Comunicazioni scritte in analisi

in Giornale Storico di Psicologia dinamica, 44, Napoli, Liguori, 1998

Nel corso del tempo ho verificato che la restituzione simbolica e l’elaborazione delle comunicazioni scritte del paziente consente di accedere ad alcuni suoi significativi meccanismi; il lavoro analitico – consentendo la comprensione del significato e del senso anche difensivo della forma scritta – ne riduce la frequenza, in taluni casi sino alla scomparsa. La verbalizzazione contestuale della forma e del contenuto del messaggio restituisce al paziente la possibilità di dire ciò che prima osava soltanto scrivere.

Vicenda Parmalat e dintorni

Obbligazioni Argentine, bond Cirio, vicenda Parmalat: sono i casi più recenti e clamorosi di dissesti finanziari i cui effetti si sono ripercossi pesantemente sui risparmiatori italiani; a questi possono aggiungersi altri casi di minore risonanza – ugualmente rivelatisi investimenti fallimentari per i risparmiatori – che hanno ancor di più ampliato il numero dei soggetti “ vittime”. Secondo alcuni circa 800.000.

Sui giornali economici e sulle pagine finanziarie dei quotidiani sono stati scritti fiumi d’inchiostro sulle cause e sugli aspetti tecnici delle vicende – definite in taluni casi vere e proprie truffe – nonché sui possibili rimedi. Sull’onda del clamore sollevatosi, i fatti di cui parliamo sono stati e sono tuttora oggetto di accesi dibattiti anche politici coinvolgendo i complessi rapporti tra banche, industrie e autorità preposte alla vigilanza.

Non è qui il caso di fare ulteriori valutazioni su fatti il cui sviluppo è ancora in corso: si vuole tentare di individuare una chiave di lettura del fenomeno dal punto di vista umano, anche in un ‘ottica dei meccanismi comportamentali della psicologia umana.

Il contesto storico sociale

Tralasciando vicende che sarebbero attinenti, ma tropo lontane nel tempo come lo scandalo della Banca Romana risalente alla fine dell’ottocento, non si può non partire dalla trasformazione della nostra società negli ultimi cinquant’anni .

Come molti hanno osservato, dopo la fine della guerra la liberazione non rappresentò solo un affrancamento da un regime politico, ma una liberazione di coscienze e di energie in uno spirito di rinascita personale e collettiva che attivò una generale voglia di benessere.

Come i non più giovani possono ricordare, negli anni ’50 per la prima volta cominciava ad affluire nelle tasche degli italiani , seppur in maniera esigua, denaro che, soddisfatti i bisogni primari e accantonato quello a scopo cautelativo, era alla ricerca di investimenti.

Una tendenza in realtà ancora assai limitata sul territorio e concentrata prevalentemente al Nord.. Propensione che trovava un limite nel fatto che se per la prima volta la gente cominciava a prendere in considerazione l’idea di un investimento, la categoria dell’investimento finanziario era però quasi sconosciuta.

Nei piccoli centri rurali del Paese la gente aveva ancora fresca la memoria del danaro che veniva nascosto sotto il mattone o sotto il materasso e c’era ancora diffidenza a depositare i soldi in banca. Il mondo tuttavia progrediva e gli Italiani rinunciarono a tenere i soldi in casa. Il primo mutamento di abitudini verso un comportamento moderno fu quello di depositarli alla Posta perché erano più al sicuro ; era come darli allo Stato e lo Stato, in una inconscia prosecuzione della cultura corporativa pareva offrire più garanzie.

Nella condizione emotiva che genera sempre il possesso (o la mancanza) di danaro, e in una situazione di generalizzata ignoranza, depositare i soldi alla Posta piuttosto che in Banca era rassicurante; la posta era vicino casa e non si entrava in contatto con un modo dove si parlava difficile. Gli impiegati degli uffici si esprimevano nella stessa lingua, o meglio nello stesso dialetto dei depositanti con cui condividevano le medesime esigenze.

Sempre in quegli anni, nelle grandi città, la situazione era differente per stratificazione sociale e per aree . A parte la categoria dei benestanti che dovunque e sempre avevano avuto confidenza con danaro, banche, investimenti o quant’altro, nel Centro Sud la nascente borghesia prevalentemente impiegatizia aveva una limitata possibilità di risparmio, che era depositato in banca sotto forma di libretto, libero o vincolato che fosse.

Il danaro comunque è sempre generatore di ansia, sia quando lo si possiede, sia in caso contrario. Nel primo per la naturale esigenza di mantenere il potere di fare ciò che esso consente, nel secondo perché si vuole acquisirlo.

Per parlare ancora brevemente delle trasformazioni in corso in quegli anni, ricordo che pochi allora avevano il conto corrente bancario. Quando si riceveva in pagamento uno cheque si storceva il naso, non era carta moneta fisicamente tangibile e quindi sicura; bisognava andare all’agenzia sulla quale era stato tratto e restare con la preoccupazione che magari non fosse coperto. La situazione individuava anche una differenziazione sociale. Chi pagava con cheque era considerato un diverso , talvolta uno snob, uno che voleva far rimarcare la propria superiorità economica. Al tempo stesso si invidiavano questi comportamenti perché si voleva farli propri.

E poi, per fortuna, nel giro di alcuni anni tutti o quasi tutti gli italiani ebbero il conto corrente bancario, soddisfatti non solo per la praticità dello strumento, ma anche perché in qualche modo si rendevano conto di avere fatto un salto di qualità sotto il profilo dei comportamenti economico-finanziari, cioè culturale.

Sul piano individuale come quello collettivo credo l’aspirazione ad una crescita culturale viene subito dopo quella del miglioramento economico. Avere più cultura è quasi come avere più danaro, appunto perché anche la cultura è potere. Qualcuno, per fortuna, la preferisce ai soldi

In questo quadro, dunque, sempre negli anni ’50 e principalmente nel Norditalia, due forze contrastanti agitavano i pensieri di chi disponeva di danaro: mantenerne il valore ( il risparmio aveva quasi una valenza sacrale); aumentarlo, se possibile.

Il deposito in banca però realizzava il primo obiettivo, ma poco il secondo, tenuto conto che i tassi di interesse difendevano si e no dall’erosione monetaria dovuta all’inflazione.

Era come se ci fosse bisogno di un qualcosa che coniugasse la sicurezza con il guadagno.

Il primo caso di truffa.

Fu così che, in linea con i dettami della scienza economica secondo ogni domanda crea un’offerta, verso la metà degli anni cinquanta nell’area Romagnola intorno a Imola, un signore ex bancario accreditato presso la curia locale, avendo svolto lavori presso vari Istituti religiosi, tale Giuffrè, s’inventò il mestiere di banchiere e cominciò a rastrellare danaro prevalentemente presso le classi contadine o della piccola imprenditoria, promettendo tassi d’interesse da capogiro.

I più coraggiosi, di fronte a quelle allettanti sollecitazioni si sentirono di affrontare il rischio, guardati con timore misto ad invidia dagli altri. C’era pur sempre, non ufficiale e indiretta, una sorta di garanzia data dal fatto che Giuffrè era o affermava di essere un uomo in qualche modo legato alla Chiesa. Lui diceva di essere un benefattore. E i risultati si vedevano: gli alti tassi di interesse all’inizio venivano effettivamente pagati: erano qualcosa di reale. I beneficiati parlavano con amici e parenti e il giro finanziario aumentava .

Come molti sanno, Giuffrè aveva messo su una classica catena di S. Antonio. Gli alti tassi di interesse non venivano pagati con i profitti degli investimenti che il Banchiere di Dio (cosi fu chiamato) affermava di realizzare in virtù delle sue capacità, ma con i soldi che entravano con i nuovi depositi. Ciò fino a quando in massa i depositanti che avevano cominciato a subodorare l’imbroglio chiesero di rientrare. Giuffrè si rivelò insolvente, lasciando il cerino in mano agli ultimi investitori.

Anche se quella descritta, pur nella sua realtà, potrebbe apparire la rappresentazione di un’Italia arcaica, ho ricordato questo episodio perché è stato il primo che ha dato la stura negli anni successivi a innumerevoli altri episodi di malversazioni, anche se più sofisticati, perché oramai la cultura finanziaria era aumentata ed erano stati creati presìdi a tutela.

Voglio sottolineare infine che se pur in presenza di una profonda trasformazione del contesto socio economico, è rimasto fertile l’umus che ha consentito la proliferazione di questi inganni ci deve essere una spiegazione più profonda perché questi fenomeni continuano a verificarsi.

I comportamenti con la crescita del paese

Procedendo con la rappresentazione dei fatti, tutti sappiamo che quelli intorno al 1960 furono gli anni del miracolo economico in cui per la prima volta le classi medio borghesi si affacciarono al mercato di Borsa.

Un istituto misterioso ai più dove però era il sentire collettivo – si potevano realizzare consistenti guadagni solo vendendo e comprando titoli al momento giusto. L’importante era saper esattamente quando compiere queste due operazioni.

