Alla ricerca della semplicità perduta

Il coronavirus ci sta costringendo ad un isolamento domestico che risulta pesante, turba i nostri piani, impedisce il normale svolgimento delle nostre vite. A farne le spese sono soprattutto gli anziani, che già in condizioni normali vivono una realtà di isolamento, che al momento però risulta ulteriormente accentuata. L’essere costretti a casa ci toglie molto ma, forse, ci dà anche la possibilità di ripensare alla nostra società e di reimparare, come invita a fare lo storico contemporaneo Franco Cardini, a coniugare il pronome “noi” anziché declinare sempre e soltanto il pronome “io”, a riscoprire il valore ed il ruolo del soggetto anziano, che non è più soggetto economico e dunque non è – come sostiene lo psichiatra Vittorino Andreoli – homo faber.

Non dimentichiamo quanto ci insegna Hillman in un suo bellissimo saggio sull’età senile, La Forza del carattere: Trascurando i vecchi, impediamo l’evoluzione della specie umana. E continueremo a impedirla, finché non riconosceremo che il carattere invecchiato è in grado di proteggere la civiltà dalla sua stessa frenesia predatoria. Noi supponiamo che l’anziano non abbia più un senso per la nostra società ma, così facendo, ci priviamo di maestri, ci priviamo di chi può ancora coltivare la lentezza ed il ragionamento in un mondo frenetico, ci priviamo della nostra memoria storica.

E invece faremmo bene a ricordarla, la nostra storia, noi che potremmo vantarci di discendere da Enea, che fuggì da Troia in fiamme portando sulle spalle il vecchio padre Anchise. Bernini ne ha tratto una scultura giustamente celebre. Portare l’anziano sulle nostre spalle… È un gesto che abbiamo dimenticato e che dovremmo forse riscoprire. La cultura dei mondi passati ci parla molto e volentieri dell’anziano, che per la Bibbia è innanzitutto un maestro, che ha appreso dal padre e che può insegnare al figlio in una catena inesausta e infrangibile. L’anziano è, nel Corano, colui di fronte al quale occorre inclinare con bontà l’ala della tenerezza. Bellissima immagine per una lingua che parla per metafore e che esprime con il vocabolo kabir la parola anziano, parola che vuol dire anche grande e che si riferisce infine a Dio stesso. Eppure, nella nostra società il vecchio è spesso solo, abbandonato, emarginato, condannato alla depressione ed alla perdita di valore e senso. Il vecchio sa stare solo ma non vuole essere abbandonato.

Consiglio di guardare o riguardare in proposito un film di Vittorio de Sica che è uno dei capolavori del neorealismo: Umberto D. Questa pellicola parla di un anziano fragile, anche e soprattutto da un punto di vista sociale ed economico. Gli unici amici con cui riesce davvero ad intessere una relazione umana sono una povera cameriera e il suo cane Flaik. Il miglior modo di commentare il film è con le parole di Umberto Eco: Sono stato per un’ora e mezza con un uomo solo, con il suo cane, e non mi sono sentito solo. André Bazin lo ha definito un film proustiano, che ha dunque a che vedere con il tempo vissuto, mai perduto davvero e possibilmente recuperato attraverso la memoria, come ha fatto l’autore del romanzo Alla ricerca del tempo perduto.

Gli anziani esprimono coi loro volti il valore del tempo, del tempo passato, del tempo vissuto, perché no, anche del tempo che non tornerà più. Esaltano il tempo del racconto, che è un tempo che scorre lentamente. Gli anziani possono insegnarci questa lentezza, come possono insegnarci a riscoprire la bellezza, che non è e non può essere soltanto superficiale. Noi siamo oggi frastornati dai social network e pensiamo di trovare rapporti umani in una scatola, sia pure sofisticata. Ma davvero un computer può creare relazioni? Non è pur sempre indispensabile la parola, e la presenza, anche fisica, per allacciare rapporti? Gli anziani ci spiegano che si, tutto questo è necessario. E che la vita non sempre è indulgente, non sempre è soltanto bella e piacevole. Ma che bisogna saper immaginare e sapersi anche rilassare, godere della bellezza e dell’armonia che ci legano al mondo ed ai nostri simili. Nel film Kaos dei fratelli Taviani, che riprende alcune delle Novelle per un anno di Pirandello, la più bella tra le storie narrate è forse quella dello stesso Pirandello e della madre, magistralmente interpretata da Regina Bianchi. Il fantasma della madre richiama l’inimitabile Luigi per dargli un ultimo messaggio, quello di essere forte pur pensando che il figlio riderà di lei ma lo scrittore insiste così: invece dimmelo mamma, ne ho bisogno. E lei, di rimando: Rilassati invece. Guarda che essere forti non significa dover vivere sempre così (atteggiando il pugno a chiusura, per rappresentare uno stato di tensione), significa saper vivere anche così (e rilascia le dita in segno di distensione). Poi, ad una considerazione un po’ troppo pirandelliana dell’arguto figliolo, la madre risponde: Ormai io faccio fatica, figlio, a seguirti nei tuoi discorsi, sono diventati troppo difficili per me. Eppure, una cosa io sento di poterti ancora dire: impara a guardare le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più. Ne proverai il dolore, certo, ma quel dolore te le renderà più sacre e più belle. Forse è solo per dirti questo che ti ho fatto venire sin qua. Poi, Pirandello si accorge che la madre guarda la vela di una barca in lontananza e le chiede di rievocare un viaggio che aveva raccontato già cento volte e che per cento volte egli aveva cercato invano di scrivere. E la storia che sua mamma racconta è una storia semplice, ma è proprio la semplicità che a volte ci sfugge, tanto che persino Pirandello ci arriva col tempo e grazie all’aiuto e a questo ricordo materno. È forse questo il messaggio finale che i vecchi ci invitano a cogliere. Essere semplici. Perché non esiste storia che non valga la pena di essere raccontata e non esiste racconto troppo semplice che non abbia un suo valore e una particolare bellezza da scoprire.

Quel che importa, insieme all’ascolto, è la nostra capacità di sentire con un terzo orecchio, come sosteneva lo psicoanalista Theodor Reik allievo di Freud. Listening with the third ear è il titolo di un suo famosissimo libro che riguarda la capacità interiore di ricezione, che gli psicoanalisti devono apprendere per essere in giusta sintonia con i loro pazienti. In questo periodo dobbiamo essere tutti molto… “pazienti”.

Vincenzo Leccese