Disponibile in libreria e ordinabile online da subito il risultato dell’Indagine su un burattinaio (Città del Sole Edizioni, Reggio Calabria, Ottobre 2020), di Roberto Oliveri del Castillo di cui offriamo in lettura, con il consenso dell’autore, la psico-prefazione di Amedeo Caruso e l’integrale postfazione di Domenico Gallo, noto giurisperito e valoroso politico. Il manoscritto del giudice, questo il sottotitolo del libro, racconta una storia intricata e intrigante che potrebbe accadere o può essersi svolta dovunque. Leggete i commenti di apertura e chiusura del libro e vi verrà una gran voglia di conoscere tutto quello che è nel mezzo, come la virtù. Secondo l’intuizione di Jung potremmo anche dire che quest’opera “diventa” ciò che accade nel mezzo. Buona lettura e buona salute a tutti.
Accostamenti letterari e psicoanalitici al manoscritto del giudice
di Amedeo Caruso
Questo scritto necessita di una breve premessa. Diversi anni fa, senza conoscere l’autore, mi giunse una cortese richiesta di lettura di un suo testo, Frammenti di storie semplici, che fu poi pubblicato da Edizioni Del Sole nel 2014. Il magistrato Roberto Oliveri del Castillo mi chiedeva di farne una lettura psicologica, dato che presiedevo un’associazione di psicologia e letteratura fondata insieme al mio maestro e amico Aldo Carotenuto, che venne a mancare nel 2005 e di cui Roberto stimava il pensiero e i libri. Allora non feci nessuna promessa, se non quella di leggere il manoscritto e quindi decidere in piena autonomia se scrivere una lettura del racconto in chiave professionale, cosa che avvenne, in quanto la storia mi intrigò e mi spinse anche a leggere un libro molto interessante che non conoscevo, citato da uno dei prefatori del libro stesso, Il diario di un giudice di Dante Troisi, che ai tempi della sua pubblicazione fece epoca e scalpore. In questi ultimi anni, Roberto ed io, siamo diventati quasi amici, nel senso che ci incontriamo ogni tanto a Roma per mangiare un boccone insieme o per un caffè, ci scriviamo spesso pur senza ancora aver raggiunto quella che definirei una confidenza importante, ma siamo sicuri di essere sulla buona strada e di navigare insieme in acque gradite ad entrambi, con scambi di opinioni e chiacchiere su libri e fatti di cronaca e segnalazioni letterarie, tutte cose che rappresentano sempre un’ottima imbarcazione su cui veleggiare.
Ho cominciato a rinominare il testo così, “Il manoscritto del giudice”, senza sapere quale sarà il titolo finale, perché secondo me sarebbe il titolo perfetto per questo nuovo libro di Roberto Oliveri del Castillo. Nel racconto si dipanano storie inventate che ricordano troppe storie italiche vere, senza che si sforzi troppo la memoria di chi ha almeno mezzo secolo di vita. Oppure altre vengono citate senza mezzi termini, come le stragi di via Capaci e quella di Via d’Amelio.
L’escamotage del racconto parte con la promessa del professor Franzè di pubblicare le memorie scottanti dell’amico giudice dopo la sua morte. Questa non è un’operazione da poco, ma l’amico e ammiratore del giudice riuscirà nell’intento “nella calma di chi ha visto trenta secoli di storia”. Entriamo così in un favoloso racconto di un universo che trae certa ispirazione dalle storie di Gabo, l’indimenticabile autore di Cent’anni di solitudine e dell’Amore ai tempi del colera. Si respira nel libro quell’aria sudamericana, sudaticcia, ironica e crudele e si odono quei nomi e soprannomi, a bella posta inventati per i personaggi, anche questi parenti stretti dei protagonisti dei romanzi di Isabel Allende. Siamo in un paese di orchi cattivi, famoso come il sinistro castello di Dracula e pauroso come la dimora di Grimilde, la strega di Biancaneve. I cattivoni si chiamano Escobar (come il temutissimo criminale colombiano su cui Fernando Leòn de Aranoa ha girato un film-verità impressionante da non perdere), El Guapo, El Crapon, Lardoso, ed anche Gordo detto “Il Padrino”. Ci troviamo a leggere, insomma, un Candide, ou l’Optimisme all’incontrario, senza rinunciare all’umorismo di Voltaire o al sarcasmo del sogno fatto in Sicilia dal Candido di Leonardo Sciascia; nel manoscritto, nessuno pensa o dice che il loro è il migliore dei mondi possibili e c’è poco da scherzare se non da parte dell’autore, che se la ride sotto i baffi, utilizzando la scrittura come unica via di scampo e di redenzione per tentare di esorcizzare un mondo malato e affamato di giustizia. Il motto della famosa agenzia investigativa Pinkerton “we never sleep” è trasformato dalle forze dell’ordine locali per far intendere che sono sempre svegli a combinare guai e sempre all’erta per non essere scoperti e puniti. Mi piace che la penna di Roberto abbia allargato i suoi orizzonti alla presenza del mondo islamico, con tutta la sua diversità, il suo dolore e il rischio estremista che non è appannaggio solo dello straniero, ma coinvolge e affligge qualunque popolo.