L’importante era dunque sapere e ritorna così in ballo il fattore culturale

Se quando si investiva su quel mercato la finalità dichiarata era evidentemente quella del guadagno, di non minore valenza , più o meno conscia, era anche quella di ricavare un personale compiacimento dal fatto che il guadagno fosse il risultato della propria capacità di sapere bene operare: in altre parole della propria abilità.

Il capital gain riempiva la saccoccia e al tempo stesso rinforzava l’Ego

In quegli anni, i primi e meno smaliziati investitori in borsa presero anche sonore batoste e cominciarono a capire che non sempre c’è un rapporto diretto tra buon andamento di un’azienda e la sua quotazione. E’ però il caso di ricordare, per inciso, che nel parlare di Borsa si è al di fuori delle ipotesi di malversazioni cui si prima si faceva cenno. Se ne parla solo perché in molti casi un siffatto investimento si è rivelato un danno per il risparmiatore, comunque non addebitabile ad un comportamento di una persona o ad un gruppo di esse. La Borsa era pur sempre un mercato ufficiale governato dalle sue (poco comprensibili) regole e in tale ambito va pure ricordato che le categorie professionali o istituzionali (Banche e Agenti di cambio) che compravano o vendevano titoli per conto dei clienti, mentre si adoperavano a che il mercato di Borsa si sviluppasse non erano poi troppo preoccupate del suo andamento. Salisse o scendesse, gli intermediari guadagnavano sempre con le commissioni.

Ma queste erano le regole del gioco di borsa.

E – magia delle parole- il fatto che il mercato di borsa fosse definito anche gioco rendeva, per taluno, meno dolorose le perdite ; c’era sempre il modo di consolarsi pensando: è come se fossi andato al Casino di Montecarlo e mi è andata male. Quando si verificavano questi eventi, i timorosi, i prudenti si consolavano della loro mancanza di coraggio.

Non voglio però dare l’idea che quelli che investivano in Borsa fossero dei gonzi o degli avventurieri. A parte il fatto che c’erano anche quelli che o per capacità, fortuna o per il possesso di informazioni riservate facevano quattrini a palate, bisogna anche dire che forti erano le pressioni culturali che spingevano verso questo tipo di investimento

Articoli divulgativi sui giornali sottolineavano la virtuosità di un tale tipo di investimento: avrebbe alleggerito le imprese dal pesante giogo del finanziamento bancario con effetti positivi per tutta l’economia. Da parte di esperti o sedicenti tali, più o meno esplicitamente venivano rivolti inviti verso queste nuove, moderne forme d’investimento suscitando l’idea che affrontando il nuovo, percorrendo nuove strade si potesse arrivare a traguardi mai prima immaginati. Era una bella sollecitazione per chi si trovava in bilico tra la piatta sicurezza del deposito bancario e l’eccitazione provocata dal rischio di un forte guadagno.

Investire in borsa era cosa buona e giusta, un fatto di elevazione culturale anche in questo caso. Complici anche i film ambientati negli Stati Uniti, paese finanziariamente evoluto, dove l’investimento azionario era di casa. Fu così che il risparmiatore evoluto si abituò a convivere con un sentimento ambivalente oscillante tra il desiderio fare quattrini in poco tempo e senza lavorare, e la paura di rischiare quanto aveva accumulato in anni di vero lavoro.

In questo perdurante oscillare di sentimenti dato dal desiderio di percorrere strade alternative, agli inizi degli anni’80, mentre faticosamente cercava di farsi strada una legislazione del settore che offrisse un maggior grado di trasparenza, che facesse cioè capire dove si andavano a mettere i propri soldi, i risparmiatori avevano iniziato ad investire in titoli atipici, subendo nella maggior parte dei casi pesanti perdite. Cosa si era verificato nei fatti? Poiché in quegli anni non facili per le turbolenze politiche legate al terrorismo i rendimenti sperati da un investimento in Borsa non apparivano troppo elevati, taluni, per i quali il desiderio di rischio poteva sconfinare nel desiderio inconscio di annullamento del proprio potere, attratti da mirabolanti sollecitazioni di guadagno, investivano in prodotti finanziari ancora più pericolosi.

Questo durò per alcuni anni fino a quando, in una situazione completamente mutata anche perché era stata introdotta la Legge sui fondi comuni di investimento e una legislazione a difesa del risparmio che offriva, sulla carta, maggiori garanzie, si arrivò al boom di borsa del 1985/1986, quando l’investimento in azioni divenne un fenomeno di massa.

In quel periodo di grande euforia nuove fasce sociali anche di cultura economica medio bassa si erano lanciate nell’avventura della Borsa. Senza strumenti di conoscenza per poter autonomamente operare, i neofiti della Borsa in genere delegavano ad altri la scelta degli acquisti, facendosi più o meno bene consigliare da sedicenti esperti.

In questo stato di orgasmo collettivo era frequente il diffondersi, come un passa parola tra iniziati, delle dritte giuste. Alcuni poi che si ritenevano molto furbi, con tipica fantasia italica, stazionavano occhiuti nelle agenzie delle banche davanti ai borsini per spiare le mosse degli esperti (magari fruivano di informazioni riservate ) che, nel fare trading di azioni, guadagnavano sempre. Si accodavano a quelli ripetendone acquisti e vendite. Finché il gioco funzionava. D’altra parte la Borsa tirava ed in effetti guadagnarono un po’ tutti.

Un aspetto di non secondario rilievo a conferma di quel che osservavo prima sul rafforzamento dell’ego, era il compiacimento del successo che doveva essere ostentato: alcuni dicevano che con i guadagni ottenuti si erano comprati la macchina nuova, altri addirittura la villa al mare.

Nell’ansia del guadagno la gente chiedeva consigli anche a persone senza scrupoli affidando loro il proprio patrimonio (cioè il proprio potere), con la conseguenza che, appunto perché era difficile penetrare nel mondo della finanza che rispondeva a logiche oscure, se i risultati erano all’inizio buoni si consolidava la tendenza alla delega ad altri, rinunciando alla propria autonomia di giudizio e al tentativo di acquisire una propria capacità di valutazione.

La seconda conseguenza fu che, in questa situazione, quando si avvicinava un esperto di borsa o presunto tale non gli si chiedeva quale fosse un titolo valido su cui investire e perché, ma se avesse una buona dritta da dargli per un investimento in Borsa da “mordi e fuggi”. Veniva così snaturato lo spirito con il quale si sarebbe dovuto accedere al mercato azionario.

Duplicità dell’animo umano e del suo comportamento: si aveva un forte desiderio di entrare in un mondo attraente in quanto sconosciuto e misterioso e , al tempo stesso, si voleva subito scappare ricavatone il vantaggio: come un coito frettoloso, quasi rubato!

Il Mercato si evolve

Ma avviciniamoci ai nostri giorni. Dopo il 1990 vengono introdotte nuove leggi sulle negoziazioni in Borsa, si verifica il terremoto di Tangentopoli, si istaura la seconda Repubblica (o il secondo atto della prima secondo taluni).

Per l’elevato debito pubblico restano ancora alti i tassi di interesse sui titoli di Stato e la gran massa delle famiglie investe prevalentemente in essi. Ciò fino a quando venendo meno ogni convenienza per l’equivalenza tra inflazione e rendimenti, la massa dei risparmiatori si mette, giustamente, alla ricerca di investimenti più redditizi in un mercato finanziario che si è profondamente modificato e complicato.

In che senso? Nel senso che da un lato i risparmiatori si sono fatti più attenti e prima di investire in attività finanziarie ne valutano bene i rischi. In ciò sono, o dovrebbero essere aiutati dalle nuove SIM (Società di intermediazioni mobiliare) e dai Promotori finanziari che, per certi aspetti si comportano quasi da consulenti e iniziano a proporre innovative forme di risparmio o investimento come i piani di accumulo o altri oggetti misteriosi. I più spregiudicati subissano il cliente di proposte talmente complicate che , comprensibilmente, anche quello colto, ma non di finanza, non poteva capire fino in fondo dove si andava a cacciare e per non fare brutta figura finiva per accettare qualsiasi proposta. Dall’altro, sul fronte dell’offerta, le Imprese alla ricerca di danaro , per una serie di complesse ragioni collegabili a utilità finanziarie, in massa iniziano in maniera consistente ad approvvigionarsi di danaro fresco mediante lo strumento delle emissioni di prestiti obbligazionari

Non bisogna essere troppo esperti per sapere che l’investimento in azioni è di rischio, mentre quello in obbligazioni è di debito. Investendo in queste ultime non si rischia (o non si dovrebbe rischiare) tutto il capitale, il proprio potere e si realizza comunque un rendimento tale da mantenere invariata la capacità d’acquisto dei propri risparmi. Il bacino d’utenza, dunque, è piuttosto ampio e la gente inizia a investire in maniera massiccia in obbligazioni.

Com’è noto i mutamenti della società determinano mutamenti delle leggi per cui, nel 1998, veniva emanata una legge dal nome roboante, il Testo unico della finanza, (altrimenti chiamata legge Draghi) naturalmente sconosciuta ai più nei suoi contenuti tecnico – legislativi, ma che nell’accezione corrente del suo significato e nelle sue finalità andava a rappresentare un aumento delle garanzie per i risparmiatori. Più o meno in quel periodo inoltre, in linea col processo di armonizzazione della legislazione nazionale a quella europea, veniva introdotto in Italia il Nuovo Mercato, prevalentemente formato da titoli di società tecnologiche.

