In memoria di Nelo Risi, poeta e cineasta pubblichiamo l’intervista che fa parte del libro Regie dell’inconscio. Da allora è nata una sincera e spontanea amicizia con Lui e la moglie Edith – finissima scrittrice e acuta cineasta – che ci ha portato a incontrarci in diverse amabili occasioni. Sia questo un affettuoso omaggio a un vero Maestro di cinema poetico e al raro poeta cinematografico che è stato.
Amedeo Caruso
Questa conversazione con il dottor Nelo Risi, laureato in medicina e chirurgia dall’Università de iure ma laureato de facto in poesia e cinematografia dalla Vita, si è svolta nel settembre 2007 nella sua casa romana a due passi da piazza di Spagna che divide insieme alla moglie, la scrittrice e cineasta Edith Bruck. Dopo circa un anno è mancato Dino, il fratello più anziano, regista di primo piano del panorama italico e non solo. Anch’egli era laureato in medicina, e, al contrario di Nelo, un po’ la medicina e soprattutto la psichiatria l’aveva esercitata, per fuggirsene lontano correndo verso Il sorpasso, che ha decretato la sua fama mondiale. Neanche l’intercessione di Nelo è servita però a poterlo intervistare, si è sempre defilato. Eppure, come ricordavo a Dino Risi l’ultima volta che l’ho sentito al telefono, i suoi apporti al cinema psicologico – e non soltanto alla grande commedia italiana – come Anima persa o i suoi primi documentari sull’ipnosi e la psichiatria sono di cardinale importanza per questa storia psicoanalitica del Cinema Italiano d’Autore che da alcuni anni sto cucendo insieme con l’aiuto degli stessi protagonisti. Anche questa volta il genius loci protettore della mia intervista con Nelo Risi è Fabio Carpi, che tanto zampino ha messo nel cinema che parla e che si imbeve di psicoanalisi. Nelo Risi ha recentemente pubblicato per Mondadori una completa antologia delle sue poesie scritte in oltre cinquant’anni: Di certe cose (poesie 1953-2005) (maggio 2006), ma io ho portato con me uno strano libretto, un testo teatrale, anzi un’azione scenica di Nelo Risi (tratto da Louis Wolfson), intitolato Lo studente di lingue che mi colpì nel lontano 1978 per il suo sottotitolo: ovvero punto finale a un pianeta infernale e di cui parleremo insieme più tardi. Sono fornito anche dell’edizione del 1972 di Paradiso perduto di Pierre Jean Jouve con l’introduzione e la traduzione di Nelo Risi e sono pronto a battermi – psicologicamente parlando – anche con quest’arma. Nelo Risi ha girato pochi memorabili film: da un libro di Edith Bruck ha tratto la sua opera prima Andremo in città (1966). Tutti hanno visto La vita è bella di Benigni. Nessuno ha visto (non è mai stato distribuito) Il giorno in cui il clown pianse di Jerry Lewis. Io che conosco almeno la trama di quest’ultimo ed ho apprezzato l’altro film, credo che entrambi abbiano un debito di ispirazione nei confronti di questo delicatissimo film di Nelo Risi. Ricordo con commozione la struggente storia della giovane Lenka che vive insieme al fratellino Miscia, un bambino cieco di cinque anni, nei giorni antecedenti alla loro deportazione. La giovane jugoslava vede morire il padre, e, fatta prigioniera, viene condotta insieme al piccolo non vedente nel campo di concentramento. Deve rassegnarsi a cancellare dalla sua vita in poco tempo anche il giovane del quale si è innamorata, che si nasconde in soffitta e per il quale il padre di lei si è sacrificato. Ma nel treno che li conduce al lager, Lenka si inventa un pietoso, prezioso, incredibile e fantasioso paesaggio che descrive al bimbo che vive nel buio, illudendolo teneramente che stanno viaggiando verso un sereno domani in città. Del 1968 è Diario di una schizofrenica di cui parleremo all’inizio dell’intervista. Seguono Ondata di calore (1970) con una superlativa Jean Seberg, un film pieno di connotazioni psicologiche e di riferimenti agli eccessi delle psico-nevrosi. Nel 1971 gira Una stagione all’inferno, una storia che soltanto un vero poeta poteva cogliere cinematograficamente con Terence Stamp nei panni del poeta Rimbaud. Seguono La colonna infame (1973), Idillio (1980), Un amore di donna (1988) e Per odio, per amore (1990). Edith Bruck è insieme a noi (sono sposati da circa cinquant’anni) e ogni tanto fa da controcanto alle parole di Nelo. Non si offenderà se dichiariamo apertamente che siamo dolcemente ammaliati dalla sua presenza e dalla sua bellezza slava, noi che ammiriamo da sempre i suoi libri e il suo film Improvviso.
