Le radici junghiane del cinema italiano d’Autore. Intervista a Vittorio De Seta, il regista dell’Ombra

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007

L’avventurosa storia del Cinema Italiano d’Autore percorre itinerari che non sempre passano per le autostrade intitolate a Fellini o Antonioni, o superstrade a tre corsie denominate Visconti e Bertolucci. Esistono sentieri, (gli americani le chiamano strade blu), che conducono il viaggiatore verso panorami inusitati e bellezze nascoste che soltanto chi vuole imparare a viaggiare può conoscere. Per questo motivo da anni ormai davo la caccia a un film introvabile e importantissimo, secondo me, dal titolo “Un uomo a metà” di Vittorio De Seta. Pur possedendone la sceneggiatura sapevo che il film era abbastanza diverso dallo script e pertanto ero curiosissimo di vederlo. Qualche anno fa avevo chiesto anche l’aiuto a quel nuovo e caro amico che è il regista Fabio Carpi, poiché egli ha collaborato alla sceneggiatura del medesimo. Sebbene Carpi sia stato generosissimo e disponibile con i suoi film, non aveva una copia della pellicola in questione e neppure notizie di De Seta da molto tempo. Ero riuscito ad appurare soltanto che viveva da qualche parte in Calabria e nessuno sapeva di più, né telefono né indirizzo. La ragione per la quale ero cosi ansioso di vedere il film e conoscere il regista era dovuta al fatto che, conversando con il mio amico e maestro Aldo Carotenuto, anni orsono ero venuto a conoscenza che De Seta conosceva bene il maestro di Carotenuto, di Fellini e di tanti altri intellettuali e psicologi e medici e scrittori che orbitavano nel mondo artistico e psicoanalitico della Capitale negli anni ’50-’60. Carotenuto nel suo libro Jung e la cultura italiana riporta una amabile conversazione con Fellini durante la quale viene citato un amico e collega di Federico, il regista De Seta, per merito del quale l’artista riminese è entrato in contatto con Ernst Bernhard, il medico ebreo allievo di Jung che era fuggito in Italia ai tempi della persecuzione nazista. La storia di Bernhard è stata più volte raccontata da tanti suoi allievi – pazienti, (lo stesso Carotenuto, Natalia Ginzburg, Fellini) ed è stato a lui dedicato anche un numero della Rivista di Psicologia Analitica (fondata da Aldo Carotenuto). Avevo letto da qualche parte che il film di Fellini Giulietta degli spiriti portava inizialmente una dedica a Bernhard che non ho trovato nelle copie in videocassetta e in dvd che ho consultato. Non ricordo neanche di averla vista sulla pellicola che vidi nei primi anni ’70. Forse si era trattato solo di una dichiarazione di Fellini, oppure di una informazione data a Tullio Kezich dal regista suo amico senza che poi si scrivesse mai la dedica. Fatto sta che poi ho letto nella sceneggiatura che il film di De Seta è dedicato espressamente ad Ernst Bernhard. Se un film viene dedicato ad uno psicoanalista questo è un motivo valido per andare in cerca del film in questione, ed è quello che mi sono proposto appena scoperta la traccia junghiana. Come sempre accade a chi cerca con fede e convinzione, ho trovato per serendipity il regista Vittorio De Seta una sera che ero dalle parti dell’Associazione Culturale “Apollo 11” di Roma fondata da un giovane ma vecchio amico (che ho ritrovato già sulla via del successo per la regia del docu-musical L’Orchestra di Piazza Vittorio), che guarda caso organizzava una retrospettiva del regista, con la presenza dello stesso. Da qui è cominciata la frequentazione telefonica, epistolare, telematica e di persona con questo gentiluomo siciliano che vive prevalentemente in Calabria, ma che ad oltre ottant’anni ha tanta voglia ancora di vivere, di viaggiare e di lavorare, come ha dimostrato recentemente con il suo bellissimo film “Lettere dal Sahara”. Vittorio De Seta si è dimostrato nei miei confronti di una cortesia e di una disponibilità davvero superlative. Grazie al suo aiuto sono riuscito a prendere visione di tutti (dico tutti!) i suoi film, dai primi documentari al film girato in Francia che è quasi più irreperibile di “Un uomo a metà”, L’invitata.

Se dovessi paragonare la portata della corazzata De Seta direi che l’unico calibro al quale si avvicina è quella dello scrittore E.M. Forster. Dice Arbasino a proposito di questo scrittore inglese che la sua fama aumentava ad ogni libro che non scriveva, che il suo valore cresceva per ogni opera che lasciava nel cassetto (ed infatti il bellissimo Maurice uscirà postumo). Pochi libri assolutamente meravigliosi, un’intensa attività critica, insegnamento ad Oxford, lunga permanenza in India. Una vita trascorsa nella dimora dell’impegno civile, della letteratura, della libertà. Così è anche il nostro De Seta che esordisce nel lungometraggio a poco meno di quarant’anni con Banditi a Orgosolo un film che ancora oggi ha molto da dire sul fenomeno del banditismo e non solo. De Seta ha girato due cortometraggi in Sardegna negli anni precedenti (Pastori di Orgosolo e Un giorno in Barbagia) e tra il 1954 e il 1959 altri che sono delle perle di etno-cinematografia (Vinni lu tempu de li piscispata, Isole di fuoco, Sulfarara, Pasqua in Sicilia, Contadini del mare, Parabola d’oro, Pescherecci, I dimenticati). Dopo il film sui banditi sardi che ottenne alla Mostra di Venezia del 1961 il Premio Opera Prima, e fu giudicato come «la sola rivelazione» del festival da parte della mitica rivista francese “Cahiers du Cinema”, il regista siciliano gira il celebre (solo per gli iniziati) Un uomo a metà. Questo film fu apprezzato da Moravia e Pasolini che ne scrissero tutto il bene possibile. Fu invece distrutto dalla critica ed il pubblico lo disertò. La rivincita di De Seta avrà luogo oltre quarant’anni dopo al Moma di New York che lo consacra tra i più importanti film del cinema italiano. Si accorgono di lui, quasi in contemporanea Martin Scorsese in America ed Agostino Ferrente in Italia. Tra i critici italiani che contribuiscono a riportarlo alla ribalta figurano Goffredo Fofi e Gianni Volpi che gli dedicano una lodevole monografia, “Vittorio De Seta, Il Mondo perduto”. Nel 1966, dunque quattro anni dopo “Otto e 1/2” compare quest’opera che secondo noi può essere considerata come il film ombra del film di Fellini. Non essendo dei critici cinematografici – come abbiamo più volte ribadito a Vittorio De Seta e confermiamo in questa sede – non intendiamo abbandonarci a elucubrazioni o interpretazioni che spettano agli addetti ai lavori. Desideriamo soltanto aprire una finestra psicoanalitica sulla lunga trincea della critica e lanciare una pacifica e inoffensiva ventata di idee – da addetti ai lavori della psiche – riguardo a una possibile lettura de “Un uomo a metà” come della parte nascosta e inguardabile, difficile e indigesta della natura umana che questo film cattura e mostra. In un mio prossimo volume verranno pubblicate le riflessioni allargate a tutto il cinema di De Seta e all’influenza della psicoanalisi nella sua opera. Mi limito per ora a citare soltanto il raro e pregevolissimo film L’invitata girato in Francia con Michel Piccoli, un vero capolavoro di essenzialità, eleganza e bellezza sul tema dell’incomunicabilità, tanto migliore di alcuni Antonioni sopravvalutati, e soprattutto ancora valido e giovane, senza una ruga. Dello stupendo Diario di un maestro (1973) ho accennato appena nella rubrica Viste di questo numero. Come Forster, De Seta ha portato a termine poche opere, una diversa dall’altra, tutte legate da fili invisibili ma tenaci, dei veri gioielli di rigore, etica e comunicazione, delle autentiche opere d’arte. La sua fama è cresciuta ad ogni film che non ha fatto e ci ha consegnato finora cinque film di rara poesia, una dozzina di documentari senza dimenticare il lungometraggio In Calabria.

Ospitiamo ora una breve conversazione con il regista a proposito delle sue radici junghiane.

Amedeo Caruso: – Lei è stato fra i primi artisti ed intellettuali a conoscere e frequentare Ernst Bernhard. Vuole parlarmene?

Vittorio De Seta: – Lo conobbi nel ’58. Avevo un fratello maggiore, Emanuele che tra il ’56 e il ’58, fu incarcerato e processato per reati di droga. Piuttosto ingiustamente. Ne uscì psicologicamente malconcio. Era instabile, aveva subito traumi in guerra. Lo ospitai per mesi. Uno psicologo incaricato dal tribunale suggerì una psicoterapia. Bernhard venne a casa mia, a Roma, all’Aventino. Sconsigliò un’analisi. La “psicoanalisi” era considerata allora, qui da noi, una scienza esoterica, scientificamente dubbia, tenuta in poco conto, osteggiata dalla Chiesa, dal partito comunista. Tuttavia quel dottore mi colpì. Avevo anch’io problemi psicologici.