Poiché il deposito del danaro sul conto corrente iniziava a non dare più un rendimento effettivo, ancora una volta il risparmiatore/ investitore si trovava di fronte al dilemma di affrontare il rischio di rivolgersi a innovative forme di investimento. Tecnicamente è improprio assimilare la tipologia dell’investimento in azioni sul Nuovo mercato a quella dell’investimento in obbligazioni, ma ambedue le tipologie, che, in molti casi, si sono rivelate essere investimenti sbagliati, vengono accomunate solo sotto il profilo del risultato finale.

Conclusioni

Siamo ai nostri giorni. Tralasciando la considerazione oggettiva che le obbligazioni Argentine e Cirio nella maggior parte dei casi erano titoli non quotati e quindi usufruivano di una minore tutela (ma questo non lo diceva nessuno ai sottoscrittori), e esimendoci da dare un giudizio sulla vicenda Parmalat al vaglio della Magistratura (la stampa ne ha comunque parlato abbastanza), si diceva prima che ci deve essere una spiegazione per cui questi fenomeni di inganni continuano a verificarsi.

Ebbene qui il discorso diventa complicato perché coinvolge aspetti legislativo/ istituzionali, aspetti su come questi temi finanziari vengono trattati dai media, e aspetti connessi a inclinazioni e comportamenti personali.

Sul discorso legislativo c’è poco da dire essendo un’ovvietà affermare che le leggi vanno cambiate nella direzione di una maggiore tutela per il risparmiatore, ma di ciò si occupano i tecnici e i politici e speriamo si vada, come sembra, in una giusta direzione.

Per gli aspetti attinenti alle modalità della comunicazione, premesso che tutta la cultura europea si va integrando nell’etica del danaro di stampo anglosassone e in particolare statunitense (ma non voglio dare a questa affermazione una connotazione negativa), si deve al tempo stesso dire che forse esiste anche una qualche responsabilità di una non sufficiente e adeguata informazione da parte della cosiddetta carta stampata e della comunicazione radiotelevisiva.

Questi due Mezzi sono da considerare a tutti gli effetti Poteri. Il potere però (senza moralismi) è anche potere di far del bene e l’azione divulgativa svolta dai giornali letti dall’ottanta per cento degli italiani e dalle trasmissioni televisive più viste, non ha a mio giudizio efficacemente operato per aprire gli occhi alla gente. Una divulgazione in tal senso, avrebbe viceversa anche potuto rappresentare un business in termini di indici d’ascolto o in termini di acquisti di copie per rientri pubblicitari .

Anche se comprendo sia difficile immaginare un sistema televisivo, bene o male controllato dal potere politico, che in un periodo di tendenza collettiva, vada a dire state attenti a investire nel mercato finanziario. O un giornalista che non si adegui alle direttive dell’editore che non voglia andare contro corrente o che può essere legato agli interessi degli intermediari bancari.

Ho anche l’impressione che , oltre queste considerazioni, vi sia in generale una sorta di inconscia censura a dover andare a mettere in guardia su scelte private, direi molto intime: il rapporto che ogni persona ha col danaro.

Brevemente qualcosa sugli aspetti di tutela Istituzionale.

Le autorità di controllo esistevano: la Banca d’Italia e la Consob. Ma per la responsabilità degli eventi citati all’inizio del discorso ne sono uscite indenni o quasi sul piano dei doveri ai quali dovevano attenersi. La Banca d’Italia deve badare essenzialmente alla stabilità del Sistema e in effetti lo fa. Nessuna crisi bancaria da 1936 ad oggi si è ripercossa sui depositanti. Se poi una banca o una banchetta hanno favorito in qualche modo la vendita di prodotti finanziari a rischio questa è, al limite, responsabilità del singolo funzionario che ha voluto per tornaconto personale o in taluni casi per ignoranza favorire certi investimenti per ingraziarsi i superiori.

E per la Consob il discorso è identico: cosa deve fare essenzialmente? Garantire la trasparenza dell’informazione a tutela del risparmiatore. E lo fa egregiamente nel rispetto delle leggi vigenti. Nei prospetti informativi che possono essere consultati dagli investitori ci sono anche le avvertenze e i profili di criticità. Ma chi li capisce se non è un esperto di finanza.?

Qual è l’input? Massimo rispetto delle leggi vigenti e azioni tergaprotettive per l’Istituzione e la singola persona.

Mi viene in mente una differenza: quella tra forma e sostanza; oppure la storia che l’operazione è perfettamente riuscita anche se il paziente è morto.

Si obietta: ma queste cose avvengono anche in altri paesi, per esempio negli Stati Uniti. E’ vero. Ma lì nel giro di pochi mesi hanno varato una legislazione a maglie strettissime, malgrado sia la patria del capitalismo.

In questo contesto non resta che analizzare il comportamento della persona.

In una sintesi finale voglio osservare che se da un lato è sacrosanto il diritto – dovere di ogni individuo di voler conservare ed aumentare il proprio risparmio essendo naturale voler mantenere e aumentare il proprio potere, ciascuno dovrebbe fare un esame di coscienza per capire quale vero obiettivo vuole raggiungere con la propria attività finanziaria. Non v’è dubbio che molto dipende dalla capacità di conoscenza dei meccanismi sofisticati di questi investimenti complessi o dal desiderio di volerli penetrare per una umana innata predisposizione, in un onorevole tentativo di assicurare a sé stessi successi materiali e morali. Ma in mancanza di queste conoscenze o di queste sensibilità avventurasi in questo mondo opaco è estremamente pericoloso.

Il mondo della finanza ha qualcosa in comune col mondo psichico individuale: un guazzabuglio di aspetti in chiaro e altri in ombra, dove le forze creative si scontrano con le forze distruttive.

Non ci si può avventurare in questo mondo per compensare le proprie insicurezze abbandonandosi alla fantasia di grandi guadagni che ci possono far recuperare sul piano materiale quel che sappiamo mancarci sul piano interiore. Caso mai il percorso da fare è inverso. Una cosa è certa: se in caso di incertezze non ci si affida alle persone giuste può restare l’amaro in bocca.

La presenza delle automobili ne “I cento passi” e ne “La meglio gioventù”

 La presenza delle automobili  ne “I cento passi” e ne “La meglio gioventù”

I Cento passi, La Meglio gioventù. Due film di successo che hanno descritto la trasformazione della società italiana dagli anni 50 ai nostri giorni.

Film di sentimenti buoni, non di buoni sentimenti; film di profondo amore famigliare e non di bigotta esaltazione dei valori della famiglia tradizionalmente intesa.

Entrambi i film sono costruiti in modo da offrire il loro messaggio sia attraverso la riproposizione alla nostra memoria di avvenimenti clamorosi svoltisi in ambienti esterni che hanno scandito e determinato cambiamenti nella nostra società, sia attraverso la descrizione dei vissuti dei personaggi coinvolti in quegli avvenimenti, nel chiuso di ambienti interni.

Senza pretesa di valutazioni da critica cinematografica, in una personale lettura – forse arbitraria- osservo che nell’architettura delle due opere si riscontra un elemento comune e significante di non secondaria importanza, essenziale per il racconto che ci propone l’autore.

Si celebra in questi giorni il cinquantenario dell’inizio delle programmazioni televisive ed è scontato che la TV sia stata, tra gli altri, elemento motore e testimonianza della crescita del nostro Paese. Rifacendomi ai due film in questione, rilevo tuttavia che un altro importante mezzo di comunicazione, stavolta inteso in senso non metaforico, ha segnato in maniera forte i cambiamenti della nostra vita nel periodo storico rappresentato.

Questo altro strumento è l’automobile, oggetto significativamente presente nei due film e nel mio immaginario.

Come corollario voglio ancora osservare che se televisione e automobile hanno comportato per l’italiano medio una grande occasione di cambiamento dei comportamenti di vita, sono stati al tempo stesso strumenti di una sua trasformazione interiore.

Tornando ai film , credo – in sostanza – che il regista abbia deliberatamente voluto descriverci quegli anni, oltre che con la rievocazione, talvolta poetica, dei drammi personali dei personaggi in relazione agli eventi , anche attraverso la fedele riproposizione alla nostra memoria delle automobili dell’epoca, elemento di impatto visivo ed emotivo importante per attivare i ricordi di come eravamo.

I Cento passi inizia con una riunione di famiglia in un piccolo paese della Sicilia sul finire degli anni cinquanta , nel cui contesto il personaggio principale è un capo mafia locale. Sullo sfondo compaiono due automobili: Un’Alfa Romeo Giulietta e una Fiat Belvedere.

La Giulietta, è il modello T.I., quello più potente, è l’auto che necessariamente doveva possedere il boss mafioso, appunto per differenziarsi dagli altri non in grado di permettersela, segno e prova evidente del suo potere.

E che la macchina assurga al ruolo di simbolo lo si vede dal fatto che lui, il capo mafia, la conduce personalmente con ostentazione, quasi a sottolineare la sua funzione di Guida, di Capo clan.

