My Background

di Alessandro Fea, regia di Marcello Cotugno – Colosseo Nuovo Teatro di Roma, 13 – 22 febbraio 2009.

Alessandro Fea nelle Note a presentazione dello spettacolo scrive: E’ la storia di un ragazzo che cerca qualcosa, forse se stesso, forse la sua vita, forse una risposta a qualcosa che gli è oscuro…è la storia di alcune anime, perse, vissute, logorate…unite forse da qualcosa di invisibile…

Marcello Cotugno nelle Note di regia scrive: …. in un’atmosfera da circo infernale i personaggi cercheranno di affrancarsi da un condizione di stallo in cui la vita li ha portati. Desiderosi della comunicazione, quella finale, quella in cui la pace ristabilisce i suoi confini nella vita e nella morte.

Fea, classe 1969, e Cotugno, classe 1965, si sono efficacemente integrati nello scrivere e portare in scena la storia che parte come manifesto generazionale, muta via via in oscuro thriller, e diviene poi una sorta di rappresentazione misterica dei non troppo lontani anni “80.

Gli anni “80 vedevano la caduta degli ideali: la fine del 68 e del 77 aveva generato il nichilismo, l’autodistruzione, l’eroina; per molti quella realtà andava sfuggita, elusa, negata nella ricerca di uno stordimento anche autodistruttivo.

My Background illustra la scena storica caratterizzata dal fenomeno punk e dark, ma può – nel contempo – dare un messaggio rassicurante: la consapevolezza che si può vivere una fase di distacco dalla realtà, e poi recuperarla nella memoria e nella riflessione, trasformandola in prodotto artistico e quindi in dia-logo.

Così quel background cessa di essere soltanto la fotografia di chi ha vissuto la propria giovinezza negli anni “80 per diventare efficace rappresentazione dei rapporti relazionali e del sartriano inferno senza tempo che si costituisce laddove si perde la comunicazione.

L’inserzione

di Natalia Ginzburg, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Politeama Brancaccio, Sala “ IL BRANCACCINO”Via Mecenate, 2 – 00185 Roma è in scena dal 13 febbraio al 4 marzo 2007 “L’INSERZIONE”di Natalia Ginzburg.

La commedia – scritta dalla Ginzburg nel 1968 – è portata in scena per la regia di Marcello Cotugno, che – con buona e tempistica intuizione – recupera e attualizza un testo fondamentalmente centrato sul tema della Comunicazione.

L’Inserzione è – nella definizione del Dizionario Palazzi – “l’atto dell’inserire”, “l’annunzio a pagamento in un giornale”, “l’avviso pubblicitario”.

Un testo, dunque…poche parole scritte da un soggetto che emette un messaggio indirizzandolo a riceventi noti e/o ignoti…in vista di poter avere una relazione…

Emittente, ricevente, messaggio, relazione…il pensiero torna al tema della Comunicazione e, quasi inevitabilmente, a P. Watzlawick.

La scuola di Palo Alto (G. Bateson, P. Watzlawick, etc.) ha posto l’attenzione sul carattere interlocutorio, contrattuale e pragmatico della comunicazione. (Watzlawich P., 1967)

Si sviluppa una ottica relazionale della Comunicazione, nella quale i rapporti tra i singoli elementi costituenti contano più degli elementi stessi.

La comunicazione è innanzi tutto dialogo; l’attenzione viene focalizzata sul rapporto trasmettitore–ricevitore in quanto mediato dalla comunicazione; la comunicazione è considerata anche come “azione”, modificazione dei comportamenti; “una comunicazione non soltanto trasmette informazione, ma al tempo stesso impone un comportamento” in quanto comprende l’aspetto di “notizia” (report) e l’aspetto di “comando” (command) relativo alla relazione tra i comunicanti.

Filtrare il testo della Ginzburg attraverso questa ottica, configura un godibile esercizio di comprensione oltre le righe del detto.

