. Valutando la multiformità e la multidimensionalità della natura umana, costantemente attuale mi appare il pensiero di Jung che riconosceva l’utilità della “massima varietà di metodi e punti di vista per rispondere alla varietà delle disposizioni psichiche.” Questa premessa per spiegare le ragioni che mi hanno a portato a scegliere H. Racker, freudiano, per il primo seminario clinico indetto nel 2009 dal Centro Studi Psicologia e Letteratura.

L’Autore considerato.

L’Autore in questione può essere considerato uno degli esponenti più significativi nell’area di riflessione e ricerca che ha investito la psicoanalisi a partire dal 1950, cercandone possibili integrazioni con la psicologia dell’Io e delle relazioni oggettuali. Racker, nel testo indicato, non intende però offrire un panorama generale ed esaustivo della tecnica psicoanalitica quanto piuttosto soffermarsi sulla tecnica, ponendo particolare attenzione al modo in cui le reazioni dell’analista al vissuto dell’analizzando possano determinare il destino stesso del viaggio intrapreso.

Transfert e controtransfert sono dunque le linee portanti della riflessione proposta, che – centrandosi su tali cruciali aspetti del processo analitico – dimostra tuttora una vitale attualità. Uno dei pregi di tale riflessione è nel ricordare costantemente la caratteristica dell’analisi: l’essere dimensione in cui analizzando e analista non possono attenersi a regole date e rassicuranti indicazioni di metodo, ma debbano rimettersi in gioco momento per momento. Può essere questa una delle ragioni dei ricorrenti attacchi alla psicoanalisi ai quali accennavo nella premessa? Questo aspetto di co-involgimento, seppur consapevole, dei co-attori della scena psicoanalitica, unitamente al fattore tempo che ovviamente si configura non breve e soprattutto non determinabile a priori, può concorrere all’accennata reiterante battaglia contro la psicologia del profondo.

Nel nostro tempo, sempre più caratterizzato da una velocità che non di rado scade nella fretta, in cui appare vincente la tecnica che maggiormente assicura risultati rapidi ed a basso costo, la psicoanalisi e la psicologia analitica possono apparire obsolete in quanto richiedono tempi non brevi e una frequenza assidua. Così, corrispettivamente, le terapie cosiddette brevi e/o centrate sul sintomo possono sembrare maggiormente in linea con le esigenze attuali.Tornando a Racker ed alle sue formulazioni, darò un rapido cenno alla struttura del testo e mi soffermerò principalmente sul tema del Controtransfert, tema che ha costituito l’ossatura del primo Seminario clinico.

Linguaggio e struttura.

Racker utilizza una forma espressiva ed un linguaggio che, come acutamente sottolinea Francesco Corrao nella prefazione, possiede qualità rare. Ovvero la semplicità e l’espressività.

Racker, in tutta l’opera che vado brevemente presentando, mantiene un indice molto elevato di capacità di trasmissione. La trasmissione rimanda al messaggio…e qui, solo di sfuggita, penso a P. Watzlawick, alla Scuola di Palo Alto, al testo Pragmatica della Comunicazione umana, che – pressoché negli stessi anni – veniva edito rendendone noto e fruibile il pensiero. Il testo di Racker fu edito nella prima versione originale nel 1968; il testo di Watzlawick nel 1967: una co-incidenza nello spirito del tempo?

Altro discorso meriterebbero i tempi di trasmissione editoriali: il testo di Racker viene tradotto in italiano nel 1976, quello di Watzlawick nel 1971; ma anche di tali latenze non posso, qui, che dare un cenno fugace.

Il discorso di Racker si dipana, dunque, per amplificazioni progressive attraverso nove capitoli. Ed è lo stesso Racker, nelle pagine iniziali, a presentare la struttura del testo ed a indicarne destinatari, scopo e senso.

Il primo capitolo consiste in una introduzione alla tecnica psicoanalitica destinata anche a lettori non provvisti di specifiche competenze: il significato di ogni concetto fondamentale viene spiegato; i capitoli successivi presuppongono invece nel lettore una relativa conoscenza della tecnica analitica, essendo destinati agli studenti di psicoanalisi ed ai medesimi analisti.

Il secondo capitolo, il più lungo della raccolta, presenta un quadro prospettico e diacronico della tecnica analitica, non più elementare come nel primo ma arricchito dalle diverse posizioni assunte rispetto ai problemi fondamentali dalle varie scuole o tendenze presenti nell’ambito del movimento psicoanalitico. Capitolo questo, a mio parere, grandemente utile soprattutto per i giovani psicoterapeuti, e soprattutto per quelli di diverso orientamento.