L’auto in quegli anni era un accessorio importante della persona e rappresentava un valore di riferimento cui aspirare se non la si possedeva. Ne è prova la scena in cui il mafioso davanti agli occhi sorpresi e compiaciuti dei presenti, come segno della propria benevolenza nei confronti della famiglia prende sulle ginocchia un bambino, il figlio del compare, e gli fa guidare la macchina. Come a dirgli: sotto la mia protezione e con il mio aiuto potrai diventare come me.

Non termina qui il ruolo dell’automobile, perché con essa il capo clan inizia a fare giravolte spericolate sfiorando i passanti, per dimostrare a tutti quelli che assistono alle sue evoluzioni che attraverso questo strumento del suo potere egli può operare il bene ed il male.

Ad effetto la conclusione dell’episodio: Il Boss mafioso va incontro alla sua fine in una situazione in cui è sempre protagonista l’automobile.

In una stradina di campagna il passaggio è interrotto da un’auto, uguale alla sua, senza guidatore. Il mafioso che non accetta sbarramenti di strada, in un impeto di rabbia che gli ottunde la ragione, proprio per dimostrare la sua autonomia si mette al volante dell’altra Giulietta per toglierla di mezzo. Con una fragorosa esplosione di tritolo toglie di mezzo sé stesso. Secondo la tradizione mafiosa.

Sono passati alcuni anni e il bambino è diventato un ragazzo pensante

Nell’episodio di prima la Fiat Belvedere che si era solo intravista per far risaltare le caratteristiche dell’altra auto, assume ora il suo significato.

Siamo alla fine degli anni sessanta e la Fiat 500 C Belvedere è una macchina da sfigato, da non inserito nel sistema della borghesia che iniziava a possedere altre auto. Ma ci troviamo sempre nello stesso piccolo paese della Sicilia ed è funzionale al racconto che la Belvedere, auto allora già vecchia, sia posseduta da un pittore, un artista senza soldi né potere, per di più di sinistra che combatte contro la piovra mafiosa.

Anche in questa circostanza il tipo di automobile funge da simbolo.

Alla presenza del giovane di prima, in periodo di campagna elettorale, l’artista, in piedi all’interno della sua auto con il tettino aperto, la fa diventare un improprio e modesto pulpito per poter fare un comizio contro il potere.

In contrasto con la veemenza delle argomentazioni la misera vettura rappresenta visivamente l’inutilità, quasi la sprovvedutezza dell’artista nel suo tentativo di opporsi al vero potere che dispone di ben altri mezzi.

Il giovane pensante cresce e diventa un giovane parlante perché impianta una radio privata con la quale cerca di diffondere idee progressiste e contesta, come si diceva allora, il sistema: nello specifico quello mafioso.

Per la sua attività di comunicatore il giovane di sinistra ha pur bisogno di un minimo di organizzazione e il regista ce lo fa vedere sul finire degli anni settanta possessore di una Fiat 850, un’auto già fuori produzione indicativa di una diversità, perché i giovani suoi coetanei avevano o desideravano altre auto.

Il comunicatore usa invece la macchina come strumento di lavoro per percorrere il tragitto da casa alla Radio privata.

Proprio in uno di questi percorsi il tipo di automobile diviene essenziale nel racconto che il regista ci fa sulla fine del giovane.

Fermo nella sua modesta vettura davanti ad un passaggio a livello, egli non può certo sfuggire alla potente auto nera dei suoi assassini che lo seguono, minacciosi. Questi, raggiuntolo, anzitutto buttano fuori strada la sgangherata 850, come a voler simbolicamente distruggere il suo mondo; quindi procedono all’uccisione del ragazzo, sempre con una rituale esplosione

La storia de la Meglio Gioventù inizia nel 1966. Sono gli anni del post miracolo economico nella capitale d’Italia. Dopo una breve iniziale apparizione di un’auto commerciale, una Seicento multipla (fa quasi tenerezza rivederla oggi) utilizzata dal padre del protagonista per trasportare un televisore, compare un’auto simbolo del benessere di quegli anni: la Giulia Alfa Romeo.

E’ inserita nel contesto di un gruppo di giovani della borghesia benestante che, al termine della sessione estiva degli esami universitari, decidono di fare un viaggio all’estero con questa macchina data loro in prestito dal padre di uno di essi. A differenza di oggi, l’auto utilizzata se potente e costosa costituiva allora non solo fattore di prestigio ma anche, per la sua efficienza, garanzia della buona riuscita del viaggio.

Interessante notare che attraverso il discorso sull’auto viene riprodotta la tipologia dei rapporti famigliari e interpersonali. Siamo poco oltre la metà degli anni sessanta, il ’68 non è ancora arrivato e vige ancora un grande paternalismo soprattutto nelle famiglie bene. Ricordo padri che, potendo, gratificavano economicamente i figli, soprattutto i maschi, sia per confermare con elargizioni la loro personale posizione, sia per avviare i figli alla vita in condizione di privilegio facendoli usufruire dei vantaggi materiali di cui loro potevano godere.

In genere, per non apparire troppo permissivi i padri ponevano, comunque, condizioni. Nel film – dice il ragazzo che ha avuto in prestito la macchina – la condizione è che la Giulia sia trattata con la dovuta attenzione e che non siano mai superati i 4000 giri.
La scena successiva è una di quelle tipiche di quegli anni. I quattro giovani in macchina subiscono l’ affronto da parte di un’altra auto che li sorpassa; una Jaguar, certamente più prestigiosa ma meno corsaiola. Un attimo di esitazione per valutare se accettare la sfida tenuto conto del divieto di spingere sull’acceleratore, e poi, anche per il rispetto di quelle regole non scritte che i giovani si sentono di dover seguire per sentirsi liberi e “ grandi” soprattutto agli occhi degli amici, via a tutto gas, come si diceva allora, per ingarellarsi.

Al di là degli aspetti collegati all’auto è interessante in questo episodio l’elemento della trasgressione. Il giovane alla guida si confronta con la figura paterna, e deve infrangere il suo divieto per sentirsi adulto.

Sotto il medesimo profilo, ma in questo caso non compare un’auto ma solo una vecchia corriera, un episodio clou del film quando i due fratelli portano via dall’ospedale la giovane disturbata mentale per condurla al paese dove vive il padre. Anche in questo caso la trasgressione rappresentata dal quasi rapimento della ragazza, comportando assunzione di responsabilità diviene, in definitiva, fattore di crescita e l’atto in sé costituirà, come è descritto nel seguito del film, un impegno che li coinvolgerà per tutta la loro vita.

Viene quindi rappresentato l’episodio dello straripamento dell’Arno a Firenze nel novembre del 1966.. Grosso modo in quel periodo, da militare, mi trovavo in quei luoghi.

I miei ricordi si sovrappongono alle immagini del film e il via vai dei mezzi militari- i pesanti C.P. e le camionette – utilizzati per portare in salvo libri e opere d’arte sono stati fedelmente raffigurati. Non è stato mai messo in discussione il contributo offerto dalle forze armate per la salvaguardia dei nostri tesori d’arte, ma al tempo stesso non è stato mai rimarcato che quella meritoria attività si è potuta svolgere proprio grazie all’utilizzo di mezzi meccanici su quattro ruote.

Le stesse camionette militari si chiamavano A.R. 51- si rivedono nel film, ma ambientate negli anni successivi, alla guida di celerini che facevano caroselli per sedare le proteste dei contestatori e degli operai nelle manifestazioni di piazza. Era cambiata un’epoca, se nel 1966 quelle auto erano state utilizzate per un fine nobile, ora le stesse servono per reprimere movimenti di libertà e istanze sociali.

Lo stesso mezzo, in differenti contesti, assume ruoli e funzioni antitetiche.

Il film va avanti e vengono descritti gli anni a cavallo tra la fine dei ‘70 e gli ’80. Anche in questa parte del film non è casuale il possesso da parte dei due personaggi principali del film, delle rispettive auto.

Uno dei due fratelli, Matteo, possiede un’Alfa Sud, un’auto allora non troppo dispendiosa, (Matteo infatti è poliziotto) al tempo stesso brillante e veloce. Quasi a voler significare che egli, carattere chiuso con problemi, l’abbia scelta per sfogarsi, per compensare le proprie frustrazioni sulla strada come nella vita. E che sia così ne è prova una scena in cui alla guida di quella macchina in autostrada con suoi familiari in una drammatica situazione emotiva, Matteo si mette a correre oltre ogni ragionevolezza in un impeto autodistruttivo. L’auto, in altri termini, diviene l’elemento scatenante che fa emergere in modo definitivo il profondo contrasto con la cognata che diventerà brigatista e le diversità con fratello, stemperate, alla fine dell’episodio, da un doloroso abbraccio tra i due che conferma, nella diversità dei percorsi di vita scelti, una comunanza d’affetti.

L’altro fratello, psichiatra, ha viceversa un’auto lenta, una Volkswagen Maggiolino, oramai vecchiotta ma affidabile, perfettamente in linea con il suo stile di vita di uomo di sinistra tutto proteso ed impegnato in iniziative ed attività professionali dal forte contenuto sociale, e poco incline alle lusinghe del consumismo. Ma che quell’auto rappresenti comunque una stonatura è descritto in una scena in cui la figlia piccola dello psichiatra, preoccupata, chiede al padre se il possesso di quell’auto sia il segno una condizione di povertà.