Amedeo Caruso: Il film che naturalmente interessa subito noi psicoanalisti è Diario di una schizofrenica. Cominciamo da qui?
Nelo Risi: Ho trovato in una libreria francese il libro della Sechehaye e ne ho parlato con Fabio Carpi. Ecco qui il nostro soggetto! gli ho detto. Lui è stato d’accordo e siamo andati a trovarla. Ne abbiamo parlato anche con la casa editrice che lo pubblicava, la Presse Universitaire per concordare i costi. Erano tempi in cui questi film si potevano fare con due lire, in più era un film “quasi” analitico e onestamente non aveva nessuna possibilità di smercio. Invece è andato benissimo. La televisione italiana mi ha dato allora il cinquanta per cento e poi ad un produttore curioso – che adesso, pensi, si occupa di vini – ho strappato l’altro cinquanta per cento, perché aveva delle velleità culturali. A quei tempi il film è costato 110 milioni di lire. Era il 1968. Ho fatto una ricerca per trovare l’attrice giovane nei licei di Parigi. La scelta è caduta su questa fanciulla di una famiglia che abitava alla Gare d’Orsay. Il padre non fece problemi. La madre oppose abbastanza resistenze. Le facemmo due provini e capimmo subito che andava bene. Il film andò a Venezia nel 1968. Il nostro consulente psicoanalitico fu Franco Fornari. Edith partì per Venezia con la madre della giovane artista protagonista. Io non ci andai per protesta.
A.C.: Per quale motivo protestava?
N.R.: … (rimane in silenzio)
Interviene Edith: E Pasolini ti chiamava ogni giorno al telefono per invitarti a ripensarci. E Fornari anche… ti disse: Tu sbagli a non andare perché bisogna difendere i propri figli!
N.R.: (Abbassa gli occhi, poi mi guarda e sommessamente dice) Io, che spesso sbaglio, ho avuto la riprovazione di Fornari, del quale sono poi diventato amico. Non sono andato a Venezia per delle ragioni socio politiche anche un po’ sbagliate, che oggi non avrei più neanche per la testa. A Venezia il pubblico ha delirato. Applausi per dieci minuti. Dopo una settimana sono diventato il candidato italiano all’Oscar.
A.C.: Lo avrebbe meritato…
N.R.: Eh, già. Invece l’Anica e De Laurentis trovarono un inghippo dicendo che era stato proiettato solo a Venezia, e così non poté partecipare perché non era stato staccato neanche un biglietto…
A.C.: Infatti il regolamento degli Oscar prevede ancora oggi che il film debba essere stato distribuito e visto almeno un po’ nelle sale cinematografiche…
N.R.: …così al mio posto fu scelto La ragazza con la pistola di Monicelli che addirittura mi telefonò per scusarsi di essere stato scelto al mio posto!
Aggiunge Edith: Ci volevano trecento milioni, pensi, per far vedere il film negli Stati Uniti, lo stesso film che era costato solo centodieci milioni!