Qual era stata la sua formazione?

Sono nato nel 1923, a Palermo. Di famiglia aristocratica, genitori separati; non avevo quasi conosciuto mio padre. Poca cultura durante il fascismo, poca formazione etica. Studi irregolari, convitti religiosi, anni di collegio in Svizzera.. Poi (1943-45) 2 anni di prigionia in Germania. Studi svogliati d’architettura. Passione per la lettura, un’oscura necessità di comprendere le cose. Nel ’47-’48 iscritto per un solo anno, al partito comunista. Nel 53 avevo deciso di fare cinema. Prima come aiuto regista. Dal ‘54 al ‘58 realizzai nove documentari di 10 minuti, apprezzati. Nel ’55 mi ero sposato.

Entrò allora in analisi con Bernhard?

Si, analizzavamo i sogni, parlavamo. Cosa insolita, prese in cura anche mia moglie. Ricordo che un giorno, in un momento di tensione, andammo da lui, per aiuto. Ci ricevette senza quasi parlare, preparò un thè e quando tutto fu pronto ci guardammo, con mia moglie: ogni contrasto era svanito. Questo era Bernhard. Faceva in modo che alle conclusioni si arrivasse da soli. Nel 1960 m’incoraggiò, mi “autorizzò” a fare Banditi a Orgosolo. Interrompemmo l’analisi per un anno.

È noto che è stato proprio lei a far conoscere Bernhard a Fellini. Com’era il suo rapporto con l’autore de La dolce vita?

Dopo il successo di quel film, il produttore, Rizzoli, finanziò la “Federiz”, una casa di distribuzione, affidata a Fellini, con l’intento di favorire il cinema d’autore. Aprirono una sede sontuosa in via della Croce. Ma non funzionò. Fellini, a causa del suo genio, particolare, non riusciva a badare al lavoro degli altri. Non aveva la pasta critica, cinefila, di un Pasolini, un Truffaut, uno Scorsese. Fra l’altro aveva un collaboratore, regista anche lui, al quale non andava bene niente. In poco tempo riuscirono a bocciare Il posto di Ermanno Olmi, Banditi a Orgosolo, già fatti, e Accattone, di Pasolini, pronto per le riprese. Ciononostante diventammo amici. Un giorno eravamo nella sua “500” bianca – che decisamente ci stava stretta, eravamo grossi tutti e due – in un piccolo largo, sopra il Tritone. Ci mettemmo a parlare e lui diede fondo al suo malessere, proprio come si fa con le persone conosciute da poco. Davanti a noi si apriva la prospettiva accattivante di via Gregoriana, dove abitava Bernhard. Un segno del destino? Ricordo come fosse adesso. Mi venne spontaneo dirgli: “Perché non vai da Bernhard?”. Ci andò in capo a qualche giorno.

Forse “Otto e mezzo” ebbe inizio proprio lì…

Non c’è dubbio, l’analisi ha avuto un effetto determinante su lui. In seguito ebbi tempo di riflettere. Con La dolce vita, aveva tirato fuori tanti contenuti inconsci e se li era trovati davanti, ancora segreti, dolorosi, insidiosi. Per questo stava male.

Vi siete frequentati in seguito? Soprattutto avete avuto modo di parlare del vostro comune analista?

Questo no, sarebbe stato imbarazzante. Non ci siamo quasi più frequentati perché non riesco a coltivare le amicizie. Non sono mai andato a Fregene. Fellini era un incanto, ti avvolgeva d’attenzione, simpatia, affetto. Poi, da quel momento, tutti e due lavorammo ad un film d’autoanalisi. Non ce lo siamo mai detto. Ci siamo persi di vista.

Sente di aver creato un film – Un uomo a metà – che rappresenta in un certo senso l’ombra di “Otto e mezzo”?

Oddio, che s’intende per “ombra”? Lo diciamo in senso junghiano? Certo che il mio film è stato l’ombra dell’altro, nel senso che Otto e mezzo ha riscosso un successo mondiale, visto da milioni di persone, vinto premi, riconoscimenti, mentre Un uomo a metà è stato distrutto dalla critica, apparso fugacemente nelle sale, insomma, ricoperto d’obbrobrio. Solo Pasolini e Moravia e pochi altri l’hanno sostenuto. Tuttavia a distanza di 40 anni viene ancora proposto. L’anno scorso l’ho rivisto negli Stati Uniti. Ci saranno state 500 persone, (e lì quasi tutte hanno fatto l’analisi), ma alla fine, mi è sembrato, ha suscitato ancora imbarazzo, disagio. È un film casto, eppure in Francia, nel ’67, la censura l’ha vietato ai minori di 18 anni. Che dire? Mi piacerebbe parlarne con Fellini. Certamente mi aiuterebbe a capire. Ma non ha molto senso chiedere a un autore un giudizio sulla sua opera, su quella degli altri. Un film è un tessuto fitto di sentimenti, pensieri, intuizioni. Perché tentare di sezionarlo col bisturi della cosiddetta “ragione”? Vorrei dire solo due cose: Un uomo a metà non è consolatorio e – come gli altri miei lavori – è un “film della realtà”, sia pure psichica.

Sono passati molti anni, cosa le è rimasto, quanto ha influito sull’uomo, sul regista De Seta, l’esperienza psicoanalitica? Pensa che sia stata decisiva per il suo percorso umano e professionale? Crede che il suo ultimo film, Lettere dal Sahara, risenta del lavoro con Bernhard?

Certo, l’influenza della psicanalisi è stata decisiva. Mi ha tirato fuori dal marxismo, dal materialismo. Con l’influenza junghiana ho riscoperto il senso del mistero, mi sono avvicinato alla religione. Mi è sembrato di tornare alla fede. Ma non ero soddisfatto, c’era qualcosa che non andava, non riuscivo a rinunciare alla ragione. Infine sono stato aiutato in modo decisivo dai saggi morali e religiosi di Tolstoj. Vede, è stato un percorso continuo. In sostanza non ho fatto i miei film dopo aver capito le cose, li ho fatti per comprenderle. Non mi sono mai specializzato. I film più che un fine sono stati un mezzo, (per questo sono pochi e diversi tra loro). Ma non vorrei prendermi troppo sul serio. È per dire che proprio il dinamismo, il coinvolgimento continuo, in prima persona, mi hanno impedito di naufragare nel nichilismo. Certo che il mio ultimo film Lettere dal Sahara risente del lavoro con Bernhard. Lui ha segnato la mia vita, in modo decisivo.

Che rapporto ha oggi con la sua vita onirica?

Non sogno più, o almeno non ricordo i sogni. Giorni fa finalmente ne ho fatto uno. L’ho trascritto ma non ho tentato di interpretarlo, come facevo una volta. Mi dispiace.

Sono quasi certo che De Seta tornerà a sognare e a interpretare i sogni come faceva una volta. Sono assolutamente sicuro che è tornato a farci sognare con il suo ultimo film “Lettere dal Sahara” che è una vera lezione di umanità ad occhi aperti, seppure nel buio delle sale cinematografiche. Il mio invito e la mia speranza sono di aver convinto i nostri lettori a tornare a vedere o a scoprire i suoi film, quelli di un vero, lucido e sincero maestro del cinema italiano.

Abstract

L’autore incontra una figura ormai mitica del cinema italiano, Vittorio De Seta, autore di quello che Caruso definisce il film “ombra” de “La Dolce Vita” di Fellini, “Un uomo a metà”. L’intervistatore paragona De Seta a E. M. Forster, lo scrittore inglese tra i più importanti del ‘900, la cui fama cresceva ad ogni libro che non scriveva; così è De Seta che con i suoi pochi film in oltre cinquant’anni ha segnato un solco indelebile nella cinematografia tricolore. In questa conversazione scopriamo che fu proprio De Seta a presentare il famoso Ernst Bernhard, (il medico e psicoterapeuta maestro di tanti bravi psicoanalisti e di molti importanti artisti italiani) a Federico Fellini. Abbiamo così un ritratto di uno degli ultimi mostri sacri della Settima Arte in Italia, che si dimostra un autentico gentiluomo (nobile lo è davvero per discendenza) nell’aprirsi per la prima volta su argomenti molto “psicoanalitici” e privati.