In termini garbati il regista ci vuole rappresentare che la bambina, che, va alla scuola elementare, è già entrata nella spirale dei confronti basati sul possesso di certi beni considerati status symbol e ha bisogno di sentirsi rassicurata.

La comparsa di altre automobili nella parte seguente del film la cui storia giunge fino ai nostri giorni forse presenta un significato meno pregnante per il racconto. D’altra parte compaiono macchine a noi più vicine.

A parte una fugace apparizione delle auto della scorta assegnata al dirigente della Banca d’Italia nel mirino dei brigatisti, tutto diviene a noi più riconoscibile, in linea cioè con i comportamenti degli anni ’90 quando le auto hanno quasi completamente perduto la caratteristica di segni di condizione socio – economica divenendo semplicemente beni di consumo.

Anche in questi casi la rappresentazione è fedele. Lo psichiatra oramai non ha più bisogno di farsi riconoscere con un’auto che poteva essere un biglietto da visita, i tempi sono cambiati e può permettersi la normalità di comprarsi un’auto appropriata alla sua situazione professionale, una Volvo Station Wagon; la figlia divenuta grande va alla ricerca della madre ex brigatista uscita dal carcere utilizzando una macchina assolutamente comune: una Fiat Punto.

Anche per il vecchio amico di famiglia, ex operaio divenuto dopo varie traversie impresario edile l’auto “assegnatagli” dal regista risulta particolarmente azzeccata e cala a pennello nel carattere del personaggio: utilizza un fuori strada che gli consente di andar per strade dissestate e per cantieri, ma non un fuoristrada alla moda di quelli che vanno per la maggiore oggi pieni di cromature e con i quali al massimo si sale sui marciapiedi per parcheggiare, ma uno quelli ancora un po’ rustici, da lavoro: un Nissan Patrol.

Sara forse che, tra gli altri più importanti, il regista ci abbia voluto anche suggerire il messaggio che l’auto è parte della “persona”?

Può la crisi rappresentare una risorsa?

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013 – Estratto

“Investire in spregio della biosfera” – dice Latouche. Muovendo il suo ragionamento da argomentazioni scientifiche, l’economista francese rileva che la teoria economica neoclassica (a parte i richiami di Malthus già nel 1800) riteneva che la produzione non incontrasse alcun limite rappresentato dalla finitezza delle risorse. Sappiamo oggi, viceversa, che il processo di rigenerazione della biosfera, non può integralmente ricostituire quanto forsennatamente si consuma, perché la sovracrescita economica non può che condurre all’ esaurimento delle risorse non rinnovabili utili all’uomo (il petrolio, tra le tante, ne è un’ esempio); senza considerare che la produzione senza limiti alimentata da un eccesso di consumo comporta immensi problemi di smaltimento dei rifiuti che solo in minima parte sono riciclabili, andando così ad aggravare i problemi della biosfera. Una crescita senza limiti, – sostiene Latouche – va ad alterare l’equilibrio della natura: l’ybris, la dismisura del signore padrone della natura, ha preso il posto dell’antica saggezza dell’inserimento di un ambiente sfruttato in modo ragionevole.

“Investire in spregio degli uomini”, rileva ancora Latouche. Il quale sottopone a severa critica l’attuale modo di produrre nel mondo. Quella attuale può essere definita un’economia della crescita per la crescita che diviene così un obiettivo primordiale non solamente finalizzata a soddisfare i bisogni normali che sarebbe di per sé un giusto fine. È una crescita orientata a far consumare sempre di più, complice il predominio della tecnica e l’efficace sistema della pubblicità che, nel creare un sentimento d’insoddisfazione, produce all’infinito nuovi (non sempre utili) bisogni. La globalizzazione è stata per il capitalismo la tappa decisiva sulla strada della scomparsa di ogni limite. La logica dell’accumulazione del capitale è l’illimitatezza e l’imposizione nel mondo della ragione mercantile va intesa come una vera e propria nuova religione. Da abbattere. Latouche non fa, come superficialmente potrebbe apparire, un discorso vetero – marxista, non demonizza di per sé l’economia di mercato tout court, non lancia anatemi contro il denaro, necessario per la produzione finalizzata alla soddisfazione dei bisogni reali; segnala gli eccessi, il superamento dei limiti, segnala l’eccessiva finanziarizzazione dell’economia, critica il sistema in atto che porta ad accumulare sempre più il capitale in un numero ristretto di persone che non potrà mai spenderlo. Latouche fa un discorso etico e non moralistico, che riguarda l’uomo, sottolineando come la trasgressione del limite economico è il portato dell’avidità sfrenata che sfocia nell’accumulazione infinita e nell’identificazione del desiderio nel consumo come la ricerca di un oggetto introvabile e destinato a restare inappagato. Siamo nel dominio della psicologia del profondo. Parole illuminanti sono state scritte al riguardo da M. Recalcati quando afferma che il desiderio è qualcosa in più rispetto al soddisfacimento dei bisogni primari, e quando ci ricorda che l’esperienza clinica ci pone regolarmente di fronte allo scandalo della vita che ricerca un godimento inutile, dispendioso, nocivo, e cita quadri soggettivi come l’obesità e la bulimia quali esempi, dove il desiderio di godere raggiunge un apice distruttivo per la vita medesima.

La crisi dunque non è soltanto economica, è antropologica. Al di là di una certa soglia la rincorsa indefinita verso una crescita senza limite si rivela frustrante e controproducente. La sostanza del discorso di Latouche è che non si vuole negare la necessità di una crescita che favorisca il lavoro che di per sé è la misura dell’esistenza e della dignità dell’uomo, ma quella di una crescita che non sia dismisura.

Come si è visto il problema della crescita è strettamente correlato con quello del consumo, che coinvolge comportamenti psicologici individuali. Sul tema un altro studioso di cultura francese, il sociologo Gilles Lipovetsky formula un pensiero che si pone con originalità in posizione collaterale e parzialmente divergente da quello dell’economista francese sopra sinteticamente illustrato. Se nei paesi del mondo occidentale caratterizzati da crisi economiche e finanziarie, qualcuno ritiene che l’iperconsumo, che si manifesta con l’ascesa incessante dei desideri superflui, sia destinata a scomparire, Lipovetsky sostiene che, viceversa, proprio nelle fasi di crisi in cui cresce il malessere soggettivo, i consumi funzionano come mezzo di consolazione, forma di terapia per dimenticare le frustrazioni. Il desiderio mostrato verso i marchi di prestigio non mostra segnali di declino perché in una società alleggerita dalle grandi utopie, i marchi assolvono ad una funzione ineliminabile: sono sogni, offrono punti di sicurezza e sono strumenti di auto valorizzazione personale, così che, in queste condizioni, il comportamento compulsivo al consumo che va oltre la necessità, pur con le limitazioni imposte dalla riduzione delle risorse finanziarie a disposizione, ha ancora un futuro avanti a sé.

Abstract

L’autore sinteticamente evidenzia le caratteristiche della crisi in atto, e mette in luce lo stretto rapporto tra crisi economica e psicologia. L’autore espone le riflessioni di alcuni studiosi, tra i quali l’economista Serge Latouche che si sofferma sul concetto di limite, e sottolinea come il superamento di limiti nel campo economico ed ecologico è da ritenersi esiziale, perché non può portare ad una sana crescita. Viene altresì riportato il pensiero della filosofa Myriam Revault d’Allones la quale evidenzia la struttura della crisi attuale da considerarsi nuova in quanto globale e senza fine. L’autore rileva come la crisi attuale esprima anche le difficoltà esistenziali dell’uomo contemporaneo, sottolineando la necessità di andare oltre.

Hillman da conoscere

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

All’intervistatrice che era andato a trovarlo poco prima della sua fine chiedendogli quale messaggio avrebbe voluto lasciare ai posteri, Hillman rispose: “è molto importante che il mio pensiero rimanga”. A un anno di distanza dalla sua morte, credo si possa affermare che il suo desiderio è stato esaudito; e per mettere a fuoco la sua personalità, credo si possa altresì dire che il Fato ha realizzato il suo disegno. Il non casuale riferimento al Fato ci fa inquadrare Hillman nella sua specificità di pensatore-psicologo che – come, ma più di tanti altri – ha saputo coniugare la sua esperienza di psicoanalista junghiano con la capacità di saper individuare un “tesoro” da scoprire nella cultura del mondo classico. Così, come psicoanalista prima e filosofo poi ha voluto divulgare e donare, con la sua ricchissima produzione letteraria, le sue riflessioni a chi abbia la volontà e la capacità di leggere e intendere. Ciò spiega la sua fortuna come autore, soprattutto in Italia, dove la cultura classica costituisce un diffuso retroterra culturale. Hillman, infatti, proprio per questa sua specificità di rifarsi ai classici, a differenza di altri autori psicologi talvolta di difficile lettura, è stato letto anche da persone lontane dal mondo della psicologia che, pur dopo la sua scomparsa, continuano a voler approfondirne il pensiero. Pensiero che va di là dall’elaborazione di una teoria psicologica, ma si pone come filosofia di vita. Hillman, ci aiuta a svelare il disincanto dell’esistenza e si propone come pensatore che vuole offrirci una originale visione di comprensione di noi stessi in rapporto alla realtà.

