Psicopatologia della guerra e del terrorismo

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 53, Roma, Di Renzo Editore, 2003 – Estratto

Freud nel 1932 in risposta a Albert Einstein sul quesito “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra” partendo dalle sue riflessioni su Eros e Thanatos e sull’aggressività umana, afferma che ”una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interesse”. Ma la vera difficoltà, continua Freud, non consiste tanto nel creare una tale istituzione, ma di conferirle il potere necessario e incontestabile per agire.

Nel 1945 Jung sconvolto dalle sventure e dai lutti bellici, inorridito “dall‘irresistibile fascino del male” che aveva condotto alla trance possessiva delle masse, pur ammettendo l’importanza del fattore economico, affermerà che “al disopra e al di là di ogni fattore esterno, le decisioni ultime risiedono sempre nella psiche umana” e che dunque “affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo”.

Il post-freudiano Franco Fornari ha dedicato ben due libri all’argomento guerra: Psicoanalisi della guerra atomica e Psicoanalisi della guerra . I due libri rappresentano un corpus unico (buona parte del primo confluirà nel secondo).

L’excursus storico parte dalla nota e provocatoria interpretazione di Freud sulla guerra: “In realtà i nostri concittadini non sono sprofondati così in basso come temiamo perché non erano mai saliti così in alto come credevamo… Questa guerra rappresenta per il cittadino di qualunque nazione l’occasione per capire ciò che in tempo di pace potrebbe capire solo per caso: cioè che lo stato proibisce all’individuo di commettere iniquità non perché desideri abolirle ma perché vuole averne il monopolio come per il sale e i tabacchi.”

Fornari esamina le tre teorie della guerra esposte da Money Kyrle che si dimostrano ancora intramontate senza che una escluda le altre. La prima è quella sessuale (armi come falli); la seconda è definita edipica (legami omosessuali tra gli individui passando da posizione ostile verso il padre a posizione passivo-femminile): “la cooperazione e la lealtà richieste nella convivenza del gruppo, e in modo specifico nella cooperazione degli individui in guerra, sarebbero rese possibili dai legami omosessuali tra gli individui di uno stesso gruppo e nel rapporto col capo”. La terza teoria, chiamata paranoica, deriva dagli studi di Melanie Klein sullo sviluppo iniziale del bambino. Secondo questa studiosa della psicoanalisi infantile per il bambino la madre è il primo contenitore di ogni cosa buona ma anche, può sembrare assurdo, di ogni cosa cattiva che lo riguardi. Così il bambino può sviluppare ansie persecutorie create da lui stesso identificandosi, attraverso un processo maniacale, con il nemico interno e aprendosi quindi alla guerra.

Fornari da parte sua ritiene che “ciò che espone l’uomo alla guerra non è tanto la sua dotazione aggressiva originaria, una sua particolare malvagità, ma una specie di pazzia innata con la quale egli costituisce i suoi rapporti primitivi con il mondo, che originariamente è la madre”. Dunque mentre l’esperienza amorosa considera l’altro come indispensabile all’esistenza del Sé fino a farla diventare costitutiva del Sé, l’esperienza di odio rappresenta la radicalizzazione distruttiva del rapporto con l’altro come uno degli aspetti più tipici della guerra intesa come paranoia persecutoria e quindi negatrice della esistenza del Sé. L’intento di Fornari è quello di dimostrare che solo una lettura che sia anche cura psicoanalitica della necessità di violenza e della necessità di colpa degli esseri umani può trasformare le loro ansie distruttive in propositi e necessità di pace. Ne consegue, come processo terapeutico psicoanalitico, una possibile responsabilizzazione dell’individuo, che prendendo coscienza attua un processo riparativo dell’era catastrofale. Fornari conclude indicando la necessità di costituire un’organizzazione – da lui battezzata Omega – che sia difensiva, giuridica, repressiva all’interno dei gruppi del crimine guerra, e da considerare come desiderio delittuoso dei singoli individui anziché funzione dello Stato.

Lo studio più ammaliante in materia di guerra è forse quello dell’inglese post-junghiano Anthony Stevens, autore di numerosi saggi tra cui il fondamentale Le radici della Guerra, una prospettiva junghiana . Il suo discorso si articola prendendo ovviamente le distanze dalla visione freudiana: “Mentre Freud assumeva che il nostro patrimonio mentale viene acquisito da ciascun individuo nel corso del suo sviluppo, Jung sosteneva che le caratteristiche essenziali che contraddistinguono l’essere umano sono già presenti dalla nascita. A questi attributi tipici della specie umana Jung diede il nome di archetipi. L’archetipo del nemico è soltanto uno di questi.

Gli archetipi, sosteneva Jung, sono alla base di tutti i fenomeni più comuni dell’esistenza umana. In quanto strutture innate, gli archetipi posseggono la capacità di originare, controllare e mediare esperienze e comportamenti caratteristici e comuni a tutti gli esseri umani. In particolari occasioni, gli archetipi generano pensieri, immagini, sentimenti e idee che appaiono fondamentalmente simili in individui diversi, indipendentemente da variabili quali classe, razza, religione, posizione geografica e periodo storico. Accettare l’ipotesi degli archetipi significa in ultima analisi adottare una visione della psiche essenzialmente filogenetica, poiché gli archetipi possono essere considerati come entità biologiche che si sono evolute nel corso della selezione naturale”.