Vie (e) regie dell’inconscio. Intervista a Giorgio Albertazzi

in Amedeo Caruso – Regie dell’inconscio – Le radici psicoanalitiche del cinema italiano d’autore, Alpes, Roma, 2014. Clicca qui per l’intervista completa

Se il sogno è la via regia all’inconscio, come afferma Freud, molti artisti hanno trovato, forse prima di Freud, attraverso la loro creatività – come la psicoanalisi ha fatto con i suoi propri strumenti – la strada per conoscere i labirinti della vita interiore degli esseri umani.

Giorgio Albertazzi, che ammette candidamente di non sognare mai – o quasi, è stato ed è uno dei sommi ricercatori internazionali della rappresentazione scenica e cinematografica guidato (inconsapevolmente forse) dal demone ispiratore e illuminante – luciferino, dunque – dei misteri della psicologia del profondo.

Avvicinarsi ai segreti dell’inconscio pretende un corteggiamento quotidiano di opere letterarie fino a portarsele a letto, risvegliandosi e sognando ad occhi aperti di trasferirle sul palcoscenico o sul set, facendole passare prima dal filtro della propria imagerie.

Si tratta di utilizzare secondo me una trance peculiare degli artisti, che – quando sono tali – versano in uno stato perpetuo di reverie, che è in bilico tra il duende e l’ipnosi terapeutica.

Nel caso di Giorgio Albertazzi non soltanto il lavoro degli altri ma anche i suoi personali e originali scritti hanno configurato un mirabile e prezioso quadro che ci consentono di definirlo un vero e proprio “principe quaternario dell’inconscio teatrale e filmico”, con una strizzatina d’occhio a Jung, che “guarda caso” il Nostro ha anche conosciuto personalmente.

Un principe quaternario che si autodefinisce “un perdente di successo” che ha introdotto Dostoevskij e la Gradiva di Jensen-Freud nelle nostre case e vite televisive fin dagli anni ’70. E Shakespeare e “Il Silenzio delle sirene” e “Pilato sempre” e “Le Memorie di Adriano” e Pirandello e centinaia di altre rappresentazioni nei maggiori teatri italiani e stranieri.

Non c’è un autore o un testo da lui interpretato e/o diretto che non abbiano a che vedere con le problematiche e le meraviglie intriganti dell’inconscio. Basterebbe il suo dottor Jekyll per vincere una eventuale scommessa sull’importanza di psiche nella carriera di questo Senex-Puer in perfetto equilibrio tra saggezza e follia, raggiunta probabilmente mediante l’esperienza di impersonare anche mister Hyde, e riuscendo in quello che non riuscì al personaggio di Stevenson, che altro non è che un processo individuativo, una non-divisione tra l’essere e l’ombra, la ricerca della soluzione di continuo fra i due stati umani contrapposti.

Il Maestro ha capito che l’unico modo per partecipare al grande enigma della vita e dello spettacolo è quello di giocare nelle vesti del loser, dell’errante. L’unica possibilità per capire qualcosa della vita e dell’arte è di porsi nelle condizioni di giocarsi tutto sempre, perchè per capire il gioco bisogna cominciare a sapere come si sta quando si perde, quando si è disperati. Anche la vita riusciamo ad apprezzarla soprattutto quando rischiamo di perderla, o di perdere chi amiamo.

Mettersi in gioco nel caso di Albertazzi vuol dire ancora di puntare su testi difficili della roulette dello spettacolo (come rischiare insomma soltanto su un numero anziché accomodarsi sul rosso e nero).

Ma il destino degli iniziatori, di coloro che aprono la breccia nel muro che divide il vecchio dal nuovo, degli sperimentatori curiosi ed aperti a nuove conoscenze è sempre quello di sentirsi dei diversi, dei solitari che suscitano invidie ed incomprensioni ed in cambio ottengono una capacità introspettiva che li rende capaci di intravedere tutta la meschinità e la miseria umana. Questo è anche il compito e il destino del lavoro psicoanalitico, saper cercare per sè e per i propri psicoanauti le strade di una vita nuova, sostenendosi e sostenendo il lavoro comune nella ricerca della autenticità e della autonomia, per sedere insieme al tavolo della vita con il nostro personale doppio, che si chiami mr. Hyde oppure Dorian Grey ed aprire una “conversazione mai interrotta”, sotto il sole della creatività e senza mai dimenticare la lezione di Shakespeare che ci definisce tutti attori sulla scena dell’esistenza.

Queste sono le premesse psicoanalitiche che sono diventate un tessuto connettivo di grande fibra, resistenza e persistenza nelle amabili conversazioni con il Maestro Giorgio Albertazzi.

ABSTRACT

Amedeo Caruso prosegue il viaggio iniziato con le interviste ad artisti su sogni e psicoanalisi pubblicato in “Di che sogno sei?” (Liguori, ’97) incontrando questa volta l’attuale Direttore del Teatro Stabile di Roma Giorgio Albertazzi, attore e regista famoso in Italia e all’Estero (conosciutissimo protagonista di “L’anno scorso a Marienbad” (‘61) di Alan Resnais, nel cast di “Eva” (‘62) di Robert Losey, ancora con Resnais ne “L’assassinio di Trotzsky” (’72) e parla con lui della creatività e del mestiere dell’attore e del regista (Albertazzi ha interpretato in Italia centinaia di spettacoli teatrali lavorando, tra gli altri, con Visconti, Zeffirelli, e dirigendo opere scritte da lui stesso – Pilato sempre, Uomo e sottosuolo, nonché Pirandello e Shakespeare, senza tralasciare la televisione con un indimenticabile Idiota da Dostoevskij e un memorabile Memorie di Adriano dal libro della Yourcenar che sarà presto anche a New York). L’autore invita l’artista a parlargli delle motivazioni che lo hanno invogliato a realizzare il suo film “Gradiva” (’70) che è la prima trasposizione cinematografica mondiale del lavoro di Freud basato sulla novella di Jensen, il primo lavoro di psicologia dell’arte del fondatore della psicoanalisi. Conversa con questo brillante e disponibilissimo gentiluomo anche a proposito di un’importante messa in scena televisiva del dr. Jekyll e Mr. Hyde ispirata al racconto di Stevenson, scoprendo insieme ad Albertazzi le sue simpatie junghiane nate dal suo incontro con Jung a Bollingen nel 1954.

Intervista a Paolo Coelho

dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica – Estratto

Caruso: Il libro L’Alchimista, è pieno di riferimenti ai sogni. Per esempio Lei scrive: “…la possibilità di rendere la vita degna di essere vissuta, è quella di realizzare i sogni”, e ancora “…più vicini siamo ai sogni, più vicini siamo alla vita”, e anche “… chi crede nei sogni è capace anche di interpretarli”. Come è arrivato a questa bellissima conclusione per condividere la quale anche uno psicanalista può impiegare tanti anni?

Coelho: Prima di tutto la ringrazio molto per questi complimenti che mi ha fatto. Secondo, posso dirle che anche io ho passato un periodo della mia vita in cui c’è stata la psicoanalisi. Ma io ero davvero troppo giovane e certe cose non le potevo capire, avevo appena 19-20 anni. Sicuramente questa idea dell’anima mundi, (di cui parlo nel libro) molto più junghiana che freudiana, è stata (ed è ancora) tanto presente durante la mia vita. Quando io ho studiato l’alchimia, un’opera che mi ha davvero impressionato, è stato questo libro di Jung Alchimia e psicologia. In questo libro si parla molto del sogno come di una coscienza, intendo dire un epifenomeno che è una manifestazione universale. Nella vita ci sono molti archetipi che continuamente si trasformano e sono poi i codici di comprensione tra gli uomini. Si parla molto di questa luminosità, cioè di riuscire a condividere un certo simbolo anche se non lo si conosce, se non fa parte della propria logica. Gli antichi alchimisti, tramite questi simboli universali, hanno sviluppato quella che è la teoria, più che altro l’essenza, di questo linguaggio tramite i simboli, che molte volte si esprimono proprio tramite i sogni.

Allora veniamo al Suo mondo dei sogni. Questi sono cominciati prima dell’interesse per l’alchimia? Sono i sogni che hanno determinato l’interesse per l’alchimia?

Coelho: No. E’ stato il contrario: l’alchimia mi ha risvegliato l’interesse per i sogni.

Quando è cominciato questo interesse per l’alchimia?

Coelho: Verso i 22-23 anni, durante la generazione hippy. Sono stato affascinato non dalla parte classica della alchimia ma da quella riguardante l’applicazione diretta di essa. E, come tutti gli intellettuali, ho pensato che avrei potuto raggiungere un obiettivo concreto soltanto tramite la teoria. Questo, comunque è un equivoco, perché l’alchimia è la manifestazione di ciò che è la teoria trasportata sul piano concreto. Voglio dire che ciò che è nel mondo spirituale, il sogno per esempio, si riflette poi nel mondo concreto. Sicuramente questo non fa parte solo di me, non è una cosa solo mia, tutti gli oggetti che ci circondano fanno parte di sogni di altre persone, che poi si sono concretizzati.