Il percorso della sua vita ne è la prova. Le sue prime esperienze sono, per usare un termine corrente, normali; giovanissimo, partecipa alla seconda guerra mondiale, anche in Europa; prosegue i suoi studi a Parigi, alla Sorbona, quindi si laurea al Trinity College di Dublino, per poi specializzarsi a Zurigo al C. G. Jung. Institute. Per circa vent’anni prima di tornare negli Stati Uniti, ha vissuto in Europa e ciò ha un suo non trascurabile riflesso.

È ovvio poi che se si vuole ricordare la grandezza di quest’autore, non ci si può esimere da riflessioni critiche. Prendendo spunto da un suo libro Cent’anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio, scritto quando aveva scorto il limite del rapporto terapeutico terapeuta – paziente, non si può non osservare che anche quando si veste da filosofo ampliando l’orizzonte del suo pensiero dal male dell’individuo al male del mondo, Hillman stesso può andare incontro ad un secondo limite. In un periodo storico come quello che stiamo vivendo caratterizzato da crisi politiche ed economiche, dall’affievolirsi dell’influenza delle religioni e dallo svanire dei cosiddetti tradizionali valori “alti”, si pone l’interrogativo: possono la psicologia e la filosofia con le loro dotte e accattivanti presentazioni e divulgazioni, dare un reale e incisivo contributo alla coscienza individuale per l’attenuazione dei mali del mondo, oltre che alla loro comprensione? La risposta non può che essere personale.

Abstract

L’articolo, con chiari intenti divulgativi, riporta alcuni flash sulle riflessioni di Hillman/ pensatore, che ha saputo coniugare la sua attività di psicanalista con la capacità di individuare un tesoro da scoprire nella cultura del mondo classico. Vengono presi in esame tre suoi volumi: L’anima del mondo e il pensiero del cuore; Il codice dell’anima; La forza del carattere. Nel primo vengono, tra l’altro, evidenziati alcuni concetti che spiegano come la psicanalisi sia tributaria dei pensieri di alcuni filosofi dell’antichità. Nel secondo si parla della sua celebre teoria della ghianda e del rapporto tra il male dell’individuo e il male del mondo. Nel terzo, che può essere considerato un sano viatico per la fase finale della vita, si sottolinea come l’invecchiamento può essere considerato un momento ancora creativo, finalizzato alla riflessione e alla definitiva scoperta del proprio carattere, anche al fine di lasciare un buon ricordo di sé.

Si può uccidere anche una locomotiva

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

La letteratura dell’ottocento ha lasciato indelebili ritratti di figure femminili in cui si coniuga il binomio amore e morte in senso reale e simbolico: tentando una elencazione non certo esaustiva, nella letteratura russa balzano in primo piano le figure di Anna Karenina e di Emma nella Sonata a Kreutzer, descritte da Tolstoj. Nella letteratura francese, le figure di madame Bovary di Flaubert, di Eugenie Grandet di Balzac, e di Christiane, in Mont-Oriol di Guy de Maupassant.

Per la necessità di rispettare gli spazi editoriali, circoscrivo il vastissimo possibile campo di trattazione e mi limito all’esame di un romanzo della letteratura francese della seconda metà dell’ottocento, in realtà non conosciutissimo: La bestia umana.

In questa fase storica, epoca che non aveva ancora visto la nascita della psicoanalisi ricorreva frequentemente negli scrittori francesi (in genere esponenti del realismo e del naturalismo) il tema dell’uccisione della donna. Più tardi con S. Freud e C. G. Jung il tema sarà ampiamente visitato e approfondito soprattutto in chiave psicologica e simbolica.

Uno dei libri secondo me più rappresentativi al riguardo è La bestia umana di E. Zola, romanzo dall’architettura complessa. La trama, che nella sintesi potrà anche apparire quasi un feuilleton della peggior specie, configura invece, nel suo testo integrale, un intreccio sorprendente e affascinante. Nel romanzo infatti l’autore riesce – in una costruzione narrativa incalzante – ad approfondire la psicologia e le più recondite e contraddittorie sfumature caratteriali dei personaggi, mentre la successione degli avvenimenti appare ben scandita e avvincente. Per dare un esempio al lettore delle suggestioni derivanti, il dipanarsi dei fatti appare accompagnato e quasi ritmato dal rumore prodotto dalle ruote di una locomotiva nello sferragliare sulle traversine.

La bestia umana è ambientato a Parigi e in alcune città della sua provincia alla fine del Secondo Impero, ed è dedicato alla ferrovia inquietante macchina-femmina (chimera che riunisce in sé la donna e la bestia) dal ventre incandescente e vorace, grande avvenimento economico e simbolico di quegli anni così entusiasticamente fiduciosi delle magnifiche sorti e progressive.

La protagonista–macchina è, appunto, la locomotiva (che ha un nome di donna: Lison), mentre il nome della donna reale è Severine; giovane orfana accolta ed educata nella famiglia di un alto borghese, il giudice Grandmorin, che la stupra, lei sedicenne.

L’intreccio della storia prende corpo quando, anni dopo, ella confessa al marito, Roubaud, la violenza subita e nel tempo continuata in una relazione, che lei autonomamente ha comunque deciso di troncare; il marito, rude e violento ama possessivamente la moglie, e dopo la rivelazione del tradimento, sconvolto, vede la vendetta come unica possibilità di sopportarne il peso. Programma così l’uccisione del magistrato, oramai anziano, che peraltro lo ha aiutato nella carriera interessandosi per farlo nominare vice capostazione.

Roubaud, pretende la complicità della moglie nell’omicidio sia perché la ritiene in ogni caso responsabile, sia per mantenerla legata a sé nella condivisione dell’azione scellerata. Roubaud mette a punto un piano e compie il delitto sul treno nel tragitto da Parigi a Le Havre. Fanno da contorno e si incastrano con la storia principale altre vicende collaterali, nel cui ambito si assiste ad altri tragici fatti, come l’assassinio di una donna da parte del marito avido del suo denaro, la morte di un’altra giovanissima, Louisette, anch’essa vittima del giudice e il tentativo di uccisione di Severine da parte di un’altra donna, Flore, che, gelosa della protagonista, non avendo raggiunto il suo scopo, si suicida.

Insomma una vera e continuata orgia di morti e uccisioni di donne.

Abstract

L’autore dell’articolo, dopo aver ricordato casi antichi e recenti di uccisioni di donne, prende in esame uno dei libri della letteratura francese dell’ottocento più rappresentativi al riguardo: La Bestia umana di E. Zola. In un periodo storico di intensa fede nel progresso, una delle cui manifestazioni è la ferrovia, Zola racconta la storia dell’uccisione di due entità femminili: la locomotiva, macchina-femmina che riunisce in sé la donna e la bestia e Severine, la giovane donna protagonista del romanzo. Entrambe accomunate nell’unico destino. In una trama complessa dal ritmo incalzante cadenzato dal rumore della macchina sulla strada ferrata, si consuma l’uccisione di Severine da parte del suo amante, Jacques, che non sa resistere al suo perverso ancestrale impulso di assassinare la donna che ama. La metaforica uccisione della locomotiva è provocata da un’altra donna – Flore – che, amando non riamata Jacques, fa deragliare il treno per uccidere la rivale e l’amante che non può essere suo, nel folle ma umano pensiero: o mio o di nessuna. Quindi, non essendo riuscita nel suo intento, si suicida. In anni in cui la psicoanalisi non è ufficialmente ancora nata, magistrale è la descrizione di Zola dei più reconditi contradditori impulsi dell’animo umano sull’eterno tema di amore e morte.

Il dio Denaro

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

È abbastanza scontato affermare che la maggiore disponibilità di denaro a disposizione della gente rispetto alle passate generazioni ha comportato una auspicata, opportuna crescita del benessere, che si è tradotta in una maggiore civiltà anche con benefici effetti sul piano democratico e culturale (le persone leggono di più e sono più informate); ma questa maggiore quantità di denaro ha comportato al tempo stesso un aumento dell’omologazione consumistica, quasi un bisogno collettivo coatto di avere, di mostrare: viviamo nella società dello spettacolo, al punto tale che se – per effetto del principio di imitazione – non ci si può uniformare ad un certo livello di consumi ‘visibili’, se ne avverte la mancanza e quasi ci si sente in colpa per non aver avuto la capacità di procurarseli. E tutti sanno che questo è il meccanismo alla base dell’economia di mercato consumistica: questo sistema utilizza molteplici vie, anche subliminali, per alimentare il processo; con la conseguenza tra l’altro che, malauguratamente, la bramosia indotta di denaro, rischia di far proliferare non solo fenomeni di delinquenza individuale ma anche e soprattutto quella organizzata, tipica del nostro paese, come mafie, ndranghete e così via.

Il denaro dunque presenta una duplice polarità: è connesso col bene e col male, con Dio e con il diavolo e “ha effetti sulla coscienza e sull’inconscio”.