“L’inserzione”, come gran parte dei lavori della Ginzburg, s’incentra sul mondo femminile, nel confronto-scontro con quello maschile, sempre osservato con acume ed ironia. Ne “L’inserzione” le storie di un’amicizia fra due donne, di un amore finito e di uno appena cominciato, mettono in campo personaggi che rappresentano diverse modalità comunicative.

Vediamo cercarsi un dialogo che a volte appare concretizzarsi, talaltra si configura come impossibile, divenendo puro sfogo monologante dell’uno a fronte dell’altro che tale sfogo può soltanto subire.

Ma la comunicazione è comportamento… e induce comportamenti….il personaggio che a tratti ci appare passivizzato poi agisce, comunica la propria azione, genera una controreazione….

I tre personaggi, interpretati con brillante incisività da Cloris Brosca, Paolo De Vita e Bianca Nappi tengono ben viva l’attenzione dello spettatore, pur nella voluta normalità di una scena quotidianamente ordinaria.

Un interno quotidiano nel quale, a tratti – grazie anche agli efficaci e lancinanti effetti di luce – pare potersi cogliere l’inferno di una realtà incomunicabile.

L’essenziale e efficace regia di Marcello Cotugno consente agli attori una precisione quasi pittorica, confermata dal plauso – anche a scena aperta – del numeroso pubblico presente.

Uscendo – gratificati dal teatro – ci si pone una domanda. “ e se la Ginzburg avesse conosciuto WatzlawicK?”

Looking at you (Revived) again

di Gregory Motton, regia Marcello Cotugno

Al Teatro Belli di Roma è in corso – dal 22 marzo e sino al 30 aprile – la rassegna “TREND, nuove frontiere della scena britannica”, a cura di Rodolfo di Giammarco.

La rassegna 2006 persegue il disegno europeo di una libera circolazione di scritture, stili, temi e nuove prospettive teatrali che da Oltremanica vengono a proporci continui spunti che talora ribaltano il noto.

Il testo di Gregory Motton (tradotto da Letizia Russo e portato in scena per la regia di Marcello Cotugno), ben rappresenta il progetto iniziale, arricchito da talune “contaminazioni”.

Ovvero, il materiale originale è stato calato in una realtà italiana, anzi in quel particolare spaccato di cultura costituito dalla realtà partenopea.

Assistiamo così alla godibile osmosi tra una drammaturgia britannica sempre incline a trarre spunto dalla quotidianità che muta e che alimenta sogni disperati e clamorose disillusioni e una sensibilità tipicamente “napoletana”.

Un uomo si dibatte tra un passato coniugale sconsolante (otto figli portati via dalla pubblica assistenza) ed un presente costituito dall’incontro con una giovane “barbona”.

I tre personaggi, interpretati con incisiva schiettezza da Alessia Giuliani, Alfonso Postiglione e Gaia Insenga, tengono ben desta l’attenzione dello spettatore, pur nella cercata monotonia di una scena totalmente grigia.

La vita dei “senzatetto” si dipana in scene rapide, che con efficacia danno il senso ed il polso di una non – vita intrisa di ricordi, aspettative, perdoni possibili, commiati auspicabili. c’è il passato,il presente. non è dato sapere cosa sarà il domani.

Una configurazione di elementi scenici e testuali che potrebbero risultare deprimenti e depressogeni.e che mai tali divengono anche grazie alla vigorosa regia di Marcello Cotugno.

Il grigiore del contesto è a tratti magicamente interrotto e quasi squarciato dall’irrompere di una colonna sonora magistralmente scelta: brani forti, vitali, fortemente emotivi.

C’è – in scena – una carriola grigia, piena di carbone, a testimoniare un passato e perduto lavoro in miniera. ma anche a porsi come metafora e lettura.

Nel grigio/nero del carbone si nasconde una energia potenziale, una fiamma possibile.