I Racconti del Cuscino di Peter Greenaway

sul Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Con i “Racconti del Cuscino” si inaugura una nuova stagione per il Cinema: possiamo considerarlo il prototipo delle future pellicole e delle pellicole del futuro. Riesce in questa impresa il regista de “I Misteri del Giardino di Compton House” con ardimenti e sperimentazioni paragonabili a quelli del “Napoleon” di Abel Gance (che abbiamo visto restaurato alla Rassegna di Massenzio per i novant’anni del Cinema), ricordando le prove cromatiche di Antonioni per il remake de “L’Aquila a due teste” dal titolo “Il Mistero di Oberwald”, e ancora le costosissime tentazioni e realizzazioni tecnologiche di “One from the Heart” di Coppola che lo hanno portato al fallimento dei suoi Zoetrope Studios.

“Pillow book” è il titolo in inglese (perché così si chiamano nei Paesi di lingua anglosassone i diari personali degli adolescenti ed anche dei più cresciuti) e “Note del Guanciale” si chiama il libro di Sei Shonagon che ha ispirato il film.

Il testo letterario appartiene a quel tipo di letteratura giapponese che si ispira ai quaderni personali e segreti che buona parte delle persone istruite dalle parti del Sol Levante scriveva e continua a scrivere; ne abbiamo già visto la presenza in Tanizaki (“La Chiave”, racconto, poi film di Brass) ma anche dalle parti di Mishima e poi Ozu e ancora Kurosawa.

Se è vero, come dice l’onorevole zia della piccola Nagiko, che nella vita esistono soltanto due grandi piaceri, quello della carne e quello della letteratura, ebbene qui c’è pane per i giusti denti. Forse è per questo che la protagonista unisce perfettamente le due gioie: scrive letteratura sulla carne dei suoi amanti.

Questa giovane modella giapponese, che ha ereditato la passione del tatuaggio fine (calligrafico, artistico) dal padre che è uno scrittore umiliato e offeso (seviziato!) dal suo editore, ordisce la sua trama vendicativa come per un editore meglio non si potrebbe. La sua rivincita è anche duplice quando fra lei e l’editore malvagio si aggiunge un giovane amante di entrambi.

La bravura di Greenaway nell’affrontare un tema così “dermatologico” nonché “anatomopatologico” (ci riferiamo allo scuoiamento dell’amante bisex) consiste nel mantenere la bellezza orientale figurativa ispirata a Utamaro, Hokusai e Hiroshige, tre grandi disegnatori di temi erotici, raggiungendo eleganze estreme e rare precisioni cromatiche, con delicatezze espressive che accompagnano le proiezioni diverse con diversi colori e differenti dimensioni tutto in contemporanea senza che gli occhi si stanchino della voluttà di percorrere velocemente lo schermo dall’alto in basso e da destra a sinistra e poi a sorpresa nel quadrante superiore destro e poi già di lato…

Il film compie un percorso circolare, con ripetizioni e iterazioni sospese tra il didattico e l’ipnotico: ascoltiamo buona letteratura ed assistiamo a raffinato erotismo in questa educazione sentimentale ripescata dal padre del Baby of Macon nelle notti dei guanciali di mille anni fa. Carne, morte, letteratura e al diavolo la psicologia! (N.B.: inteso come: al diavolo spetta la psicologia!)

Chi ha paura di Edward Albee? (Da Chi ha paura di Virginia Woolf? a Tre Donne Alte)

dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Spero ricordiate tutti una tremenda e fantastica coppia del cinema e del teatro e finanche della vita: Elizabeth Taylor e Richard Burton, grandi attori, fenomenali bevitori, splendidi amanti, impareggiabili litigiosi sia sullo schermo che nella realtà. (La Bisbetica Domata non poteva che aspettare loro al cinema). Questa coppia superlativa ha fatto parlare di sé sia per i successi conseguiti insieme sia per la furibonda passione che li ha caratterizzati; sbronze colossali, matrimoni, divorzi, fidanzamenti e ancora matrimoni, che hanno contratto ripetutamente e il più delle volte fra di loro. Per buona pace dei nostri lettori non continueremo in una cronaca rosa postdatata. Vogliamo solo presentare un geniale e terribile figlio adottivo. Che ha scritto due capolavori del teatro di questo secolo. Il primo si chiama Chi ha paura di Virginia Woolf? del 1962 che ha avuto un incredibile numero di repliche ed é stato immortalato per lo schermo proprio dalla coppia Burton-Taylor per la regia di Mike Nichols e che ha fruttato nel 1966 l’Oscar alla bisbetica e indomita Liz e a Sandy Dennis, futura attrice altmaniana. Il secondo, Tre donne alte, è stato scritto nel 1991, dopo quasi trent’anni di sopore creativo, rappresentato in un teatrino sperimentale della 15ma strada, ha vinto nel 1994 il premio Pulitzer. Come non volevamo fare commenti da rivista patinata prima, così ora non desideriamo fare opera di critica teatrale. Quello che ci interessa a proposito di queste opere è un aspetto delicato e spietato contenuto in entrambe. Si tratta del rapporto genitori-figli.

Ci occorre riassumere brevemente il contenuto delle due commedie, che insieme rappresentano un vero trattato di psicopatologia quotidiana della coppia con e senza figli. In Virginia Woolf un opaco professore universitario cinquantenne sposa la figlia viziata del preside della facoltà e ne disattende le aspettative di diventare a sua volta preside, ospita insieme alla moglie-arpia in una serata alcolicissima una giovane coppia, anch’essa universitaria, lui professorino ambizioso, lei tenera, fragile e fresca sposa affetta dall’angoscia della gravidanza vissuta come induttrice di atroci patologie. In un crescente gioco di massacro la coppia anziana si procura dapprima le ferite più cocenti rinfacciandosi debolezze e colpe lontane e presenti per poi coinvolgere i due attoniti pivelli. Sembrano entrambe coppie senza figli, ma ad un certo punto viene fuori un’invenzione tragica: un presunto figlio della coppia più vecchia e più alcolemica viene tirato fuori soltanto per essere ucciso, sempre nell’invenzione, in un tragico incidente, trascinando i due inconsapevoli alla finestra del loro probabile baratro.

In Tre donne alte, recentemente visto anche in Italia per la accorta e sensibile regia di Luigi Squarzina, dopo l’enorme successo americano, si parla di tre donne e si scopre che non sono nient’altro che le tre età di una sola donna, divisa in tre per ragioni drammaturgiche, come Le Tre Età di Casorati, i Sussurri e grida di Bergman, le Tre Donne di Altman. Il partner maschile è assente sulla scena ma si parla di lui (malissimo). Un figlio presente nell’azione drammatica per poco tempo, non parla mai.

Se come dice Keats di Shakespeare ogni drammaturgo è un camaleonte che si trasforma nelle sue creature, qui le creature della vita del drammaturgo lo assillano non per essere trasformate, ma trasportate dalla realtà sulla scena; così il commediografo americano affonda il coltello nella piaga delle relazioni genitori-figli.

Vediamo in queste opere che cosa riesce a fare la sofferenza di un bambino rifiutato dai genitori biologici e adottato dai ricchissimi Albee, eredi di teatri di varietà ed impresari teatrali. Dopo aver vissuto, come tutti i rampolli di famiglie alto-borghesi, un’adolescenza protetta, comoda e ottusa, Edward Albee, oggi sessantottenne, sempre sessantottino, rompe con la sua famiglia adottiva dopo aver tentato disperatamente e senza successo di contattare i suoi veri genitori. Il giovane Edward vive le trasgressioni più in voga al Greenwich Village, fa i lavori più modesti, ma vive una vita tutta all’insegna dell’abbandono, accetta i lavori più umili e pratica per un certo tempo l’omosessualità, che non ha speranza né progetti di figli e poche probabilità (almeno negli anni 60) soprattutto di adozione. Abbandona i genitori adottivi quasi come i genitori biologici hanno abbandonato lui, e accetta soltanto un piccolo aiuto di un parente, quasi a farsi beffe dell’immensa fortuna dei secondi genitori. Intanto però si forma come scrittore ed anche come regista dei suoi lavori, cui la fortuna arride assai presto. Scrive Chi ha paura di Virginia Woolf? attingendo a ricordi e fantasie che lo vedono figlio assente, morto senza nascere così come si immagina essere stato per i genitori che lo hanno creato. Dopo trent’anni chiude i conti (o li apre, che è lo stesso) anche con la famiglia adottiva. Quel figlio muto al capezzale della madre vecchissima è forse lui, senza parole, perché non ci sono parole per descrivere la sofferenza di non aver risposto alla chiamata della madre adottiva moribonda.