Nell’attuale congiuntura economica in cui per la maggior parte delle persone si è ridotto o arrestato il processo di aumento della disponibilità del denaro, si impone dunque una riflessione. Una riflessione complessa (che qui possiamo soltanto accennare) sul nostro io, e sulla coerenza tra le nostre idee e i nostri comportamenti; muovendo dal nostro ‘particulare’ proviamo a tener conto anche dell’universale.

Intanto, come punto di partenza non si può ignorare che stiamo assistendo a movimenti in atto nella storia di nazioni e popoli che aspirano giustamente a condizioni morali e materiali di vita più dignitose, e che il procedere di questi movimenti, pur con battute d’arresto, è inevitabile.

Ora questa realtà bisogna sempre averla presente, perché se si ritiene che gli uomini sulla faccia di questa terra, pur con le loro differenti individualità ed identità da salvaguardare, siano uguali nei sentimenti, nelle gioie e nei dolori, e quindi compaterticipino di una pari dignità di base, non è razionalmente tollerabile che l’opulenza di alcune parti di mondo si traduca in difficoltà materiali di vita per le restanti parti (che in realtà sono la maggioranza); disparità oggi verificabile che non consente ad alcune parti di mondo non solo una esistenza minimante decente ma talvolta impedisce anche la nuda vita.

Questa è un’ottica umanitaria laica, ma su di essa non ci dovrebbero essere fraintendimenti perché anche il Dio d’amore del nostro Cristianesimo e le religioni del resto del mondo ce la impongono.

È un discorso scivoloso e complesso che ha anche conseguenze e riscontri sull’assetto socio-politico del mondo occidentale, con effetti che generano intolleranze e chiusure. Più o meno coscientemente, da parte di molti si ritiene infatti che il livello di benessere materiale raggiunto, se non è possibile incrementarlo, sia quanto meno da difendere con le unghie e coi denti ad ogni costo, perché il danaro sembra esser diventato il metro di misura della realizzazione della persona, inteso ”sia come potere di avere, sia come potere di essere.”

Ma ne siamo veramente sicuri? E siamo veramente convinti che per quelli tra i paesi occidentali che hanno raggiunto un livello accettabile di vita, la crescita economica – per come fino ad oggi si è realizzata – sia un progetto irrinunciabile da perseguire, e non sia piuttosto un falso obbiettivo? Non è possibile ignorare che in passato lo sviluppo economico è servito a realizzare solo in parte l’auspicata equità sociale; è dato assodato che negli ultimi decenni le differenze tra ricchi e poveri sono in realtà aumentate. E se dunque per le vigenti e condivisibili leggi dell’economia globale la crescita resta postulato irrinunciabile, dovrebbe prevalentemente essere orientata alla riduzione delle disparità esistenti.

Sorge infatti il ragionevole sospetto che l’aspirazione ad una maggiore disponibilità economica – nel singolo – nasconda piuttosto il desiderio di alimentare la propria visibilità/successo, (quanto suggerisce il demone del potere-danaro), per coprire a livello personale grosse carenze di realizzazione a livello interiore personale, e/o anche situazioni depressive nascoste o latenti.

Abstract

In tempi in cui vacilla la credenza nelle religioni tradizionali e sono venuti meno gli antichi valori che regolavano gli assetti familiari, si manifesta una nuova ‘deità’, il denaro, che presenta una duplice polarità: Dio o demone. Se il denaro è stato fattore propulsivo per il progresso della civiltà, al tempo stesso rischia di divenire un obbiettivo fine a sé stesso, per nascondere carenze di realizzazione a livello personale o anche situazioni depressive. Solo un equilibrato sviluppo psichico dell’individuo può garantire la giusta valenza da dare a questa nuova’ deità’.

Quale attualità per il peccato?

(con Simonetta Putti), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

La prima – superficiale – impressione potrebbe essere quella che parlare di peccati sia argomento un po’ antiquato, che il tema evochi oscure atmosfere chiesastiche dove il prete dal pulpito, o nel suo ruolo di catechista, tuonava contro i pericoli di cadere in tentazione, evocando terribili immagini di fuoco eterno. Pensiamo a Savonarola…, ma anche all’educazione sperimentata nelle scuole cattoliche, forse sino a quaranta anni fa.

Ogni mattina, quando apriamo il giornale, leggiamo il mattinale dei peccati che, appunto per la loro rituale quotidianità, hanno perso forse troppo l’originaria caratteristica di male da rifuggire . Ogni giorno, dunque, abbiamo il bollettino dei casi di furti, di falsa testimonianza, di avarizia (nella forma di una ricerca smodata di ricchezza a danno di altri), di lussuria, di gola, di omicidi, di superbia e, infine, anche di accidia, peccato capitale che sembrerebbe desueto, ma viceversa è diffuso ed endemico, come cercheremo di mettere in luce.

Come si accennava, questi peccati hanno perso per lo più la loro caratteristica di nefandezza.

Di fatto, oggi, i media ci elargiscono quotidianamente una nuova fattispecie di peccati o, potremmo dire, una nuova configurazione che deriva dall’assemblaggio dei classici peccati sopra ricordati.

Vedasi ad esempio la figura del mestatore di affari ovvero del faccendiere (termine coniato da Machiavelli ): una specie ad ampia riproduzione.

Ma i quotidiani e i media c’informano anche di crisi umanitarie in atto, e diffondono ogni giorno notizie e fotografie delle guerre note e misconosciute che – in ogni parte del mondo – mai cessano di replicarsi.

Anche alle violenze e alle atrocità siamo – considerando le reazioni collettive e prevalenti – così sembra, abituati .

Parlare di peccati, pertanto, è intento attuale perché significa richiamare l’opportunità di una riflessione sul sociale, dunque sull’uomo in relazione, in rapporto all’etica, all’estetica, alla moralità … e il pensiero torna all’antichissima battaglia della Sontag contro il filisteismo, la superficialità, l’indifferenza.

Una delle ipotesi che formuliamo è questa: può essere l’indifferenza – come opacità della sensibilità e della percezione – uno dei peccati gravi del nostro tempo?

Già di primo acchitto registriamo che nel comune sentire si assiste a una sorta di derubricazione di gravità dei tradizionali peccati sopra elencati. Nella realtà di oggi nessuno si sentirebbe più di attribuire un forte discredito sociale ai peccati di gola, di lussuria, di avarizia, di falsa testimonianza, (pensiamo solo all’evasione fiscale), di superbia, di accidia. Resta, è vero, l’esecrazione forte dell’omicidio, ma di frequente si ha l’impressione che anche questo peccato/reato non venga solo condannato in sé, ma sia anche l’occasione strumentale per parlare d’altro e raggiungere fini diversi: a livello dei mass media si tratteggia spesso, con tinte forti, il quadro socio–economico e si indugia nel voler reperire in quel sostrato la più parte delle motivazioni o spiegazioni, mentre non si cerca di indagare a fondo le motivazioni individuali e le cause prossime scatenanti dell’atto (pensiamo che, nella più parte dei casi di omicidio e di suicidio, si parla – genericamente e dunque impropriamente – di depressione; solo di recente per i casi di madri figlicide si è per così dire riscoperta, e riportata all’attenzione, la depressione post partum). In generale tale distorsione dell’informazione appare motivata da una convenienza politica (pensiamo agli omicidi di terrorismo e di mafia) e/o ideologica, talvolta influenzata da un diffuso perdonismo che paradossalmente e non di rado genera maggiore pietà per il colpevole/reo che per la vittima.

Perdonismo come altro peccato endemico del nostro tempo?

Questa è la seconda ipotesi: perdonismo come nuovo peccato che deriva dall’indifferenza sopra evidenziata.

Abstract

Quale attualità per il peccato?

Gli Autori si soffermano sul concetto di peccato, cercando di chiarire quale ne sia – oggi– l’attualità. Si delinea l’opportunità prioritaria di meglio delineare la fisionomia del peccato, anche distinguendola e differenziandola dal reato. Reato e peccato spesso hanno coinciso nello svolgersi temporale del sentire e del legiferare e, ancora oggi, non di rado, i due termini vengono usati in modo alternativo e non sempre congruo: viene pertanto abbozzato un quadro storico, seppur parziale e sintetico, che consenta di cogliere le trasformazioni anche epocali che hanno inciso sul sopradetto sentire. Si formula l’ipotesi che ci siano – nel nostro tempo – nuove forme di accidia, rintracciabili nell’indifferenza come opacità percettiva e nell’intorpidimento della sensibilità rispetto agli accadimenti del Mondo interiore ed esterno. Il perdonismo – come facilità al perdono indotta anche da stereotipi religiosi e sociali – può rappresentare una ulteriore fattispecie dell’attuale incapacità di andare oltre la superficie. Gli Autori auspicano la possibilità di una ritrovata e più piena sensibilità/percezione e accennano a una via percorribile per avvicinarsi a detta meta: la pausa, la riflessione, la domanda come accesso a strati profondi di Sé e dell’Altro.