N.R.: Se fossi andato negli USA forse sarebbe cambiata la mia carriera come regista… un po’ come è successo a Tornatore, chissà.
A.C.: Però poteva accaderle anche un capitombolo alla Muccino, che in Italia ha fatto bei film e poi (nonostante abbia avuto un gran successo, soprattutto in America) con La ricerca della felicità ha girato una pellicola secondo me insulsa, obbediente unicamente all’orribile ideale americano del denaro e del successo a tutti i costi. Io, caro Nelo Risi, la preferisco così. Da che è nato il suo interesse per gli aspetti psicologici nel Cinema?
N.R.: Dagli studi di medicina. Non ho mai esercitato. Mi sono sempre occupato di letteratura, scrittura, giornalismo. Mi sono sempre reputato un intellettuale di sinistra indipendente.
A.C.: Lei ha compiuto all’incirca lo stesso percorso di suo fratello…
N.R.: Lui ha fatto tutto! La commedia all’italiana, ha fatto il medico, credo per un anno… Lui dice due, ma non è vero! Dino secondo me vorrebbe essere psichiatra! Dino conosceva Mario Soldati e con la Clara (la moglie) hanno fatto gli assistenti di Soldati entrando nel cinema. Poi è arrivato a Roma, ha conosciuto De Sica ed è esploso letteralmente con Poveri ma belli. Ma il film che gli ha dato rinomanza è stato Il sorpasso. E poi ha fatto oltre sessanta film, televisione… io invece ho fatto in tutto sette, otto film.
A.C.: Mi dice come ha fatto a dividersi equamente tra cinema e poesia?
N.R.: Tra un film e l’altro – anche se io cercavo sempre di fare un film – riuscivo ad ottenere, mi prendevo almeno sei mesi per scrivere, e sono andato avanti così su queste vie parallele. Ormai non scrivo più, non faccio più cinema, non faccio più niente…
A.C.: Come fa a dire questo, se poco fa mi parlava del suo progetto – che ha già trovato un produttore – di una intervista televisiva al poeta Zanzotto?
N.R.: Beh, sì, ha ragione. Si tratta di un piccolo lavoro che vuole coinvolgere Zanzotto, l’unico poeta italiano che potrebbe aspirare al Nobel. Siamo amici e siamo molto diversi, abbiamo due linguaggi opposti: io rivolto al neorealismo ermetizzante e lui al dialetto e al linguaggio. Sì, davvero, Andrea Zanzotto è l’uomo più interessante della poesia italiana dopo Montale. Si tratterà di fare un colloquio tra vecchi che fanno la stessa attività e che si confrontano. Ho trovato un piccolo produttore che sosterrebbe questo incontro per la televisione. Dopo cinque sei anni di silenzio cinematografico, faremo un’ora di questo incontro. Andrea vive a Pieve di Soligo, e non si muove di lì, così andrò io a intervistarlo.
(Durante l’anno intercorso il progetto si è concretizzato. Il film-intervista si intitola: “Due poeti, due voci” ed è stato presentato in agosto al Festival di Locarno 2008 nella sezione Ici & Ailleurs).
A.C.: Nella sua introduzione alla traduzione del Paradiso Perduto di Jouve (a cui dedica se non sbaglio la poesia La visita, che dice negli ultimi versi: in Parigi sentita come donna / nell’erotismo ammantato della grazia / di una passione estetica / che mai non sazia l’occhio / ho riconosciuto l’erede di Baudelaire), lei esprime un concetto affascinante e davvero gratificante per noi psicoanalisti: …Chi fa da guida nel Giardino non è Virgilio o Beatrice ma un mentore invisibile, Freud. E ancora: oggi noi saremmo portati a dire che Eva mangia il frutto proprio perché proibito attribuendole un singolare arricchimento dell’inconscio. Insomma possiamo dire che la frequentazione artistica e poi l’amicizia con Franco Fornari e l’incontro con la Sechehaye l’abbiano arricchita di una particolare sensibilità a Psiche…
N.R.: Vero, lasci che le racconti qualche retroscena sempre relativo al Diario di una schizofrenica. Morta la Sechehaye, passati dieci anni, scaduti i diritti, trovati quattro soldi, tornato a Parigi ho dovuto riconvincere la Presse Universitaire a rivendermi i diritti e insomma ho dovuto pagare due volte!