Lo spettatore coglie – nella visione e nell’ascolto – la pregnanza di quella energia forte,vitale, sottesa al grigio: forse, anche in quel / questo mondo, possiamo dare spazio al fuoco che rinnova..?..

Certamente lo spettacolo mobilita energia. lo testimonia – al termine – il reiterato batter di mano che più e più volte richiama i protagonisti sul palcoscenico

La forma delle cose

di Neil LaBute, traduzione di Masolino d’Amico, con Lorenzo Lavia Federica Di Martino, Fulvio Pepe Ilaria Falini; scene Carmelo Giammello, costumi Andrea Viotti, luci Marco Catalucci. Regia Marcello Cotugno

La forma delle cose (The Shape of Things), novità per l’Italia, ha debuttato mercoledì 9 novembre al Piccolo Eliseo Teatro Studio. La commedia, che ha registrato per mesi il tutto esaurito a Londra, è il secondo testo rappresentato in Italia di Neil LaBute, drammaturgo, regista e autore cinematografico, classe 1963. Mormone, considerato da molti giornalisti americani e inglesi il nuovo David Mamet.

Lo spettacolo prodotto dal Teatro Eliseo e dalla Compagnia Lavia con Asti Teatro, è un’operazione condotta nel segno del nuovo. Nuovo l’autore, almeno per le scene italiane, Neil LaBute; non nuovo il regista, Marcello Cotugno, che affronta per la seconda volta un testo dell’autore americano.

La vicenda ha inizio in un museo, dove una ragazza sta ferma con una bomboletta spray davanti ad una statua di uomo nudo. Il sopraggiungere del vigilante scatena una discussione fra i due che si conclude con un invito a cena da parte di lui.

Lei, Evelyn, e lui, Adam – richiamo non casuale alla coppia ancestrale Adamo ed Eva, emblema del libero arbitrio e della trasgressione – ribaltano il mito greco di Pigmalione, lo scultore che si innamora della statua perfetta da lui realizzata.

Una commedia divertente, ma anche una spietata riflessione sulle dinamiche sentimentali delle nuove generazioni, sulla loro solitudine, sui meccanismi della persuasione, uno sguardo inquieto sul mondo nuovo che verrà..

Un allestimento supportato da una scenografia avanguardistica ispirata ai lavori dell’arte moderna più trasgressiva, da Damien Hirst a Tracey Emin, a Mona Hatoum, dove il segno scenico è parte integrante della storia che si svolge in palcoscenico. Una commedia con musiche di tendenza per un pubblico giovane, da Deni Siciliano a Michael Jackson, da David Kitt che rifà Prince a Erlend Oye che remixa i Kings of Convenience, con qualche incursione nella No Wave degli anni ’80 di James White, la cui musica è stata paragonata al movimento pittorico del cubismo, per finire a Mu la nuova cantante performer giapponese. Una commedia con un finale che racchiude in sé uno degli aforismi preferiti dall’autore: atrocity is the new black.

Una commedia che è già cult con finale inimmaginabile, da non svelare.

Falene

di Andrej Longo, regia di Marcello Cotugno

“FALENE”, di Andrei Longo, ha debuttato nel 2004 a Napoli ed è recentemente andato in scena al Teatro Colosseo di Roma.

I protagonisti – Paolo Sassanelli e Totò Onnis – danno voce e gesti a due quarantenni baresi, amici per la pelle.

Nello spazio di un vicolo, si svolge il dialogo notturno dei due amici, in attesa del “colpo grosso” che dovrà mutare radicalmente la loro esistenza; nel tempo stringato dell’atto unico il dialogo / vaniloquio rende con efficacia la realtà di un sodalizio (tipico del nostro meridione) che diviene non di rado “patto di sangue”.

L’appuntamento con una vita nuova che riscatti entrambi da una esistenza fallimentare e vuota, diviene poi appuntamento con la morte.