Il sangue fra tradizione e attualità

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

Legami di sangue, titolo e argomento del presente numero della rivista, può secondo me per molti aspetti essere ritenuto un’endiadi: un’espressione di un concetto unitario formato da due sostantivi uniti da una congiunzione. Dalle considerazioni che di seguito saranno sviluppate emergerà come il sangue costituisce di per sé un legame sia fisico che simbolico e quand’anche, tra le tante possibili accezioni, voglia significare conflitto, pure in tal caso costituisce legame.

Sempre giocando con le parole se il sangue è legame è anche re-ligio, un collegamento cioè con un’entità superiore e da qui a dire che il sangue entra nella sfera del sacro il passo è breve.

E così l’umanità lo ha sempre interpretato. Si pensi solo alla presenza del sangue nella liturgia cattolica dell’ostia, (il corpo e il sangue di Cristo), si pensi ai giuramenti di sangue che sancivano un’appartenenza, un vincolo (ancor oggi presenti nelle affiliazioni mafiose), si pensi ai duelli all’ultimo sangue, si pensi infine alle numerose evocazioni del sangue nei testi sacri costitutivi della nostra cultura.

Nella Bibbia il sangue è alla base del patto dell’Alleanza quando Dio impone ad Abramo di procedere alla circoncisione del suo futuro figlio, legame che si sostanzia in un versamento di sangue, instaurando così una prassi perpetuata nei secoli e ancor oggi seguita. Questa è la mia alleanza che dovete osservare, alleanza tra me e voi e la tua discendenza dopo di te: sia circonciso di voi ogni maschio. Vi lascerete circoncidere la carne del vostro membro e ciò sarà il segno dell’alleanza tra me e voi . E ancora, nell’Antico Testamento, si afferma altresì il concetto secondo cui nel sangue è la sede della vita. Alcune, tra le innumerevoli citazioni possibili: poiché la vita della carne è nel sangue… , perché il sangue è quello che fa l’espiazione per mezzo della vita guardati assolutamente dal mangiare sangue perché il sangue è la vita e tu non mangerai la vita insieme alla carne . E che concettualmente il versamento di sangue rappresenti altresì un legame anche sotto il profilo temporale lo ritroviamo nel passo dell’uccisione di Abele da parte di Caino. Se il Signore accoglie poi la richiesta di clemenza da parte di Caino gli impone un segno e gli dice anche: Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!

E i significati attribuiti al sangue nel testo più antico li ritroviamo reinterpretati alla luce dei messaggi contenuti nel Nuovo Testamento e testi collegati. Nella Buona Novella si fa specifico riferimento al sangue versato da Gesù sulla croce, (immagine forte impressa nella mente di tutti perché immortalata da migliaia di rappresentazioni iconografiche) inteso come sangue del nuovo patto: bevetene tutti perché questo è il mio sangue dell’alleanza, versato per molti in remissione dei peccati; patto sancito da Dio con chi crede in Cristo e rappresentato dal sacrificio del Calvario: Dopo aver cenato prese il calice dicendo: Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue che viene versato per voi ; chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha vita eterna e io lo resusciterò nell’ultimo giorno perché la mia carne è cibo e il mio sangue è vera bevanda .

Queste ultime citazioni, indicative dell’unione spirituale realizzata attraverso l’atto fisico e simbolico del bere il sangue di Cristo, collegato alla vita eterna, se da un lato sostanziano uno degli aspetti fondamentali del cristianesimo (e sono forma della più rigorosa tradizione della liturgia del cattolicesimo), hanno lasciato una profonda traccia nell’immaginario e nell’inconscio collettivo dell’Occidente giudaico cristiano. Infatti, in questo ambito, anche in epoca di avvenuta secolarizzazione, l’idea del sangue quale simbolo potente collegato alla vita resta tuttora molto forte.

Abstract

L’espressione Legami di sangue, può per molti aspetti essere ritenuta un’endiadi: un’espressione di un concetto unitario formato da due sostantivi uniti da una congiunzione. L’Autore (indagando i diversi significati ed il senso dell’endiadi sopra detta,) parte dalla rivisitazione di passi di testi biblici, transita attraverso il pensiero di Erich Neumann, ed arriva a riflettere su alcuni fenomeni riscontrabili (coglibili) nella attuale dimensione sociale, con particolare riferimento alla società italiana. Dapprima, riflettendo sul sangue in quanto rappresentativo del legame, ne coglie in alcuni fatti storici il valore simbolico; poi ne evidenzia una ulteriore valenza, ovvero altresì il valore condizionante assunto nel corso del tempo; infine, si sofferma su alcuni comportamenti, e sugli atteggiamenti psicologici sottesi. In particolare l’Autore riflette sul fenomeno della cosiddetta adolescenza protratta, che si verifica in particolare nel nostro Paese, nel contesto dell’ambito famigliare, che talvolta diviene ostacolo al procedere fisiologico della crescita e della individuazione. Vengono così illustrati alcuni fenomeni, quali l’accentuata dipendenza e la correlata non adeguata maturazione, che caratterizzano una parte non irrilevante dei soggetti inscrivibili nella fascia di età giovanile. L’Autore rinviene nella configurazione famigliare elementi (forieri) che possono incentivare o generare i fenomeni sopra accennati: in particolare sottolinea il ruolo di problematiche individuali non adeguatamente risolte nei genitori, alla luce delle dinamiche illustrate da E. Neumann (in rapporto allo sviluppo della coscienza ed alla progressiva uscita dalla dimensione uroborica.)

L’ambiguo fascino del denaro

(con Simonetta Putti), in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 7, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

La storia del mondo è “piena” di denaro. Trenta denari sono il prezzo di un tradimento dalle tragiche conseguenze, pecunia non olet diceva Vespasiano al figlio Tito, denaro sterco del demonio secondo la religione cristiana (non così per i cristiani protestanti, anzi). Una libbra di carne chiede l’usuraio Shylock per la restituzione di un prestito in denaro secondo Shakespeare. La trasmutazione del vile metallo in oro (come dire denaro) era la dichiarata finalità degli alchimisti rinascimentali alla ricerca della pietra filosofale, ma soprattutto la maschera per poter nascondere ben altra e più approfondita indagine (non aurum vulgi…) poco gradita al potere Inquisitorio. Vile e maledetto denaro secondo taluni, dio denaro secondo altri, ma anche denaro benedetto se richiesto in chiesa con la questua a fini di carità. Denaro infine con funzione di compensazione di un danno subito nel diritto germanico anche per i reati penali (guidrigildo), così come negli assetti familiari e interpersonali a ristoro di un torto, oggi, come nei tempi dei tempi.

Il denaro appare quindi collegato alla creazione e alla soluzione di conflitti, è elemento che smuove la coscienza e l’inconscio.

Non pochi i filosofi che fin dall’antichità si sono occupati di denaro, Aristotele in primis, numericamente inferiori gli psicologi che si sono soffermati sullo specifico tema nei suoi significati profondi, restando tuttavia l’indagine speculativa su di esso prevalentemente incardinata nel profilo economico e sociologico volta ad analizzare il comportamento dell’homo oeconomicus, ed i meccanismi di circolazione del denaro nella sua rappresentazione materiale, cioè la moneta (la banconota comparirà solo alla fine del XVII secolo).

Ciò che a noi interessa in questa sede è anche fare una riflessione sul denaro non tanto come segno di valore di un bene, ma come rappresentazione del ȁne”, ed a volte del “male”, in rapporto all’uomo.

Abstract

Simonetta Putti – Roberto Cantatrione

Il fascino ambiguo del denaro

Gli Autori presentano alcune riflessioni sul denaro, cogliendone primariamente la valenza ambigua, ben esemplificata dall’esser il denaro divenuto – da mezzo – fine. Il denaro si pone in effetti come oggetto mercuriale e polisemantico sia in una prospettiva storica, sia in una prospettiva psicologica e atemporale. Gli Autori compiono un sommario excursus sul denaro sottolineandone – diacronicamente – la duplicità della natura e dell’utilizzo, ed evidenziando le correlate, e talora opposte, percezioni e credenze. Vengono poi sottolineati alcuni comportamenti denaro–correlati caratterizzati non solo da ambiguità e ambivalenza, ma non di rado anche da autolesionismo. Gli Autori, evidenziando che tali comportamenti contraddittori e talora autodistruttivi sono divenuti man mano più frequenti negli ultimi venti anni del millennio appena decorso, ne rintracciano una radice nel cambiamento della struttura psicologica delle due ultime generazioni oggi osservabili. Cambiamento strutturale che vede frequentemente un arresto a fasi narcisistiche e non consente la strutturazione di un Super Io, nella primaria valenza di istanza morale e normativa. A sua volta, detto cambiamento può essere legato ai mutamenti del ruolo genitoriale, intervenuti dopo la svolta epocale del 1968: spesso, infatti, la generazione che ha vissuto il 1968 – nel timore di configurarsi come autoritaria – ha in gran parte abdicato dal ruolo genitoriale, inteso come trasmissione di valori, norme e divieti. Gli Autori indicano una via possibile e transitabile in un percorso individuale di crescita e maturazione: nella rinuncia alla dimensione di onnipotenza, nel recupero/acquisizione del senso del limite e delle correlate dimensioni di colpa e di responsabilità.