A.C.: Con questo film ha reso un grande tributo al libro di questa psicoanalista e poi per la verità ha reso un memorabile omaggio alla psicoanalisi tutta. In fondo è un caso raro di schizofrenia che si avvia alla guarigione…
N.R.: Mah, la guarigione la scriverei con un punto interrogativo. La storia l’abbiamo lasciata in sospeso quando c’era ancora la Sechehaye. La fanciulla ritorna a casa, ma non è ancora guarita dopo il tentato suicidio, anche se sta meglio.
Edith scoppia in una risata e dice: Era la madre che bisognava guarire!
A.C.: Anche ne Lo studente di lingue c’è una madre da guarire… e una schizofrenia da capire e curare…
N.R.: Ah sì, è bello quel testo, mi dispiace non averlo portato a teatro né al cinema…
Soggiunge Edith, severa: Non ti sei neanche troppo impegnato a farlo, vero? …e lui dondola su e giù la testa lentamente annuendo
A.C.: Nella sua introduzione a questo adattamento dal testo originale di Louis Wolfson lei scrive “Lo studente di lingue” non ha nessuna difficoltà a dichiararsi schizofrenico, anzi, fa ricorso a una quantità di sinonimi per meglio definirsi: psicotico-spastico, arcifolle, epilettico sensoriale, demente, alienato, antieroe dal cervello ecolalico… quasi alla ricerca di un’identità che gli dia una pur minima sicurezza, anche se nella denigrazione.
N.R.: Sì, Wolfson ha scritto questo folle libro e la tesi è: un figlio la cui madre non lo ama o lo ama in un modo diverso, e lui rifiuta l’amore della madre, e rifiuta la lingua inglese e allora si esprime in francese. Lo studente si è costruito un sistema per difendere il proprio io, attraverso una parcellizzazione della parola e del cibo, che trovano la loro corrispondenza nell’annullamento totale. Le idee deliranti si spostano dall’asse familiare per investire l’intero creato con una rappresentazione di una catastrofe liberatoria. Una vera catarsi paranoica a chiusura di un cerchio fatto di divieti.
A.C.: Io credo che questa sua opera teatrale sia tristemente profetica per bocca dello scrittore che si autodefinisce un seminvalido malato di mente dall’età di quattro anni. Le cito queste parole che sembrano preannunciare così, in incredibile anticipo, ma dettagliatamente, il tragico evento dell’undici settembre 2001 a New York: …un Kamikaze collettivo, una massada planetaria, una perfetta sottomissione islamica, un lampo colossale, un solo grande glorioso istante e la fine della missione dell’uomo in terra è garantita. Si parte per un bel viaggio intergalattico attraverso i cieli estremamente salutare in cerca di qualche piccolo asteroide pacifico ove approdare verso altri soli e altre orbite solari verso altre patrie di creature puramente spirituali… mai più le ingiuste dicotomie arbitrarie tra i vivi e i morti, tutti i morti tutti uguali tutti buoni socialisti buoni comunisti buoni democratici buoni crociati buoni repubblicani buoni sionisti buoni islamizzati… tutti beati… realizzati nella vera rivoluzione mondiale, lontano dai politici e dagli elettori e dai leccaculi dei loro cadaveri!
N.R.: Adesso che mi ci fa pensare, che lo ascolto riletto da lei, non posso che essere d’accordo. È stupefacente!