I toni grigio – neri prevalgono sulla scena, tagliati a volte da improvvisi ed efficaci lampi di luce…la colonna sonora sottolinea magistralmente l’evolversi – comico e tragico insieme – del “fatto”.

Il regista Marcello Cotugno riesce a conferire all’atto unico la non facile caratterizzazione di commedia che evolve in dramma, magnetizzando l’attenzione dello spettatore, senza soluzione di continuità.

Uno spettacolo del quale ci auguriamo la replica.

Un pensiero per Olga

di Andrej Longo, 2004

Un pensiero per Olga” di Andrej Longo, per la regia di Marcello Cotugno, ha debuttato il 25 marzo 2004 al Teatro dei Contrari di Roma.

Lo spettacolo rappresenta – a parere di chi scrive – una riuscita prova di riduzione all’essenziale.

L’ambiente è una stanza, nera, nella quale poco più di venti spettatori siedono a breve distanza dalla scena.

Il cast è costituito da due soli attori, un uomo e una donna…Mimmo La Rana e Lucy Catalano.

La scenografia vede pochi elementi chiari (un tavolo, due seggiole, una porta) sapientemente messi in risalto dalle luci di Raffaella Vitiello.

La storia è semplice: la storia di un amore finito da tre anni, del dolore di lei nel comprendere che null’altro può fare se non rassegnarsi a quella fine, e dell’imbarazzo di lui nel trovarsi davanti la donna che un tempo ha così tanto amato.

Anche il dialogo è tessuto di parole semplici: quelle che possono scambiarsi un uomo e una donna che hanno condiviso l’intimità, e l’intensità, di un rapporto. Parole a volte quotidiane e banali, a volte pesanti come pietre.

Il senso sembra tutto racchiuso in una battuta:

“.. non posso dimenticare i ricordi, ma non posso passare la vita a ricordare..”

La scena finale esplicita, senza parole, la stessa essenzialità.

Lo spettatore realizza, nella ineludibile emozione che lo afferra, la radicale verità di una storia semplice che è anche la propria.

La verità di tutti quelli che – per continuare a vivere – son dovuti andare oltre il dolore.

La regia di Marcello Cotugno riesce a combinare i pochi elementi sopra detti in una riuscita prova di efficacia, ricreando sulla scena l’intimità del vissuto.

Il tema della vita e della morte costituisce un filo conduttore visibile nella scelta dei testi via via operata da Cotugno.

In “Anatomia della morte di…” vedevamo la morte arrivare a dare, forse, un senso – in quanto scelta – ad una vita che ne appare priva.

In “Bash” si parlava di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove – soltanto a fatica – potevamo cercare di rintracciare significati che non fossero la sola espressione di un vuoto di valori.

In “Un pensiero per Olga”, vediamo la vita che deve confrontarsi con la morte e accoglierla necessariamente, per poter continuare a vivere.

La perdita e lo svuotamento come elementi precursori della rinascita.

Bash…

di Neil LaBute, Regia di Marcello Cotugno, Con Alessia Giuliani, Paolo Sassanelli, Violante Placido, Fulvio Pepe

“Bash” è un termine dal doppio significato: “pestaggio” e “festa”.

Nella commedia, la doppia valenza espressa dal titolo diventa emblematica di una esistenza nella quale gli elementi mortiferi sembrano confondersi con quelli più quotidiani e banali.

La commedia, rappresentata per la prima volta nel 1999 a New York, Off Broadway, al Douglas Fairbanks Theatre, è arrivata recentemente in Italia grazie alla regia di Marcello Cotugno.

La scelta del regista appare tempestivamente centrata rispetto agli accadimenti che viviamo o che, per meglio dire, conosciamo attraverso le pagine di una cronaca che ben può definirsi nera.

Una cronaca che sempre più spesso ci racconta di “morti inutili”, prive di ogni senso comune, dove, soltanto a fatica, possiamo cercare di rintracciare significati che non siano la sola espressione di un vuoto di valori.