Non ci sono proprio risposte? Crediamo di sì. Ci piace pensare che l’unica risposta possibile fosse trasformare questo gioco assurdo di amore materno, paterno e filiale che non ha mai recettori e soltanto anticorpi in una rappresentazione drammaturgica che non ha paragoni. Perché non soltanto di questi rapporti si tratta nelle due commedie, ma di molto di più. Il peso dell’esistenza, la sofferenza dell’invecchiamento, i volti dietro le maschere. L’inferno della coppia si può guardare da tutte le angolature, l’agente segreto teatrale Albee ha frantumato ogni muro della sacra famiglia. Nel dittico in questione nulla è risparmiato a questa istituzione. Un piccolo spiraglio di pacificazione sembra ravvedersi nel dolore di tutti, unico lenitivo delle richieste d’amore mai appagate. Su entrambi i lavori si stende un sudario pietoso di accettazione e nient’altro. Una calma catartica ci riveste alla fine dei due drammi, senza vincitori né vinti, senza più frastuono né urla di dolore. Si scorge soltanto in lontananza un sorriso triste sulla bocca del grandissimo Albee che con la pena della sua infanzia difficile ha consegnato alla sua penna creativa innumerevoli coazioni a ripetere le scene di vita familiare nei teatri di tutto il mondo, per rifletterci e farci riflettere.

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in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

Il mostro di Venezia (ci) colpisce ancora. Appena allagunati vediamo Bad, un polpettone documentario noioso e inutile, confezionato da una stella del cinema statunitense (supernero)americano, Spike Lee, quello di Fai la cosa giusta, per intenderci, ma questa volta l’ha fatta sbagliata. La pellicola è un tormentone di interviste ad amici e collaboratori della compianta rockstar Michael Jackson, ed è insopportabile la pesantezza dei dialoghi, la banalità delle domande, e l’ampollosità lacrimosa delle risposte, tutto un “come era buono, perfezionista, sagace, creativo!”, senza mostrare che qualche spezzone filmato del divo, scelto tra gli insoliti, ma anche insignificanti. Bad, “Cattivo”, è un titolo che si trasforma in giudizio lapidario. Vogliamo credere che Spike Lee sia andato in vacanza, mentre il film si girava da solo malamente. Ci rianima Fill the void (Riempire il vuoto) dell’israeliana Rama Burshtein, che descrive con meticolosa attenzione, e ammirevole eleganza, usi e costumi di ebrei osservanti. È una storia molto, molto tradizionale, lontana mille miglia di pellicola dalle cerimonie yiddish sarcastiche di Woody Allen. In una comunità ortodossa, che sembra uscita dalle due succulente raccolte di racconti Alla corte di mio padre e Altre storie alla corte di mio padre di Isaac Singer, accade un triste evento: una giovane moglie muore, pur dando alla luce il bimbo di cui è gravida. Ma dopo il dolore, dopo una breve sofferenza, bisogna “riempire il vuoto”, e si scatena una sarabanda di intrecci che porteranno la sorella più giovane della morta ad una soluzione che non riveleremo, mentre desideriamo lodare la bravura e la freschezza della stessa interprete Hadas Yaron, che si distingue per la sua recitazione naturale e disinvolta. Vincerà infatti la Coppa Volpi come migliore attrice, ma noi, che l’abbiamo incrociata cinque giorni prima della premiazione, ci eravamo già complimentati con lei, affascinati dalla sua recitazione, e le abbiamo carpito un segreto: la sua mamma è una psicologa! Riportiamo due perle psicologico-religiose di quest’opera: alla famiglia sprofondata nel lutto, il rabbino dice Chi soffre molto è molto vicino a Dio e, sempre per bocca dello stesso, Beato chi riesce a dire una sola parola di verità a Dio! L’ermetico dio del cinema ci conduce presto verso un altro film ebraico, Lullaby for my father di Amos Gitai, un ricordo affettuoso del regista per il padre, architetto del Bauhaus tedesco, sfuggito all’Olocausto, e riapprodato nella Terra Promessa. Si tratta di un film personale e tenero come una ninna-nanna, da cui il titolo. Ma la forza delle parole contenute nella lettera (in apertura del film), che la figlia del regista scrive al padre (il regista), resterà fortemente impressa nella nostra memoria, perché dipinge un ritratto duro, aspro e veritiero della gioventù contemporanea di tutto il mondo, descrivendone liricamente le difficoltà e le incertezze, la crisi di valori e le ansie professionali e occupazionali. Prima di questo lungometraggio viene presentata un’operina (22 minuti) di Liliana Cavani, Clarisse, che si svolge in un convento di suore, intervistate sul ruolo del femminile che prende i voti, e sui massimi sistemi della Chiesa, in modo smaccatamente retorico, dalla stessa regista, ormai lontana, anni Lumière, dall’ispirazione e intensità dei (due!) bellissimi su san Francesco d’Assisi, o Milarepa o I Cannibali, per citare i suoi film molto spirituali, e davvero riusciti. Ma si vede che con le suore il cortometraggio non riesce alle autrici italiane (bruttino era anche Per sempre di Alina Marazzi del 2004, sempre sulle monache, ma di clausura), e Clarisse non è capace di scuotere la nostra anima naturaliter cinematographica; ma essendo la produzione a carico dalla moglie di un certo predicatore catto-televisivo ex-molleggiato, la cosa ci fa temere una sua proiezione in rai e presso famiglie cristiane e luoghi vaticani, con finale distribuzione afilantropica di dvd clan-paolini. Voglio ricordare un amabilissimo documentarietto dell’agnostico Rossellini, quando rivisita i luoghi e i personaggi del suo Francesco, giullare di Dio, che forse le due signore hanno visto (?) svogliatamente, per far tornare la gioia della fede nel cinema. Insomma, la Cavani se la cava male come Spike Lee. Il giorno dopo è il turno di Kitano, che con il suo Outrage Beyond, non aggiunge niente ai suoi precedenti film sugli yakuza, ma riscalda solo una pizza già scongelata e ricongelata, indigesta. Preferiamo i suoi L’estate di Kikujiro e Dolls, che ci hanno ammaliati non troppi film (suoi) fa. Non facendo parte della giuria, ci regaliamo la visione restaurata di un gioiello del cinema, di Joseph Mankiewicz, Il fantasma e Mrs. Muir, del 1947, che è un piccolo capolavoro di interpretazione e dialoghi, tanto da sfidare coraggiosamente gli abissi del più sano sapere psicologico per saggezza, ironia e bellezza. Una triade di attori in stato di grazia, Gene Tierney, Rex Harrison e George Sanders, si miscelano in una storia imprevedibile e fantasiosa. Un film che ci piace pensare sia stato amato anche da Hillman, per la sua forza immaginativa. Dopo le crudeltà di Takeshi “beat” Kitano, siamo pronti alle atrocità di Kim Ki-duk, che vincerà il Leon d’oro, con questo Pietà, ma dobbiamo avvertire i cuori deboli e le anime tenere, che non esiste intrattenimento in questo film, trattandosi di una cruda lezione di anatomia patologica su cadavere, per una matricola di medicina istruttiva e necessaria, ma obbligatoria solo per futuri medici o critici di mestiere. L’amore materno è senza limiti, come è senza pietà la vendetta di un figlio abbandonato per una madre che lo ricerca trent’anni dopo, vuole dirci il regista coreano. Inoltre, in questo lavoro, risulta scottante il tema del denaro, su cui crediamo però che il Bresson de L’argent abbia detto quasi tutto, e perfettamente. Ma non torneremmo a rivederlo, neanche per pietà dello stesso regista, la cui storia personale è invece un compendio di psicopatologie artistico-umane, da studiare e interpretare dagli alienisti, mentre siamo pronti ancora alla re-visione di Bloody Mama di Corman, che tratta all’incirca la stessa faccenda, facendone un trattatello sull’Edipo molto più efficace e godibile, pure violento, ma insuperabile nella sua tessitura da tragedia greca. Se invece volete soffrire accomodatevi, e forse non ve ne pentirete. Sempre più convinti dell’enunciato hillmaniano che il cinema (e la letteratura, naturalmente …ma cos’è il cinema se non letteratura filmata, pagina scritta in sceneggiatura resa visiva?) sia a volte più rapido ed efficace a provocare cambiamenti e riflessioni, di quanto non riescano a far magari ore di analisi, ci consoliamo con un dolce film messicano, No quiero dormir sola, di Natalia Beristain. Questa giovanissima regista racconta del rapporto tra una anziana attrice e la nipote, con un gioco di rispecchiamenti e di ritrovamenti, che le vede litigare e scontrarsi, per poi riconoscersi l’una nell’altra, una senex ed una puella che poi non sono che due profili di un’unica persona, e si integreranno. Sarà mai distribuito in Italia? Ce lo auguriamo. Vedrete però presto sugli schermi, ne siamo certi, un dono serenissimo (come la città che ci ospita) che ci ha fatto Susan Bier, dirigendo Love is all you need, che è una deliziosa ma non superficiale, leggera ma non effimera commedia. L’aver visto tutti i film, un po’ come Mallarmé si vantava a proposito dei libri, ci ha obbligato a ripensare a quanti modelli abbia preso in prestito l’autrice e dunque citabili per questo brillante film, con dialoghi intelligenti ed ironici, e attori tutti perfettamente nelle parti, a cominciare dall’ex 007 Pierce Brosnan, che regge superbamente il paragone con Cary Grant e George Clooney, in film smaglianti del genere, cui strizza l’occhio. E allora, ecco gli archetipi del nostro: Che cosa è successo tra mio padre e tua madre (Avanti! era il titolo originale, molto più giusto e misterioso, mentre quello italiano doveva spiegare già tutto il film ai poveri abitanti dello stivale), sia per la trama che per l’ambientazione, ad Ischia per Billy Wilder, a Sorrento per la regista danese. E ancora Stregata dalla luna, cui ruba sfacciatamente e ripetutamente, la canzone di Dean Martin That’s Amore, ma anche certe atmosfere, e infine Monsoon wedding, per le sorprese matrimoniali. Eppure, nonostante questi sfacciati borseggi, il film è pieno di invenzioni e di simpatia, inclusa la morale dichiarata fin dal titolo (anche questo un furtarello, che mischia soltanto le stesse parole di una celebre canzone dei Beatles), che fa cadere in brodo di giuggiole tutti gli umani, psicoanalisti e pazienti inclusi. Anche questo film è barattabile, hillmanianamente, con circa cinque sedute di psicoterapia. Siamo riusciti a vedere un reperto archeologico di Peter Brook, restaurato, Tell me lies, degli Anni Sessanta, ripreso da uno dei suoi primi spettacoli teatrali, e non vi diciamo bugie se la sua carica pacifista è ancora vigorosa, basta sostituire il Vietnam con le guerre in corso oggi. Concludiamo con la Bella addormentata di Bellocchio, che è insieme uno splendido film politico, bioetico, poetico. È un quadro che va guardato con attenzione e trasporto, perché farà parte dei grandi film italiani di questo secolo, e che potrà raccontare davvero ai nostri figli come eravamo, e come potremmo cambiare, in politica, in bioetica e in amore.