Il terzo ed il quarto capitolo si centrano sul transfert, dapprima evidenziandone la dinamica e la pregnanza, per poi dare crescente attenzione agli aspetti pratici più che teoretici. Troviamo una disamina chiara ed efficace dell’analisi del transfert attraverso la risposta data dal paziente alle interpretazioni; ed è quasi pleonastico ricordare che questa è attività principale svolta dell’analista nel suo lavoro.

Il quinto ed il sesto capitolo si centrano sul controtransfert, ed anche qui osserviamo il progressivo amplificarsi della esposizione.

Dapprima viene illustrata la nevrosi di controtransfert quale fenomeno avente luogo nell’analista nella sua relazione con il paziente, e che può presentarsi condizionata da processi psicopatologici inerenti l’analista medesimo. La presa di coscienza di tali processi può evitare che essi influenzino il lavoro analitico.Successivamente, Racker si sofferma sul significato e impiego del controtransfert: il fenomeno viene illustrato nella doppia valenza di elemento di pericolo e di strumento tecnico. Rischio e opportunità dunque presenti contemporaneamente nella dimensione e nel vissuto controtransferale, di cui si mette in evidenza l’importanza nel determinare il destino del transfert e quindi nel influenzare la possibilità stessa – per il paziente – di elaborare il transfert superando il circolo vizioso della nevrosi.

I capitoli settimo ed ottavo cercano di chiarificare l’influenza esercitata da determinati tratti caratterologici e caratteropatici dell’analista, illustrando gli errori specifici a cui possono dar luogo. Ancora una volta si evidenzia come la coscientizzazione di tali tendenze possa portarne al superamento o, quanto meno, alla gestione, nell’ottica di ridurne la nocività sull’esecuzione stessa dell’analisi.

Il capitolo nono si centra sulla controresistenza, quale fenomeno che può interferire con l’interpretazione: talvolta, infatti, alcuni processi inconsci impediscono all’analista di dare interpretazioni adeguate, anche se gli è stata possibile una comprensione parziale della situazione del paziente.

Dalla sintetica esposizione della struttura e dei contenuti non è difficile, credo, dedurre la pregnante utilità del testo.

Una forma specifica di Eros.

Trovandomi fondamentalmente consonante con Racker sul fronte di una modalità d’essere e d’operare, scelgo qui di dare un cenno più esteso a quanto egli esprime nel capitolo secondo, al paragrafo La posizione interna dell’analista e il suo atteggiamento nei confronti del paziente e dei suoi contenuti.

Racker scrive: “Il processo di trasformazione analitica dipende, in grande parte, dalla quantità e dalla qualità di Eros che l’analista è in grado di fare operare per il proprio paziente. Si tratta di una forma specifica di Eros, che si chiama saper capire, e in una forma ben specifica.”

Racker parla di Eros: ma di quale Eros? Mi sembra sostanziale notare che l’Autore – nella formulazione in oggetto – utilizzi due volte l’ espressione forma specifica. La ripetizione appare tanto più significativa quanto più ricordiamo che Racker utilizza una forma espressiva ed un linguaggio semplice ed espressivo. Per Racker lo specifico Eros che opera o dovrebbe operare nell’analista “si chiama saper capire”. Saper capire, e qui l’Autore reitera “in una forma ben specifica” per poi dirci cosa esattamente intenda.

L’analista ha da capire, dunque e soprattutto, “ciò che l’uomo respinge, teme ed odia dentro di sé, e ciò grazie ad una grande forza combattiva, una più grande aggressività contro tutto ciò che nasconde la verità, contro la illusione e il diniego: in altre parole contro la paura e l’odio che l’uomo ha di se stesso e le loro patologiche conseguenze.” Il saper capire è allora una particolare commistione di attenzione, forza, aggressività costruttiva, ottimismo, capacità di svelamento, consapevolezza di sé e dell’altro nella relazione. E questa commistione è – almeno a mio parere – una forma elevata di amore.L’Eros che può informare di sé la dimensione del paziente nei confronti dell’analista, e questo specifico Eros che secondo Racker può, e dovrebbe, caratterizzare la corrispettiva dimensione dell’analista, ci riconducono dunque ai punti cruciali del transfert e controtransfert.