Basta soltanto accennare ai tragicamente insensati lanci di sassi dai cavalcavia, o ai fatti di Novi Ligure, ai due adolescenti che progettano ed attuano un omicidio come in una sorta di macabro gioco, o all’attuale ineffabile infanticidio di Cogne, per cogliere quanto spesso la morte, persa ogni sacralità, divenga fatto slegato da ogni umana logica e quindi in-accettabile.

In “Bash”, come lo stesso autore suggerisce, il “new black” si configura nella atrocità di morti che, proprio in quanto in-utili, lasciano nello spettatore un senso di inaccettabilità.

Il testo di LaBute si divide in tre atti unici.

Nel primo assistiamo alla confessione/monologo di una giovane donna che, violentata e resa madre a tredici anni dal professore di inglese, trascorre in una apparente quieta accettazione il tradimento e l’abbandono dell’uomo.

Dopo quattordici anni, avendolo cercato e incontrato, uccide il figlio nato da quel lontano rapporto in una sorta di dilazionata e esterefatta vendetta trasversale.

Nel secondo, un uomo sui trentacinque anni racconta ad uno sconosciuto, nel bar di un motel, la morte della propria figlia di pochi mesi. Una morte, se non proprio cercata, lasciata avvenire: nello sragionante pensiero dell’uomo questo elemento avrebbe potuto tornargli utile, aiutandolo ad evitare un licenziamento per la pietà che da quella perdita gli sarebbe derivata.

Nel terzo, una coppia di giovani fidanzati racconta al pubblico, in una sorta di alternato monologo, l’eccitante trasferta, compiuta insieme agli amici, per recarsi ad una festa a New York. Attraverso la frivola e compiaciuta descrizione degli abiti, nella vuotezza dei clichès mentali tipici degli adolescenti non solo americani, si perviene

Al racconto dell’omicidio di un omosessuale. E’ il protagonista maschile a compierlo, aiutato dagli amici, in una delirante azione punitiva in un bagno di Central Park.

Il linguaggio che unifica, pur nella diversità dei ruoli, lo stile comunicativo dei protagonisti è frammentato e frammentario, così come la sequenza delle azioni, che sembra sfuggire ad ogni prevedibilità razionale.

In “Bash” l’assurdo si mescola alla quotidianità, e ne viene tragicamente riassorbito in una progressiva perdita di senso.

Ne emerge un quadro desolato e desolante, non lontano dai modi e dai mondi di quella cronaca nera alla quale facevamo cenno.

La regia di Marcello Cotugno sa cogliere ed evidenziare anche le analogie tra questo contesto attuale e l’universo delle tragedie greche: in entrambi i mondi scorre il filo della morte, la violenza gratuita, la soppressione dell’Altro come gesto apparentemente liberatorio.

I sostanziali ed elementari valori umani sembrano perdersi in una corsa verso il nulla che, paradossalmente, crea nello spettatore una rinnovata ricerca di senso.

Anatomia della morte di…

di Marcello Cotugno, 1999

“Un grande schermo collegato al computer permetterà al pubblico di vedere in tempo reale tutti i movimenti di ‘mouse’ e tastiera che gli attori effettueranno su di esso, inclusi i collegamenti ad internet. Sarà quindi attivata una linea telefonica, dedicata, preferibilmente veloce.” Con queste righe – scarne ed efficaci – inizia il prologo del pezzo teatrale. Parole che già implicitamente sembrano adombrare la scenografia: oggetti in grigio, in bianco/nero…i colori prevalenti nell’hardware. Parole che descrivono una realtà multimediale ormai immessa nella quotidianità: Daniele è il protagonista, ma può esserlo anche il computer, entrambi immersi nella Rete delle reti. Daniele e la sua comunicazione mancata, Internet come amplificatore di comunicazione. Un pezzo teatrale di radicale attualità, che mette a nudo le contraddizioni di una società che ha saputo globalizzare gli scambi, ma che solo raramente ritrova la possibilità di una relazione pienamente umana.