crisi.globale@psiche.cinema

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013

Questo numero del Giornale Storico va in stampa proprio mentre l’Italia sta per configurare il nuovo volto del Governo del Paese, in questi tempi di crisi, con un risultato che di sicuro ci riserverà qualche sorpresa, come quella che abbiamo visto in questi giorni realizzata da un regista-scrittore che conosciamo bene, Roberto Andò. Abbiamo pubblicato sul n. 11 di questa Rivista, nell’ottobre 2010, una lunga intervista con l’artista, che riteniamo tra i migliori metteurs en scène italiani, capaci di rappresentare validamente il nostro cinema nel mondo e che abbiamo scoperto tra i più dotati di cultura e respiro internazionale, nonché tra i più importanti esponenti dell’assorbimento intelligente e creativo del distillato psicoanalitico. Il suo ultimissimo Viva la libertà è appunto un film sulla crisi della politica, che affonda però le sue ragioni anche nella crisi dell’identità non solo politica. Interpretato da un versatile, simpaticissimo Toni Servillo, nel doppio ruolo del politico in decadenza e del suo fratello gemello autore del libro L’illusione di vivere, questo film è davvero una medicina sana e utile per sedare i nervi e portare speranza nei cuori romantici seguaci di Psiche. Guarda caso i due fratelli (la genetica non è acqua) soffrono entrambi di patologie psichiatriche: l’onorevole Enrico Olivieri è affetto da sindrome depressiva che cura soltanto con farmaci; lo scrittore, da poco dimesso da una clinica psichiatrica, ha un importante disturbo bipolare, ma si capisce che oltre i farmaci ha sicuramente ricevuto diverse iniezioni di psicoterapia. Perché sarà proprio lui, Giovanni Ernani (i cognomi diversi sono forse dovuti al fatto che il fratello di successo avrà imposto questo cambio?), a dare il giro di boa del cambiamento al germano omozigote. Giovanni si sostituisce, su proposta del segretario personale (Valerio Mastandrea) del politico, quando quest’ultimo scompare dalla circolazione in preda a un pessimo disturbo dell’umore. Enrico si rifugia in Francia, dove sarà ospitato dall’ex fidanzata (Valeria Bruni Tedeschi), che lavora nel cinema, e in casa di lei ritroverà la pace e i valori perduti. Il fratello burlone – e mica tanto matto – si rende gradito ed amabile nei confronti di tutti gli amici e i galoppini dell’uomo politico. Per quello che dice e fa, commuove finanche il suo fedele collaboratore, l’unico a conoscenza dello scambio, insieme alla moglie del politico. Tra i due gemelli non corre – è il caso di dirlo – buon sangue, non si parlano da oltre trent’anni. Quindi il giuoco delle parti è ancora più intrigante per il soave esule dal manicomio, dove condurrà anche il “suo” segretario per una serata di ballo insieme ai suoi amici matti, un momento davvero esilarante del film. Inoltre, stabilirà un sodalizio dolce e tenero con la cognata-moglie. Strabilierà il solito segretario, che lo scopre sbirciando attonito e compiaciuto dal buco della serratura, mentre ha un colloquio privato con una donna politica tedesca e la invita a danzare un tango a piedi nudi. Sembra quasi una richiesta di perdono, da parte del regista, ma in nome dell’Italia tutta, in ricordo delle cronachistiche gaffes non troppo lontane di un premier che bistrattò la Cancelliera Merkel in più occasioni. Nel frattempo anche il vero politico avrà il tempo e il modo di fare le sue conquiste. Affascina ed è affascinato da una giovanissima assistente di regia del film – diretto dall’attuale marito della sua ex fidanzata – ed avrà anche un ritorno di fiamma con la stessa, che si scopre essere stata amata addirittura da entrambi i fratelli, un’estate al Festival di Cannes. Davvero poetico è però l’incontro con la figlia di lei, che gli si affeziona e con la quale ritrova una dimensione infantile e appassionata della vita. Mentre il finto politico delizia gli astanti con un haiku pronunciato con nonchalance e si ristora con improvvise e tranquillizzanti passeggiate al mare con la falsa moglie, l’esule francese lo chiama al telefono, forse per ringraziarlo, dato che legge gli eventi sui giornali che gli capitano sott’occhio in Francia. Ma ormai la rivoluzione psicologica è scoppiata. Il nuovo-vecchio segretario di partito, ricco della sua follia maniacale, entusiasma il pubblico ai comizi e sbalordisce un giornalista che gli vorrebbe “rubare” un’intervista, che si rivela invece un colpo gobbo contro il partito di maggioranza. Il fratello indegno canticchia o gorgheggia continuamente l’ouverture de La forza del destino di Verdi, che si trasforma in un canto di battaglia e di cambiamento radicale.

Psiche salverà il mondo. Una speranza psicofuturista

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013

Le ragioni della crisi globale, che cresce a ritmo di galoppo coinvolgendo una nazione dietro l’altra, riconoscono la principale radice nello squilibrio e nella perdita economici. Nonostante i tentativi di salvataggio da parte degli esperti, economisti e politici in primis, si scivola sempre più in una condizione dove i poveri del pianeta diventano sempre più poveri e una sparuta minoranza di ricchi diventa sempre più opulenta. Non potrebbe questo squilibrio avere un significato anche psicologico? E dunque una conseguente richiesta di interpretazione da parte di noi psicoanalisti? E quali ripercussioni avrà sulle correnti di potere che, come è noto, si basano quasi sempre sull’avere anziché sull’essere? Basterebbe (ri)leggere l’omonimo libro di Erich Fromm Avere o essere? del 1976, dove lo psicoanalista umanista aveva già anticipato molte riflessioni che fanno le persone sagge ed equilibrate oggi, e previsto la crisi globale che ci troviamo ad affrontare attualmente. E quale potrebbe essere il ruolo nuovo della psicoanalisi, vecchia più di centodieci anni? Non potrebbe trattarsi soprattutto di un problema di libertà? Già altrove ho affermato che il fine più importante della psicoanalisi, compreso nella cura, ma indispensabile alla guarigione, è la ricerca e il ritrovamento della libertà dell’individuo. Correlato a questo intento è il problema enucleato da Fromm, se insomma vogliamo avere o essere, e quale differenza passi tra governare il tempo ed essere sottomessi ad esso. Tanto più siamo schiavi del potere e del denaro ed anche del tempo, tanto meno saremo liberi.