È straordinariamente attuale e raccapricciante la sua descrizione sui caporalati del sud e di questi aspetti dello schiavismo moderno, di cui mentre scriviamo, è il 7 agosto 2018, leggiamo orripilanti notizie sulla morte di dodici braccianti-schiavi, deceduti in un incidente stradale dalle parti di Foggia su un furgone, eventi che ci sconvolgono e ci fanno interrogare sulle realtà di un mondo che ancora osa definirsi civile. Ritroviamo nel romanzo di Roberto anche un altro aspetto scottante e dolente della nostra quotidianità italiana ed europea, ovvero quella degli inarrestabili sbarchi clandestini e le manipolazioni di questi nuovi uomini-oggetto da parte di scafisti senza scrupoli e governi oscillanti tra la rigidità e la pietà, tra la legge del mare e i principi della coscienza, che spesso giovano soltanto a rinforzare le fila delle potenze politiche contrapposte. Dunque un affare di scrittura per il quale vale la pena scomodare il dottor Jung, che ci ricorda che “nella selva della vita non facciamo altro che incontrare tanti altri noi stessi, travestiti in mille fogge”. Lo psicoanalista svizzero vuole dirci semplicemente che siamo tutti sulla stessa barca, anche se non lo sappiamo, e una parte di noi, anche se si crede comodamente seduta a casa, confortata da un lavoro, da un conto in banca e magari da un’affettuosa famiglia, ha una parte di sé con il sedere bagnato su un’imbarcazione al freddo ed è affamato, ha perso tutto e non ha nessuno della sua famiglia con sé. L’intuizione che siamo tutti intessuti della stessa materia non solo umana, ma inconscia, la possiamo far risalire a Terenzio, che per primo ha espresso il principio che non c’è niente di umano che non ci circondi, e che tutto ci riguarda in quanto esseri mortali. Ma la tesi psicologica va ancora più a fondo, dichiarando che non solo tutto ciò che è umano è affare nostro, ma che è soltanto un caso che non ci troviamo noi al posto dei profughi, dei malati, dei diseredati, degli affamati e dei perseguitati. E non si tratta soltanto di pietà cristiana che pure dovrebbe aiutare a vivere meglio con noi stessi e con gli altri, ma di una regola che vuole farci pensare sempre a metterci nei panni degli altri.
L’universo dei soggettacci dipinto dallo scrittore mi ha fatto pensare ai sordidi criminali rappresentati nel Salò/Sade di Pasolini, tanto emetico quanto veritiero, un orribile testamento artistico di un intellettuale poeta, che ha saputo rappresentare artisticamente tutto il meglio e il peggio della vita. Non dimentica il buon Roberto in questa sua seconda prova neanche gli orrori dei campi di concentramento, con il ricordo della scritta sui cancelli di ingresso di Dachau: il lavoro vi renderà liberi che i malvagi “caporali” riproducono nei loro campi do fatica. Insomma – si chiede l’onesto lettore – in che mondo viviamo? Certo non è colpa dell’autore se scrive queste cose, lui è soltanto un nostro compagno di viaggio, un attonito testimone di questa spaventosa realtà che stiamo vivendo. Non si salvano certi preti, non sono escluse malefiche donne ed echeggia lontano, ma sempre vivo e presente, il terribile massacro di Cefalonia, episodio da cui John Madden ha tratto Il mandolino del capitano Corelli, un film allo stesso tempo tragico e romantico, per ricordarci che dal dolore e dai drammi umani può sempre sorgere qualcosa di buono per quelli che hanno buona volontà o, per dirla con Gramsci, l’ottimismo della volontà pur nel pessimismo della ragione. In questo libro che si legge tutto d’un fiato non c’è tanto posto – come per il precedente Frammenti di storie semplici – per i sogni, che sono però rappresentati nella loro specie deleteria e paurosa, ovvero gli incubi e, come afferma il supremo Borges, se gli incubi fossero le fessure dell’Inferno? Mentre davo un’occhiata finale alle sottolineature e alle note che ho messo sul manoscritto, devo segnalare questi due appunti. Il primo è che la sua prosa mi ricorda quella di De Sade che, come è noto, è stato lo spirito più libero dei suoi tempi, nonostante il suo corpo fosse stato il più imprigionato. Ha dipinto la sua era senza scrupoli, con il coraggio dell’intellettuale che rispecchia nei suoi scritti ciò che vede e sente e in questo senso Roberto Oliveri è un suo epigono moderno. La seconda notazione è che mi è piaciuto il finale inaspettato, che dà un colpo di coda stile 007 di Fleming a tutta la faccenda e che troverete sicuramente godibile.