Lo spettacolo è visibile in Internet, su Kataweb/teatro oppure su videocassetta.

Cuore e Ambiente di Claudia Bettiol

(e-book reperibile all’indirizzo http://www.sergioferraris.it )

Un libro che – nelle intenzioni dell’Autrice – può dirsi di ecologia ma ci appare in primo luogo come esempio di “comunicazione” . Il testo è stato messo in rete e questo aspetto già gli conferisce un tratto di radicale attualità: pensiamo a D. De Kerckhove, all’attuarsi della cosiddetta “ mente connettiva” che consente opportunità prima impensabili nel confronto delle idee e delle informazioni, suscitando una sorta di “brain storming” a livello potenzialmente globale, che altresì ci riporta alla intelligenza collettiva auspicata da P. Levy.

Per quanto attiene il contenuto, comunicazione di realtà diverse e interconnesse, di uno spazio / tempo che si relativizza e si caratterizza nelle culture di appartenenza, mostrando quanto le problematiche ambientali e le soluzioni approntate, le emergenze e le reazioni alle crisi – al di là delle condizioni materiali e strutturali – si rapportino all’immaginazione dei suoi ideatori, parlino delle aspirazioni sociali e ne rivelino la visione del mondo.

Lo scritto si configura come opera complessa ma mai complicata, risultando anzi di agevole e piacevole lettura tanto per gli addetti a lavori quanto per chi si interessa da diversi approcci alla “ecologia della vita”.

Ci sembra infatti che l’oggetto di questa opera non sia (o non sia soltanto) una dotta ricerca sulle condizioni di un pianeta che va sempre più antropizzandosi e degradandosi, ma la passione per la Vita, intesa come chiave privilegiata per guardare il mondo e interpretarne la stratificata realtà.

Troviamo nel volume, oltre che puntuali e rigorosi rifermenti tecnici, ricchi rimandi che spaziano dall’antropologia alla storia e alla filosofia, dalla sociologia alla politica, dalla pedagogia alla psicologia e alle scienze dello Spirito. Materiali diversi, dunque, in una com-presenza che mai diviene e/ o genera con-fusione, ma che piuttosto si stratificano in una armonia complessa e generatrice di senso.

Il senso dell’equilibrio e dell’integrazione.

Equilibrio che si pone al contempo come spinta sovvertitrice e meta ideale: non più l’equilibrio statico derivante da una cartesiana visione della realtà ma un equilibrio in continua mutazione come meta progettuale del rapporto Uomo / Ambiente.

Gioco e rischio delle parti in gioco: fattori soggettivi ed oggettivi, microcosmo e macrocosmo vengono dall’Autrice utilizzati e richiamati nel progetto di una Armonia dinamica che consenta uno sviluppo sostenibile, sorretto da una nitida etica della Responsabilità.Occorre- per approssimarsi a questa meta – conciliare parti contrapposte, superare opposizioni apparentemente irriducibili, continuamente negoziando e rifacendosi alla forza delle passioni ed alla luce della ragione.

Al di là della vecchia logica basata sull’AUT AUT, qui si postula una filosofia di base improntata all’ET ET, alla possibilità di far ricorso a pensiero ed emozione, sensazione e intuizione, in una ottica che dia spazio e ascolto alle diverse voci.

Ernst Bernhard – Lettere a Dora dal campo di internamento di Ferramonti (1940-41)

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Come analista, la mia attenzione è volta all’ascolto del mondo interiore ma – memore anche del richiamo junghiano all’importanza dello Zeitgeist – costantemente osservo anche il contesto ed il Mondo.

Di fronte al portato del paziente mi pongo, e pongo, una domanda: perché proprio adesso?

Ho imparato nel tempo l’utilità di inscrivere ogni fatto nella dimensione temporale e nella cronaca, nonché nella storia.