A.C.: Ma la cosa più straordinaria di questo testo è il suo intuito di scrittore che conferma la veggenza dei poeti. Ecco perché non poteva essere che lei a girare un film su Rimbaud. In questo breve e, ripeto profetico testo, lei è impietoso anche con la psicoanalisi. Fa dire, infatti, allo “Studente di lingue”: Sul divano? Io con gli esperti ho chiuso, chiuso con i nuovi esorcisti del male in vena di cure, chiuso con i servitori dello stato repressivo, chiuso con i falsi profeti, con i burocrati istituzionali della medicina impiegatizia a tempo pieno. Paziente, cura te stesso.
N.R.: È quello che ho scritto intorno agli anni ’72-75. Erano tempi di ribellione verso un potere psichiatrico repressivo della fine degli anni ’60, e in fondo il testo rispecchia quanto predicava lo “Studente di lingue” nella sua ricerca disperata di una autocura, anche linguistica.
A.C.: Ho trovato una sua poesia intitolata Il teatro privato sempre degli anni ’70 che è dedicata alla psicoanalisi con una certa vena critica. Eccola: La psicoanalisi è un’indagine borghese / Un processo simbolico tanto rispettabile / (conta il denaro la cura interminabile) / Fughe e censure son piaceri da Narciso / Un murarsi dentro la scena familiare / Che l’uomo di fabbrica l’uomo della terra / neanche sospettano – per i subalterni / vale ancora la vecchia coscienza. È ancora di questo parere?
N.R.: Mi vergogno, perché non c’era bisogno di scrivere una poesia così facile. L’ho inserita nella raccolta perché volevo includere tutto. Ho avuto dei reflussi in questo campo, ma non è una poesia che rappresenti il mio punto di vista sulla psicoanalisi. Anzi, posso dire tranquillamente che sono sempre stato freudiano.
A.C.: Io salverei la sua poesia perché porta con sé una ventata sessantottina, e visto che quest’anno si celebra il quarantennale del ’68 mi piacerebbe considerarla come un segno poetico dei tempi dell’immaginazione al potere. Quando ha ammesso di sentirsi freudiano mi sono ricordato delle citazioni che lei inserisce alla fine del film Diario di una schizofrenica e che sono proprio di Freud. Quando ho visto il film per la prima volta, ero uno studente di medicina e ricordo che la sua opera è stata la prima vera strada che mi ha convogliato verso la psicoanalisi. All’uscita dal cinema ho percepito nettamente questa ispirazione e questa aspirazione, come dopo un incontro con un guru inatteso. Sì, devo ringraziarla per questo film che per me ha avuto un ruolo formativo ed incoraggiante nel mio futuro professionale e che si è iscritto quasi nel mio codice dell’anima con un messaggio: Ecco un esempio di cosa può fare un’altra medicina. Come sono nati i suoi interessi freudiani?
N.R.: Accadde che al Primo Congresso Europeo di Psicoanalisi Freudiana svoltosi a Trieste – era il ’68 – io ho portato la mia schizofrenica ed erano tutti entusiasti. C’era anche Musatti, che ribadì di essere stato sempre contrario a questa rappresentazione filmica tratta dal libro della Sechehaye, però sornione esclamò: Vediamo che cosa ha fatto l’autore! e alla fine della visione ha preso la parola per primo esclamando: Mi devo ricredere e riconosco che Risi ha vinto la sua partita!
A.C.: Ha conosciuto lo psicoanalista junghiano degli artisti per eccellenza Ernst Bernhard?
N.R.: So di chi parla ma no, non l’ho conosciuto. Lo frequentavano Fellini e De Seta. Però ho fatto una trasmissione televisiva a più puntate intitolata I buchi neri dell’inconscio nel 1979 dove intervistavo anche molti importanti psicoanalisti contemporanei.
A.C.: Tornando alla sua filmografia con influenze psicoanalitiche, mi piacerebbe che mi parlasse un po’ di Ondata di calore, il film con Jean Seberg.