Buona lettura dunque da parte di Amedeo Caruso, medico, psicoanalista e ormai commentatore ufficiale degli scritti di Roberto Oliveri del Castillo!
Postfazione di Domenico Gallo
Indagine su un burattinaio richiama alla mente il titolo di un celebre film di Elio Petri degli anni 70, indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, magistralmente interpretato da Gian Maria Volontè e da Florinda Bolkan. Un film che fece scandalo per la sua allegoria cruda del volto anarchico e violento del potere. In un contesto politico e storico completamente differente, il romanzo breve di Roberto Oliveri del Castillo, si cimenta con lo stesso rovello: disvelare l’essenza più intima, selvaggia e anarchica del potere, la sua tendenza a travalicare e ad assolutizzarsi se si abbassano le barriere di protezione a tutela della collettività.
Di fronte al volto mostruoso del potere, l’unica barriera realmente capace di avere effetto salvifico è la giustizia. La giustizia è l’unico pharmakon che può risanare le ferite sociali ed evitare che “la vita delle persone sia indifesa, esposta, retrocessa a nuda vita, pura biologia, alla mercè di chiunque”, come annota l’autore nella presentazione.
Il discorso sulla giustizia, sui suoi fallimenti, sugli abusi e le miserie degli uomini che incarnano le sue funzioni, con i suoi inevitabili riflessi sulla vita della collettività e sui diritti delle persone concrete, è il leitmotiv della narrazione nella quale l’autore si avvale della sua profonda conoscenza della comédie humaine derivante dal suo osservatorio professionale di magistrato.
Per questo il racconto si sviluppa come un’ideale prosecuzione del primo romanzo Frammenti di storie semplici. E’ lo stesso autore che effettua il collegamento attraverso un personaggio del primo romanzo, il prof. Franzè, a cui viene affidato il compito di procedere alla pubblicazione postuma del manoscritto lasciatogli dall’amico.
Ancora non si è spento l’eco delle polemiche extraletterarie che sono seguite alla pubblicazione del primo romanzo. Come lo scandaloso Diario di un giudice di Dante Troisi, pubblicato nel 1955 suscitò lo sconcerto dei benpensanti ed un vespaio di polemiche che provocarono – addirittura – una sanzione disciplinare al suo autore, accusato di aver leso il prestigio della magistratura, anche Frammenti di storie semplici ha suscitato un vespaio di polemiche, questa volta a parti invertite. Curiosamente sono stati gli eredi di quella parte politica che, a suo tempo, aveva messo all’indice il libro di Troisi, accusato di aver sfatato il mito della magistratura come istituzione perfetta, ad issare il romanzo come un usbergo per difendersi dalle nefandezze della magistratura, ovvero come un pretesto per validare la loro ventennale campagna contro l’esercizio dei poteri di controllo di legalità. Addirittura Frammenti di storie semplici è stato invocato a propria difesa da un parlamentare sul quale pendeva una richiesta di arresto, ed ha ricevuto apprezzamenti non richiesti dai giornali del Cummenda, mentre completo silenzio è stato tenuto dalla fazione opposta, forse toccata dalle considerazioni politiche che il protagonista del romanzo fa di tanto in tanto con sè stesso, prendendo spunto dalla cronaca nazionale e locale, tanto che il Consiglio Superiore della Magistratura si è sentito in dovere di convocare l’autore per fare accertamenti sulle vicende narrate nel romanzo, al fine di accertare un’eventuale corrispondenza con fatti reali di rilievo penale o disciplinare.