Nel quadro attuale della Psicoterapia, variegato dalla molteplicità e diversità di orizzonti, cioè a dire della miriade di teorie, modelli, approcci e indirizzi oggi esistenti, i fenomeni del transfert e del controtransfert ricevono sorti diverse. Pare quasi esser in atto una frammentazione dei saperi,che genera una miriade di nicchie anche formative e didattiche, laddove uno o pochi elementi facenti da sempre parte del metodo psicodinamico e/o psicoanalitico vengono estrapolati ed eretti a piloni portanti dei cosiddetti nuovi modelli e delle cosiddette nuove strutturazioni teorico/pratiche.Non esiste, tuttavia, io credo, un orizzonte privilegiato di cura, ma differenti modelli esplicativi, le cui diversità vanno rintracciate in una teoria, in una pratica di lavoro e in un apposito training di formazione. Ci sono orientamenti per i quali la dimensione transferale e controtransferale è lo strumento di lavoro fondamentale e modelli che sono invece centrati più sul qui ed ora delle relazioni, della soggettività o dei comportamenti. Per chi sente di esser in sintonia con la psicologia del profondo, il libro qui brevemente presentato si configura come strumento di elevata e radicale fruibilità.

Il salto nel Mondo – La creatività nel pensiero di Aldo Carotenuto

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009

Aldo Carotenuto ha intuito e sostenuto, con considerevole anticipo sul sentire collettivo, le grandi opportunità offerte dalle nuove tecnologie della informazione e della comunicazione . Già dagli anni “90 del secolo scorso aveva fatto istituire nel web un suo sito personale , nel quale si legge: “ “Tesi portante dell’intera ricerca di Carotenuto è il primato assoluto della creatività nell’esistenza umana. L’arte, così come la psicoanalisi, è un percorso di liberazione delle energie creative individuali dai legacci di un’educazione conformista o da gravi blocchi nevrotici. Tuttavia, i complessi non rivelano solo il blocco delle energie creative, ma anche le strade che la psiche persegue per liberarsi, per trasformare il dolore in strumento di riscatto e di creatività.” Scelgo di soffermarmi su questo brano in quanto scelto dallo stesso Carotenuto ad esemplificare, in estrema sintesi, il proprio pensiero ed anche la propria equazione personale di giudizio sulle interrelazioni tra arte, psicoterapia, sofferenza e vita.

Per Carotenuto la sofferenza psicologica non basta a spiegare l’opera d’arte, ma genera un destino che della ricerca artistica fa la sua ragion d’essere. Il primato e l’importanza assoluta della creatività per l’essere umano sono ribaditi in tutta la vasta ricerca dedicata ai tanti artisti (Bousquet, Dostoevskij, Goethe, Pasolini, Shakespeare, etc.) colti alla luce delle determinanti interiori. Ma qui ci preme ricordare, e sottolineare, che per Carotenuto la creatività non è soltanto la creatività artistica. Già nel 1983, così si esprimeva”Per creatività intendo, in un senso molto generale, quell’atteggiamento che consente all’individuo di inserire i cosiddetti dati reali in un sistema di nessi e relazioni che conferiscono a quei dati un significato del tutto diverso dall’evidenza immediata .” Posizione, questa, che personalmente condivido appieno e sulla quale tornerò a soffermarmi.

Le radici della concezione carotenutiana sulla creatività affondavano in un ampio terreno culturale, che spaziava (con citazioni soltanto parziali ed inevitabili omissioni) da Benedetti a Maslow, a Matussek, da Cobb a Nietzsche, da Barron a Sheleff, ma prioritariamente era fecondato da Jung e Neumann. Componenti, queste sopra citate, che gli permisero – in una intensa rielaborazione – di andare oltre la concezione patogenetica di Freud e la teoria Adleriana della nevrosi. Per Carotenuto – rispetto a Freud – all’origine della sofferenza nevrotica c’è la rimozione dell’impulso creativo, e la dimensione sessuale di quell’impulso fa parte, ma solo come aspetto parziale di un problema più generale. Analogamente – considerando la concezione di Adler– è possibile per Carotenuto intendere la volontà di potenza come un aspetto parziale della pulsione creativa.

Carotenuto riteneva che tra la psicologia del profondo e l’arte ci fosse uno stretto rapporto ma allo stesso tempo riteneva che la psicologia non possedesse gli strumenti per una comprensione dell’arte. Lo stretto rapporto fra la psicologia del profondo e l’arte ha a che fare con” la capacità degli artisti di comprendere in modo intuitivo, in un modo comunque non razionale e non scientifico, quello che gli psicologi sono riusciti a comprendere attraverso lo studio di singole persone sofferenti ”. Il discorso psicologico sull’arte si giustificava, a suo parere e in accordo con Jung, per il solo motivo che “l’esercizio dell’arte è un’attività psicologica ” e – come ogni fenomeno culturale – può essere oggetto di studio da parte dello psicologo proprio in quanto espressione della psiche.A proposito del rapporto malattia/arte, Carotenuto affermava che in genere non è la patologia a rendere creativa una persona, e sottolineava, infatti, che la nevrosi è piuttosto una sofferenza sterile. Non è possibile pertanto spiegare una produzione artistica attraverso la patologia personale dell’artista, in quanto il senso e il carattere di un’opera sono nell’opera stessa.