L’analisi di Stevens si basa sulla sua conversione alla teoria degli archetipi di Jung (una storia affascinante che meriterebbe un capitolo a parte . Come per tutti gli archetipi, anche quello del nemico ha un ruolo importante nel comportamento degli umani e si manifesta sin dalla primissima infanzia. Il bambino, nei primi mesi di vita, mentre dimostra gioia nell’avvicinarsi della propria madre, ha parimenti circospezione se estranei gli si approssimano. Appena più grande, intorno al primo anno di vita, il suo atteggiamento di timore si trasforma in ostilità non disgiunta da paura vera e propria. È questa una predisposizione innata nel bambino che non è assolutamente influenzata dalle sue condizioni di nascita o dal modo in cui è stato fatto crescere. È lecito chiedersi il perché si possa sviluppare questo “complesso” di sensazioni associate e legate tra loro da una comune carica emozionale. Le componenti che lo sviluppano sono due: l’indottrinamento culturale e la repressione familiare.

La prima, quella dell’indottrinamento, deriva direttamente dai concetti, a volte anche di natura teologica, che vengono volontariamente e involontariamente inculcati nel pargolo dalle persone che normalmente lo circondando. Quindi il Male, il Diavolo, ma anche coloro e tutto ciò che non è gradito dagli “allevatori” o dai consueti frequentatori del bambino, vengono fatti apparire come un potenziale “nemico” da evitare sempre e comunque. La seconda componente, quella della repressione familiare, è frutto tipico di tutte le prevenzioni e di tutti i moduli comportamentali che in qualsiasi nucleo familiare esistono. Jung, che riteneva quest’ultima componente di interesse primario per l’analista, vuoi perché rappresenta aspetti della personalità repressi, vuoi perché è lasciata allo stato embrionale nell’inconscio per le condizioni della realtà in cui l’individuo cresce, la definì ombra. L’ombra non riesce quasi mai a “realizzarsi”, resta sempre racchiusa nell’autorità “paterna” che Freud indicava come il Super-io e Jung come complesso morale.

Per Stevens l’archetipo del nemico, frutto naturale delle componenti di cui abbiamo parlato, si manifesta in forme varie, ma sempre molto aggressive. La forma onirica, basilare, forse l’unica che abbia una maggiore incisiva valenza comportamentale, immagina il nemico sempre sotto forma sinistra e minacciosa e, normalmente, sempre dello stesso sesso del sognatore ma parimenti di nazionalità, colore, razza diversi. Questa è la tipica manifestazione di supervalutazione dei propri ”inculcati” valori tribali. Così quando ci abbandoniamo ai nostri istinti più incivili e barbari vuol dire che siamo preda dell’ombra, un’ombra tutta umana e niente affatto animale (tanto è vero che gli animali non sono capaci di perpetrare misfatti pari a quelli umani).

L’inclinazione umana a compiere atti feroci e assurdi, anche di massa (come l’Olocausto e le altre stragi di cui la Storia è triste testimone) dipende dalla incapacità di controllare la propria ombra. Goethe con il suo Faust, Oscar Wilde con il Ritratto di Dorian Gray, Stevenson con il Dr. Jekyll e Mr. Hyde, Mary Shelley con il suo Frankenstein ci hanno dato un esempio in letteratura di quanto potente e terribile possa essere il lato segreto di ciascun di noi. Hitler, Mussolini, Stalin, Pinochet, Lenin, i Cristiani alle crociate, i Turchi in conquista, i Colonnelli greci – e aggiunga a piacere il lettore i suoi criminali favoriti – hanno dimostrato concretamente, e sanguinosamente, di quali atrocità sia capace l’uomo. Nei casi in cui viene coinvolta la massa, l’uso pervicace dei media è in grado di suggestionare un intero popolo a proiettare, spostandola lontano da sé, la propria ombra sul cosiddetto nemico, come è avvenuto per gli ebrei demonizzati dal nazismo. Così se è vero, come predicava Konrad Lorenz, che solo l’animale capace di aggressività verso i suoi conspecifici è anche capace di affettività, così anche per la specie umana la bravura nel farci degli amici corre sullo stesso filo che produce anticorpi antiumani, creandoci dei nemici.

Sembra quasi che le due rette parallele di Fornari e di Stevens si incontrino a questo punto: entrambi sono convinti che bisogna fare i conti con la nostra personale e innata cattiveria per migliorare i rapporti con la nostra anima naturaliter religiosa. E così per chiunque abbia un rapporto con un credo buddista, cristiano, scintoista, musulmano, ebraico, induista, politeista, agnostico, ateo, mi sembra opportuno ricordare che il filosofo Luigi Pareyson considera sconcertante, ma attendibile, il voler far risalire a Dio la creazione del male perché anche se ammettiamo Dio come sua origine è pur sempre l’uomo il suo vero artefice. Il problema sta nel libero arbitrio. Noi conosciamo il bene e il male perché, sempre come dice Pareyson, la realtà suscita al tempo stesso stupore e orrore, angoscia e meraviglia: la sua caratteristica essenziale è l’ambiguità… Dunque dobbiamo scegliere con dolore perché il dolore è il luogo dove uomo e Dio si ritrovano. La sofferenza che il dolore genera può essere lenita solo dal ritrovarsi tra l’uomo e il suo Signore. Il dolore, unico mezzo che riesca a superare il male, è anche l’unico trait d’union sempre vivo che può collegare divinità e umanità come una nuova copula mundi. Non esiste via d’uscita dalla guerra e dal male senza sofferenza e confronto con i nostri simili. Noi tutti siamo corresponsabili in prima persona dell’attuale stato del mondo, non i partiti politici, non gli Stati, non il Diavolo, né gli Angeli, noi con il nostro dolore senza il quale e con il quale non possiamo vivere. Per dirla con Marziale: Nec tecum, nec sine te vivere possum.