Un eco di questi fatti lo ritroviamo nel prologo dove compare il prof. Franzè convocato al Ministero della Giustizia, ufficio Ispettivo, per un accertamento sul tasso di fantasia/verità dei fatti narrati dal suo scomparso amico, giudice e scrittore.
Facendo tesoro di queste polemiche, e per sgombrare il campo da polemiche strumentali, Oliveri del Castillo ha cambiato lo scenario per questo secondo romanzo, abbandonando quei luoghi effettivamente vissuti, per trasferirsi in una Spagna immaginaria. Anche qui la vicenda si sviluppa in una città di provincia, Tiguan, dove il Procuratore della Repubblica (anzi del Regno) con i suoi sostituti più fidati, Bajo, Gordo e Narcis, gioca a darsi un ruolo di massima importanza, si contornia di giornalisti adulatori, riesce ad occuparsi di vicende d’interesse nazionale ed internazionale che, chissà per quale oscuro motivo, approdano proprio a Tiguan. Ma soprattutto è specializzato nelle indagini a carico di settori imprenditoriali o finanziari, che non accertano mai alcun reato ma consentono di spremere personaggi danarosi.
Adesso che è esplosa l’emergenza del terrorismo, per il Procurador Escobar, detto El Crapòn, si presenta un’occasione di gloria, anche se a Tiguan non ci sono trame da scoprire. Per questo bisogna inventarsi qualcosa. E’ così che lo zelante procuratore orienta tutte le sue capacità investigative sul terreno del contrasto all’immigrazione illegale per colpire con decisione i “reati spia” che spesso nascondono situazioni in cui alligna “la mala pianta del terrorismo fondamentalista islamico”. Così le retate contro gli immigrati privi di permesso di soggiorno, che sopravvivono arrangiandosi in condizioni inumane, diventano un colpo mortale nei confronti dei fiancheggiatori del terrorismo
Qui il racconto sulle malefatte del Palazzo di giustizia si salda con la descrizione di una situazione economico-sociale che a noi non risulta sconosciuta. Quella che vede un esercito di migranti impegnati nel duro lavoro nelle serre e nei campi assolati. Per lo più giovani fuggiti da situazioni di terrore che hanno affrontato la traversata sulle carrette del mare spinti dall’illusione di una vita migliore, o semplicemente dal bisogno di sopravvivenza. Costretti ad accettare condizioni di lavoro schiavile, con paghe da fame, soggetti ad angherie di ogni tipo.
Così se le fittizie operazioni antijadhiste della Procura di Tiguan si risolvono in un nulla di fatto, anche perché smantellate dalla resistenza di una giovane P.M., il racconto si dipana attraverso una serie di vicende nella quali trovano posto latifondisti ladroni, vescovi e magistrati accumunati da vizi privati nascosti dalle pubbliche virtù, sgherri, escort, professori che impongono codici di abbigliamento discinti alle stagiste, ai quali fa da contraltare l’umanità recuperata nella comunità di accoglienza guidata da un sacerdote sandinista, frà Cirone, un prete da strada a metà tra Zenone, il protagonista di “Opera al nero” della Yorcenair, e il vescovo di San Salvador, Oscar Romero, ucciso proprio mentre diceva messa in un ospedale, proprio mentre il vescovo sollevava l’ostia consacrata. Dopo una serie di colpi di scena la macchina della giustizia si mette finalmente in moto, restituisce dignità alle vittime e smaschera i complotti dei potenti.
E’ un racconto leggero, un thriller sociale che si legge tutto d’un fiato dove la caratura grottesca dei personaggi rende la narrazione più gustosa. Al fondo c’è questa concezione della centralità della giustizia come unico argine possibile per imbrigliare il Leviatano. Una giustizia che si prostituisce ai potenti e che apre ferite spaventose nella carne viva delle vittime del potere. Una giustizia che interviene per risanare le ferite, per riparare i torti, per liberare i deboli dal giogo dei potenti.
Questa volta nessuno si potrà dolere, sono vicende del tutto immaginarie, ma quanta verità traspare da esse.
Questo racconto ci parla di noi, di quello che siamo o di quello che potremmo diventare se cadessero i presidi del diritto e della giustizia.