In accordo con Jung, Carotenuto riteneva che l’arte non potesse essere considerata un derivato, né un sintomo, bensì un simbolo vero, che trae la sua forza dalla dimensione inconscia, che – in tale ottica – diviene matrice di ogni prodotto spirituale.Interrogandosi su cosa significasse essere una persona creativa, Carotenuto asseriva che gran parte delle sofferenze psichiche derivano dal disagio o dalla paura di esprimere la propria creatività. In questo percorso concettuale, da Neumann Carotenuto mutuava l’importanza di una integra dimensione interna – l’Asse io/Sé – come derivato di un soddisfacente rapporto precoce con la Madre, che possa consentire di superare – simbolicamente – lo scontro distruttivo con il Padre, e di poter affrontare il nuovo e l’imprevisto senza soccombere alla paura.

Abstract

Sin dagli anni 80 del millennio ormai decorso è andata diffondendosi anche in Italia la teoria della complessità, ovvero la sfida connessa ad una dimensione del nostro essere, esistere, conoscere caratterizzata da connessioni e interdipendenze. La Rivoluzione digitale che parallelamente andava incrementando a ritmo esponenziale le tecnologie dell’informazione e della comunicazione integrandole progressivamente in piattaforme comuni, ha amplificato la percezione di una realtà globalizzata e interconnessa. Ne sono derivati vantaggi e svantaggi, rischi e benefici, si sono prefigurate opportunità nuove. Settori della conoscenza che prima erano incomunicanti come le monadi di leibniziana memoria hanno iniziato un dialogo, promuovendo in parallelo la costruzione di un discorso e di un linguaggio comune. Non di rado tale avvicinamento ha comportato anche una perdita di nitidezza dei confini generando qualche confusione e, nei casi più gravi, uno smarrirsi delle specifiche identità caratterizzanti le diverse discipline. Contaminazioni feconde e talvolta rischi confusivi stanno caratterizzando pressoché ogni settore della conoscenza. Peraltro nel periodo considerato le I.C.T. hanno improntato di sé tanto la Psicoterapia quanto l’Arte: già da tempo esistono forme di psicoterapia on line e di arte digitale. Centrando l’attenzione sui rapporti tra Psicoterapia ed Arte, è opportuno darne una seppur minimale e provvisoria definizione, allo scopo di delineare un ambito di discorso adeguatamente circoscritto, e poterne poi successivamente cercare relazioni, connessioni e interdipendenze. La creatività appare come un fattore comune a Psicoterapia e ad Arte, tanto che in fin troppo frequenti dibattiti ci si è ripetutamente chiesti se la Psicoterapia sia classificabile come scienza o come arte. D’altra parte anche l’Arte – campo elettivo della creatività – presuppone regole tecniche. Embricazioni dunque e contaminazioni o, se preferiamo, frontiere permeabili e ponti possibili. Mi chiedo – oggi e nel contesto sopra abbozzato – cosa fare e come attualizzare il pensiero dei grandi e piccoli padri sul tema dell’Arte e della sua psicogenesi. Un excursus seppur essenziale su Freud, Jung, Klein, Rank, Winnicott e i tanti altri che non cito per sole ragioni di brevità, mi appassionerebbe ma richiederebbe un tempo e uno spazio che i limiti editoriali non consentono. Abbozzerò una riflessione sul pensiero di Aldo Carotenuto, essendo stata la Creatività una dimensione grandemente presente nella sua concezione dell’Uomo e delle possibili trasformazioni psichiche che hanno per meta tendenziale il divenire Individuo. Per quanto attiene il mio soggettivo pensiero, avanzo la proposta, già da gran tempo attuata nell’ambito clinico, di una auspicabile ma calibrata incentivazione degli aspetti creativi del paziente, nell’ottica di amplificarne le capacità espressive e auto trasformative. Denomino qui per la prima volta come psicoedema l’ingorgo libidico, connesso con un transfert negativo, che può instaurarsi allorquando la sopra accennata incentivazione delle creatività ecceda adeguati limiti.