Così, oggi – davanti all’epistolario Lettere a Dora che mi è stato chiesto di recensire – mi pongo la stessa domanda: perché proprio adesso?

Il corposo volume che riporta le lettere di E. B. a Dora, e le risposte di lei, durante il periodo di internamento nel campo di Ferramonti, assume allora anche un potenziale valore attuale.

In estrema sintesi, lo scambio di missive che costituisce il libro è la storia di una sopravvivenza psicologica e spirituale a condizioni di estremo disagio e dolore.

Nel tempo attuale, in cui per molti paesi dell’area mediterranea lo spread costituisce il filo spinato che limita le possibilità di movimento ed i signori delle agenzie di rating sembrano diventati i nuovi kapò, assistiamo ad una crisi non solo finanziaria ma anche dei valori che sottostanno alla società ed all’etica; ne consegue una generalizzata perdita di fiducia nel presente ed una disperazione del futuro, sino ai casi estremi di suicidi almeno apparentemente indotti da motivazioni economiche.

In questo contesto, l’Epistolario può porsi anche come memento e monito, passare il messaggio forte che sopravvivere ed anzi vivere si può, anche in condizioni difficili e/o estreme, perché come scrive E. B. abbiamo un solo nemico: la depressione ed il dubbio, la mancanza di fede in proprio destino.(vedi lettera di Ernst a Dora, 13.VII.40/XVIII).

Il lettore potrà trarne spunti per procedere nelle contingenze attuali, in cui da più parti si configura lo spettro di una perdita di fiducia, e sembra smarrita la dimensione di un futuro progettabile; nonché spunti per reagire al quadro depressogeno spesso amplificato dai massmedia, recuperando e/o inaugurando atteggiamenti proattivi. E qui è forse utile ricordare che E. Bernhard – nell’intento di schiudere l’enigma dell’anima italiana – si è soffermato sulla Grande Madre mediterranea, come premessa archetipica atta a dar conto di tipiche modalità psicologiche, esistenziali e comportamentali influenzate, in non piccola parte, dal complesso materno.

Nella prospettiva di una lettura attuale, è allora probabilmente utile ricordare anche che per E. B. l’uomo può recuperare dall’Ombra la propria specificità e la propria forza. Al di là della terminologia prettamente junghiana, all’individuo è data la possibilità di conoscere il proprio lato cosiddetto negativo, le debolezze e i difetti, anche l’anormale, l’insolito, il mostruoso e – accettando e reintegrando tali aspetti – diventare consapevole della propria costituzione individuale irripetibile.

Consapevolezza che si pone anche come energia, forza di vivere, e di sopravvivere pur in condizioni estreme ed in contesti oppressivi.

Questo è solo uno spunto attuale reperibile nel libro, che ha, peraltro, radici lontane e molteplici motivazioni.

Nella accurata e articolata introduzione, Luciana Marinangeli, ben evidenzia quali fili l’abbiano condotta a volere ed a curare la pubblicazione dell’epistolario.

Tra questi, cito in primis la riconoscenza a Ernst Bernhard ed a Mario Moreno.. la riconoscenza, così come la gratitudine sono sentimenti divenuti rari; nel campo che si centra e ruota attorno alla psicoanalisi siamo da tempo avvezzi, piuttosto, all’invidia ed agli attacchi distruttivi …

Vi sono motivi, anche, di ricostruzione storica e di connessa informazione: in Italia la persecuzione fisica degli ebrei cominciò non – come comunemente si ritiene – con la razzia nazista del ghetto di Roma il 16 ottobre 1943 ma con il rastrellamento in tutta Italia dei circa 700 ebrei poi inviati nei vari campi di internamento sparsi nella penisola e soprattutto al sud: tra questi, il campo di Ferramonti.

Un luogo e una storia che la curatrice ha voluto recuperare alla conoscenza ed alla memoria. Ferramonti, nei fatti, è stato il più grande campo fascista d’Italia, con 4.500 prigionieri.