La psicoterapia è una professione che non può, non deve basarsi su aspettative di ricchezza, ma soprattutto su gratificazioni impagabili e spesso inenarrabili che rendono questo lavoro ˗ questa inclinazione ˗ entusiasmante. E naturalmente senza nulla togliere alla professionalità e all’etica professionale, che meritano un giusto onorario.

Devono dunque disperare, anzi temere, di diventare ricchi gli aspiranti psicoanalisti o i presunti tali, pena la loro dannazione professionale. In psicoanalisi non si può ragionare con il dio denaro in testa. Lo scopo dell’analisi riguarda principalmente e sempre l’analista, che non potrà essere dunque schiavo né del denaro, né di alcuna persona.

Lo stesso Freud effettuò qualche psicoterapia a prezzi davvero ridicoli o addirittura gratuitamente, e non fu il solo nella storia della psicoanalisi. Freud praticò l’analisi gratuitamente ad Eva Rosenfeld (amica di Anna Freud) e a Marianne Kris. Forse avvenne gratuitamente l’analisi cui Anna Freud si sarebbe sottoposta con Lou Andreas Salomè. Freud non divenne mai ricco, se pensiamo che gli ultimi anni della sua vita era costretto a pagare alte parcelle mediche per i trattamenti oncologici cui veniva sottoposto (chemio e radioterapia inclusi i ricoveri); una volta commentò che tutto un trattamento analitico al quale avrebbe sottoposto un medico americano, sarebbe costato quanto un suo breve ricovero in clinica!

Qual è dunque il grande insegnamento-scopo dell’analisi? Il recupero, la ricerca di tutti i valori che non hanno prezzo: l’amore, l’amicizia, la generosità, l’onestà, la stima, il rispetto, l’onore, il sacrificio, l’integrità professionale. La frequentazione di Psiche deve condurre al ritrovamento di se stessi, esaltando e rinforzando le fibre che costituiscono il tessuto connettivo nobile di ogni individuo.

Abstract

Amedeo Caruso, fondatore del Movimento Psicofuturista, si domanda se Psiche salverà il mondo. Non propone la psicoanalisi ˗ l’amabile signora che ha ormai centodieci anni ˗ come salvatrice, ma una Nouvelle Psyche, la giovane figlia della psicoanalisi, che ha imparato la lezione della madre e cerca di diffondere il sano contagio per il mondo. Le istruzioni per l’uso consistono nel nutrire e far risorgere gli aurei valori incontaminati appresi dalla madre: l’amore, l’onestà, la saggezza, la generosità, l’amicizia, la stima, il rispetto, l’onore, il sacrificio, l’integrità professionale. Questa è una speranza psicofuturista.

Hillmania

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Quando intervistai Hillman a Torino nel 1995, grazie alla generosa e amichevole mediazione di Carotenuto, gli rappresentai la mia gratitudine per aver scritto un libro così bello. Trascrivo un breve pezzo della nostra conversazione di quel giorno al Convegno sui colori:

Dottor Hillman, la lettura de “Il suicidio e l’anima” mi ha cambiato notevolmente, ha rigenerato il mio rapporto con la medicina. Da Medico Internista, stretto osservante di canoni organicistici quale ero, dopo aver letto il suo libro ho capito quale fosse, per dirla con Pirandello, “il dovere del medico” …

E Hillman: Vede, scrivere quel libro ha cambiato anche me. Perché si deve assolutamente affermare il problema del suicidio, della morte, se si vuole diventare un vero terapeuta. Altrimenti, in realtà, si fa solo un lavoro di igiene e pulizia. E pensi che questo libro è stato scritto trent’anni fa. E io ancora la penso esattamente così. Tutto è rimasto uguale come allora. Ancora adesso ricevo lettere di gente che mi dice la stessa cosa, mi ringraziano per aver offerto delle idee che cambiano la vita.

Un altro aspetto entusiasmante del colloquio con il fondatore della psicologia archetipica è stato quello enucleato sempre nella nostra conversazione a Torino. Quando gli chiesi a proposito dei valori della vita anteposti al consumismo, mi rispose che oltre alla natura e all’anima, andava mantenuta viva la morte! E che bisognava resistere … Preservare, proteggere. Tornare insomma all’antico compito rivoluzionario, essere dei sovversivi, come ha fatto Freud, che era visto come un sabotatore del mondo medico dei suoi tempi …

Ho preso allora a leggere tutti i libri che riuscivo a procurarmi di Hillman, e devo confessare che, se non fosse per merito di Giorgio Antonelli, la mia frequentazione hillmaniana si sarebbe fermata a Il sogno e il mondo infero, che trovai ostico e legnoso. Ne parlai così con Giorgio, che mi consigliò semplicemente di rileggerlo. Cosa che feci, e devo ringraziarlo, perché mi sono ricreduto totalmente, ed ho capito che occorreva soltanto una ulteriore riflessione sul testo. Sento di poter affermare con sicurezza che un vero e decisivo passo avanti nella interpretazione onirica (e dunque nella psicoterapia) è stato compiuto soltanto da Hillman, dopo Freud e Jung. La sua re-visione della psicologia ha spostato il campo da un orizzonte e un obbiettivo soltanto terapeutici ad una lettura e ad una comprensione della sofferenza umana – o forse dovrei dire semplicemente dello status umano – che si dissocia dalla necessità assoluta di guarire a tutti i costi. Dunque i sogni possono essere terapeutici, ma possono riguardare non soltanto o non esclusivamente il sognatore, come ci spiega nella collezione di sogni sugli animali intitolata Animali nel sogno del 1982, dove i problemi con gli animali diventano anche i problemi dell’umanità con il mondo animale, e dunque con l’ecosistema. Come mi diceva, sempre nell’intervista rilasciatami: Cosa ne facciamo degli animali degli nostri sogni? Li uccidiamo? Scappiamo via da loro? Questo, come vede, è un problema ecologico. Quando ho scritto a proposito degli insetti, è perché lo ritenevo di estrema importanza, infatti gli insetti inquinano il cibo, e così fanno i pesticidi, e la stessa cosa facciamo noi con la paura degli insetti, che è nella nostra psiche (avere gli insetti in testa, “bugs in the head” è una frase idiomatica americana per indicare il massimo della confusione, nda). Oggi, negli Stati Uniti, si usano troppi pesticidi, agenti chimici nel cibo, nel mais, nel pane, negli animali… così avviene per la nostra paura degli insetti… Noi stra-uccidiamo, capisce cosa intendo? Stra-uccidiamo la Natura… questo è un problema psicologico! Ecco perché lo psicoanalista, colui che interpreta i sogni, deve ragionare ecologicamente.

Sempre nello stesso colloquio, il futuro autore di Un terribile amore per la guerra, mi confidò che un suo maestro di circa cinquant’anni prima (Jung stesso?) era solito dirgli che ogni sogno nel quale non camminiamo, è un disastro! E Hillman mi confidò, sorridendo, che anche sognare di andare in bicicletta può essere un segnale di salvezza.

Abstract

In questo articolo l’autore, che si proclama senza vergogna “hillmaniaco” fin dal titolo, percorre a ritroso un cammino che lo ha condotto, dalla lettura dei libri di James Hillman, fino alla sua conoscenza personale, sfociata in un’intervista pubblicata in anteprima sul Giornale Storico del 1996 e poi nel suo libro Di che sogno sei? La scoperta del pensiero hillmaniano diventa un tesoro e un’eredità che qualunque medico e psicoterapeuta può fare suoi, arricchendo felicemente la sua professionalità e la sua vita interiore. Vengono inseriti nello scritto due esempi artistici – Patti Smith e Chet Baker – che potrebbero essere facilmente considerati delle postille al Codice dell’anima. Il racconto è condito anche da un saporito ricordo hillmaniano che lo psicoanalista Luigi Aurigemma ha confidato all’autore..