N.R.: Ah sì, capisco che questo film può interessarle per i suoi risvolti psicologici e psichiatrici. L’azione si svolge ad Agadir, la città marocchina distrutta dal terremoto del 1961. La protagonista è Joyce, una bella donna americana interpretata dalla Seberg, sposata a un ingegnere tedesco che lavora alla ricostruzione della città. La donna è infelice, vive in questo residence lussuoso, oppressa dal caldo afoso portato da una forte tempesta di sabbia. È ossessionata dalle apparizioni di Alì, un maschio indigeno, probabile amante del marito. La Seberg è stata bravissima nel rappresentare le crisi di angoscia e di disperazione del suo personaggio. A un certo punto il marito non si vede più, dopo che abbiamo capito il suo atteggiamento paternalistico e superficiale nei confronti della moglie. Joyce è disperata e tenta di suicidarsi. Ma un amico medico giunge in tempo a salvarla. È ricoverata in clinica dove però le tornano i suoi fantasmi e le sue ansie. Fuggita dalla casa di cura vuole nascondersi a casa dove troverà la sorpresa: la polizia ha scoperto il cadavere del marito ucciso proprio dalla donna il giorno precedente.
A.C.: Certo c’è abbastanza materiale per uno studio approfondito sugli effetti dell’abbandono sentimentale. Questo film, che alcuni hanno considerato come un giallo, risente secondo me anche di echi suscitati dalla filmografia di Antonioni. Anzi, visto che il film è precedente a Professione: reporter, non mi stupirei che il regista ferrarese abbia carpito qualche idea per il suo film: l’Africa, la crisi d’identità, il calore. Se non sbaglio anche Edith Bruck ha girato il film Improvviso proprio su un caso di follia preso dalla cronaca…
Edith annuisce e si mostra contenta che io conosca il suo film.
Più volte, durante questo lungo pomeriggio ospitale a casa Risi, Nelo mi ha ripetuto Adesso basta, non ho proprio più nulla da dirle oppure chiudiamo qui e invece ha continuato a raccontarmi con affabilità e simpatia delle sue conversazioni con Einaudi, che gli chiedeva di tradurre ancora Kavafis del quale aveva già tradotto settantacinque poesie, per le quali aveva impiegato dodici anni insieme a Margherita Dalmati. Ma Einaudi non era differente dagli altri editori e dunque pagava poco e male. Le lettere non danno pane. E anche Nelo Risi ha ribadito che i poeti non rendono finché sono in vita. Mi ha ancora detto, recitandomi Rilke: Oh ma con i versi si fa ben poco quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti (che si hanno già presto), sono esperienze…
Prima che Roberto Faenza realizzasse il film Prendimi l’anima tratto da Diario di una segreta simmetria di Aldo Carotenuto, Nelo Risi aveva scritto un adattamento cinematografico dello stesso libro ma il progetto fallì per mancanza di fondi. Ricordo bene che Aldo Carotenuto mi chiese in quel periodo informazioni su Nelo Risi, sapendo della mia passione cinematografica. Il mio modesto parere fu che non ci sarebbe stato migliore regista dell’autore del Diario della schizofrenica. Peccato che l’opera di Aldo Carotenuto non sia stata portata sullo schermo da Nelo Risi. Se penso che Risi ha raccontato di essersi presentato alla Commissione Ministeriale per ottenere i fondi dell’intervista con Zanzotto come uno studente agli esami …e mi hanno promosso! sento il dovere di sottolineare l’integrità morale ed etica di questo regista che non si vergogna di ironizzare sull’intervista televisiva con l’altro poeta amico come di Un progetto su due morituri e che non si classifica tra i poeti che resteranno… perché ce ne sono uno o due per ogni secolo…”. E confessa di non voler più scrivere una parola. Così ha scritto sull’ultimo libro: un nuovo dizionario ci vorrebbe per comprendere la morte come nuovo elemento di vita.
(settembre 2007)