Da questo campo di concentramento Ernst Bernhard poté uscire, proprio quando stava per essere mandato ad Auschwitz, recuperando la libertà grazie all’interessamento di Giuseppe Tucci, archeologo e, orientalista, per lungo tempo ritenuto – paradossalmente – un fascista. Tucci si adoperò spendendo presso Mussolini il suo prestigio di scienziato di fama internazionale. Anche su questo punto, attraverso le lettere dell’epistolario, La Marinangeli riesce a correggere un dato storico, restituendo a Tucci la grandezza del suo operato, ovvero l’aver di nascosto aiutato molti ebrei salvandoli dalla morte.

Alla Marinangeli va riconosciuto anche il merito di aver restituito spazio e visibilità al dolore di chi non parla, o non viene ascoltato: la pubblicazione delle risposte di Dora alle lettere scritte da Ernst, assume un significato ampio estensibile a tutti i familiari dei carcerati, e delle vittime in genere. Le lettere di Dora esprimono la verità intima e personale di un vissuto condiviso, manifestano l’esperienza di una attesa sofferta in misura quotidiana e reale, a volte anche banale: dimensioni ben diverse dalla coartata amplificazione prevalente nei massmedia, tele-visone in primis, che nel nostro tempo paiono cercare – esibendo la sofferenza e l’emotività connessa – prevalentemente lo scoop.

I limiti editoriali mi impongono di sorvolare su altre linee portanti, rintracciabili e/o esplicitate dalla curatrice: tra queste, esito non irrilevante, offrire al lettore uno spaccato di come si viveva a Roma agli inizi della guerra.

Infine, al di là di queste note ma centralmente, la figura di E. B.

Persona e personaggio che la pubblicazione dell’epistolario meglio chiarisce, per esempio rispetto all’importanza attribuita già dal 1940 all’ idea di Divina Provvidenza, oltre che all’astrologia sulle orme di Jung, ma che sembra mantenere – nella sua complessità – un quid di inafferrabile e indicibile, talora anche spaesante.

Ernst Bernhard, medico pediatra berlinese, portò in Italia il pensiero di C. G. Jung e ne fu promotore ad ampio raggio, anche fondando, nel 1961, L’Associazione Italiana per lo Studio della Psicologia Analitica (A.I.P.A).

Così inizia una delle numerose pagine che Aldo Carotenuto, che ne fu allievo, dedicò al Maestro: “E. B. era un medico berlinese, di famiglia ebrea. Nato nel 1896 aveva studiato medicina e si era subito interessato di psicologia sottoponendosi ad analisi con Fenichel e Rado. Dopo una crisi spirituale, non bastandogli gli insegnamenti ricevuti, si rivolse allo studio di problemi più vasti di quelli che gli permettevano i confini della psicoanalisi.”

È il caso di ricordare che nel 1996, la Rivista di Psicologia Analitica dedicò un numero ai Maestri scomodi (Ernst Bernhard, Buber e Jung) : negli scritti di Bianca Garufi, Silvia Rosselli, Marcello Pignatelli, Paolo Aite ed altri si evidenziano tratti diversi e disposizioni spesso contrastanti, modalità comportamentali e capacità analitiche di E. B., uomo e psicoanalista; Romano Màdera sottolinea, come tratto distintivo, la spiritualità ed una nuova sapienza sincretica e biografica.

Ognuno coglie, consapevolmente o meno, quell’aspetto che più entra in risonanza con le personali corde dell’anima.

La s-comodità di E. B. sembra in effetti essere la controfaccia (o meglio, la forza e la debolezza) di una personalità complessa: in effetti, i confini della psicoanalisi furono ampiamente varcati ed andarono a embricarsi con interessi religiosi, filosofici, astrologici, artistici, generando una immagine caleidoscopica ed appunto, spesso spaesante.

Al lettore, adesso, grazie all’epistolario, è data la possibilità di integrare in quell’articolato mosaico una nuova tessera.