Uccidere chi? Una risposta femminile psicofuturista dal XX secolo

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

La condizione femminile è in forte disparità, e grave sofferenza – dall’alba del genere umano – rispetto a quella maschile. Lo scopo di questo scritto è di ricordare, tratteggiandone brevi aspetti biografici, alcune donne del secolo scorso, le cui caratteristiche psicologiche e comportamentali ci sembrano così speciali da poterle definire creature psicofuturiste “ante litteram”. Il movimento psicofuturista da me fondato nel 2009, riconosce e propugna, sulla base dell’idea junghiana di animus e anima, una piena uguaglianza e commistione, rispetto e comprensione tra l’universo maschile e quello femminile, che, pure nella loro anatomica e fisiologica diversità e differenza, meritano gli stessi diritti ed hanno le medesime necessità. Personaggi psicofuturisti sono dunque tutti quegli esseri viventi che nel corso della storia hanno contribuito a una reale crescita e ad un vero progresso del genere umano, soprattutto perché dotati di qualità psicologiche eccezionali e animate da rispetto e considerazione per il diverso sesso. Lo statuto fondativo del CSPL fa riferimento costante agli artisti, e non è quindi casuale l’attenzione precipua che viene dedicata, anche in questo scritto, a tre personaggi della letteratura, Lillian Hellman, Simone de Beauvoir, e, nel caso di Mae West anche del cinema, pur essendo quest’ultima autrice di testi teatrali e autobiografici. Le lettrici e i lettori dovranno riconoscere insieme a me che la politica, anche quella più democratica, non è riuscita a parificare onestamente i rapporti tra i sessi sia a Casa che a Scuola, non in Parlamento e neanche nella Società. Ci riferiamo naturalmente solo alla condizione femminile occidentale, perché sul mondo orientale possiamo pronunciarci solo con prudenza ed i necessari limiti di un occidentale (psicofuturista, però, quale spero possa essere considerato ogni autentico psicoanalista), esprimendo un sentito dissenso e un fiero sgomento per la realtà femminile indiana, cinese, araba, ma anche giapponese, dei paesi dell’Est, dell’Africa ed anche del Sud-America, così come la conosciamo, sia per esperienza diretta che per informazione ed approfondimenti culturali.

La vita di Lillian Hellman è stata da lei raccontata in alcuni notevoli libri, usciti a distanza di tempo l’uno dall’altro, costituendo una vera e propria tetralogia autobiografica. La Hellman è uno dei primi esempi di donne che definiamo psicofuturiste per merito delle sue scelte professionali, sentimentali e politiche. La lettura dei volumi che scrisse tra il 1969 ed il 1980 ci fa scoprire un grande talento senza inibizioni né paure, e rivela la storia di un personaggio speciale e indipendente. Il primo libro, che si intitola Una donna incompiuta, vinse lo stesso anno della pubblicazione il National Book Award, a questo seguirono Pentimento, Il tempo dei furfanti e un’ultima breve, significativa appendice che è Una donna segreta, edito quando lei ha 75 anni e può davvero fare un bilancio del suo cammino umano ed artistico. Questi scritti contengono moltissime pagine estratte dai suoi diari e ci consegnano il ritratto di una figlia della buona borghesia vissuta e allevata in uno stato del Sud Americano, la Louisiana, e poi trasferitasi a New York, dove comincia a lavorare collaborando con l’editore Liveright e studiando letteratura e filosofia. A vent’anni sposa l’agente teatrale Arthur Kober, si lancia nel mondo della scrittura recensendo libri per il New York Tribune e ha l’incarico di scegliere copioni teatrali, facendone una vera e propria indigestione che però esiterà nel suo primo lavoro teatrale, L’ora dei bambini, che avrà un successo clamoroso. Ancora oggi, nella sua trasposizione cinematografica, rimane di una modernità sconvolgente, trattandosi di una storia omosessuale al femminile, che ebbe addirittura due versioni, dirette entrambe da William Wyler, nel 1936 e l’altra nel 1962 (con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine), quest’ultima senza il lieto fine imposto dal produttore Sam Goldwin nella prima. Dopo questo successo teatrale (nel quale si trovano evidenti richiami alle buie atmosfere di quel tempo americano dove si dava la caccia alle streghe comuniste anche tra gli artisti) Lillian, che nel frattempo si è già separata dal marito – e ha già incontrato colui che definirà sempre l’uomo della sua vita: Dashiell Hammett – si accinge a compiere molti viaggi in Europa e in Unione Sovietica fino al 1937. Nel 1941 scrive un dramma politico intitolato Veglia sul Reno, dedicato alla sua amica scrittrice Dorothy Parker, un’altra vera donna psicofuturista e antifascista. Lo scritto verte sulle responsabilità americane nei confronti del fascismo e le fa guadagnare l’ambìto Premio della Critica Teatrale di New York. A trentaquattro anni compone, sempre per il teatro, Piccole volpi che, oltre ad essere un successo strabiliante al botteghino, le fa vincere il premio Pulitzer. Anche questa pièce provoca scandalo e rimostranze nella classe conservatrice e perbenista americana, ma la Hellmann si diploma così tra i drammaturghi più incisivi e corrosivi dei suoi tempi. Convive già insieme a Dashiell Hammett, anche lui reduce da un divorzio e soprattutto armato di una geniale attitudine per la scrittura (sarà un maestro della giallistica hard-boiled mondiale, che non teme il confronto con la cosiddetta Letteratura di serie A, al pari di Raymond Chandler e S. S. Van Dine, Georges Simenon e Agatha Christie, Conan Doyle e E. A. Poe) e di una caparbia convinzione politica filocomunista, che gli farà scegliere la prigione piuttosto che finire delatore di amici sospettati. La loro convivenza stabilisce anche un binomio artistico di una creatività eccezionale. Non sarà un caso che tutta la produzione teatrale della Hellmann coincide con il periodo della loro vita insieme. Consiglierei Chi mi sta leggendo di andarsi a cercare un vecchio film di Fred Zinneman, Giulia, del 1977, con protagoniste Jane Fonda e Vanessa Redgrave, è ispirato a una storia vera che la Hellmann ha scritto su una sua grande amica, il cui testo è contenuto nel libro già citato Pentimento (1973). Chi avrà la curiosità di vederlo mi perdonerà se cito (a memoria) una sola pregnante scena nella quale la protagonista (una Lillian Hellmann interpretata da una superba Jane Fonda) litiga con Hammett che vorrebbe impedirle di partire nuovamente in Europa, nella speranza di ritrovare la sua amica, che lui dà sicuramente per morta, uccisa dai nazisti; e lei, che non si lascia convincere, mentre fa le valigie – quando lui le consiglia di lasciar perdere – gli ribatte: Vuoi che mi dimentichi così anche di te? Inoltre pregherei quei volenterosi cinefili che riusciranno a conquistare il film di fare attenzione alla scena in cui viene delineato a tutto tondo il forte legame artistico fra i due – quando lui si fa aspro critico di un pezzo che lei gli sottopone – per capire proprio bene di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, come direbbe Raymond Carver. Hammett muore nel 1961 e lei gli dedicherà poi nei suoi libri appassionati capitoli e citazioni, più una splendida introduzione pubblicata nel libro di Dashiell Hammett, edito da Mondadori, L’istinto della caccia (1974). Lillian diventa un’attivista pacifista ed è a fianco del movimento studentesco americano del 1968, nonché una tenace testimone dell’opposizione alla tirannia americana della polizia e delle sue “zie” bellicose e reazionarie FBI e CIA. Si scontrerà anche duramente con Nixon, che aveva già affrontato durante la repressione maccartista di cui il presidente era stato un membro attivissimo e spietato. Nel 1970 la Hellmann fonda il Comitato per la Giustizia Pubblica per la Difesa dei Diritti Costituzionali. Ne Il tempo dei furfanti osa scrivere: “Siamo un popolo che non vuole serbare il ricordo di gran parte del suo passato. In America si considera malsano ricordare gli errori, nevrotico pensarci, psicotico rifletterci”. Stiamo raccontando la storia di una donna e di una scrittrice, di una donna che ha amato e che ha sofferto, ma che non è stata né una santa né un’eroina, e di sicuro non ha desiderato mai essere né l’una né l’altra. Chi affronterà il piacere della lettura dei suoi libri incontrerà anche pagine piene di storie di sbronze, di tristezze, di rancori, di rimpianti. Ma scoprirà, come è avvenuto per chi scrive, un’anima capace di fronteggiare le avversità della vita con coraggio (che erroneamente il mondo maschile definisce esclusivamente “virile”) e un confronto con gli uomini della sua esistenza, basato sull’apprendimento continuo di una complicità cameratesca, a cui mirano tutti gli amanti che si rispettino, ed anche di un sano rispetto per se stessa.

Abstract

L’autore racconta la vita e l’opera di tre donne straordinarie del Novecento: Lillian Hellman, Simone de Beauvoir e Mae West, ritrovando nella loro vita e opere le radici di un femminile che ha saputo gestire con equilibrio psichico e intelligenza i rapporti con il “sesso forte”. Questi tre personaggi, che Caruso annovera tra le donne “psicofuturiste” ante-litteram, hanno anche svolto un fondamentale ruolo educativo ed esemplare per le generazioni del loro tempo e del futuro. Si tratta dunque di donne che hanno saputo amare ed essere al contempo protagoniste della loro vita sentimentale e professionale senza essere vittime del maschile.