Quante volte, leggendo una delle tante “ricette della nonna”, abbiamo immaginato un mondo antico e felice, incastonato in un tempo indefinito, con tavole imbandite di dolci e biscotti fragranti. Abbiamo immaginato nonne e zie affaccendate a occupare le loro postazioni in cucina, e i bambini attendere impazienti l’arrivo delle deliziose pietanze. Abbiamo sempre sognato di ricostruire un pezzetto di quel mondo idilliaco e rivivere nella nostra quotidianità l’atmosfera gioiosa che certi spot televisivi ci propinano ogni giorno.
I pubblicitari sanno bene che far leva su gesti ancestrali e su immagini che rievocano un passato in cui semplicità faceva rima con bontà, dà conforto e stimola gli ormoni della felicità.
Si tratta di una idealizzazione di un mondo mai esistito nella realtà: le nostre nonne, soprattutto le mie e quelle dei miei coetanei, hanno vissuto le guerre, con sacrifici e privazioni, e hanno imparato a fare di necessità virtù, utilizzando ingredienti poveri sapendoli riciclare in varie fogge.
Nei mesi di marzo e aprile scorsi ci siamo improvvisamente trovati scaraventati in un tempo senza tempo, nostro malgrado. Riusciremo a ricordare gli aspetti positivi e a rimuovere i ricordi che ci procurano sofferenza, esattamente come facciamo per i ricordi della nostra infanzia, che ci sembrano perfetti e meravigliosi, come hanno fatto anche le nostre nonne per dimenticare gli orrori della guerra?
Cosa abbiamo fatto in questi due mesi, chiusi in casa e costretti a trascorrere tutto il tempo con la nostra famiglia? L’abbiamo trasformata nella famiglia del mulino bianco (si può dire, ormai è uno stereotipo), tutti in cucina a impastare biscotti e fettuccine.
Ma non basta: molti sedicenti chef, spuntati come funghi o lumache dopo la pioggia, ci hanno ingannato con improvvisate e goffe videodirette sui canali social, mezzi che soddisfano appieno la voglia di apparire e l’illusione di diventare popolari, in poche parole fanno emergere il Narciso che alberga in tutti noi. I veri Maestri dell’arte bianca, della cucina e della pasticceria si sono improvvisamente ritrovati scalzati da un esercito di divulgatori gastronomici, roba da far inorridire gli antesignani della divulgazione televisiva dell’arte culinaria a partire da Julia Child, la donna che ha cambiato la cucina negli Stati Uniti. Se non conoscete il film Julie&Julia, vi consiglio di vederlo.
Le preparazioni più gettonate sono state il pane e la pizza, proprio quelle che richiedono più tempo e pazienza. Ma, si sa, il pane ha un fascino unico, ed è proprio il suo profumo che ci riporta indietro nel tempo, perché è l’alimento che ha accompagnato l’Uomo nella Storia, come il vino.
Il pane è alimento indispensabile, possiede una carica evocativa e simbolica, e si collega, in forme e modi diversi, alla cultura, alla ritualità e alla spiritualità dei popoli.
Il pane sa di bontà e generosità, ma profuma anche di storia e di storie, antichi racconti che ci affascinano e ci consolano.
Il pane è in assoluto l’alimento più semplice e povero, ma si lascia plasmare in forme fantasiose ed elaborate, che riproducono la Natura e la Vita, come avviene nei pani rituali delle feste.
Il pane è amicizia e comunione, non a caso la parola “compagno” deriva da cum panis, colui che condivide il pane con un altro: un’immagine meravigliosa.
Fare il pane in casa è un atto creativo e catartico, che nasce dal mescolare pochi ingredienti per formare un impasto che cresce e genera vita con la mediazione del lievito. Che gioia affondare le mani in quell’impasto e lavorarlo per dargli la forma! E quindi vederlo crescere come per magia, e soddisfare la naturale curiosità alzando il canovaccio per controllare la lievitazione… e avvertire già un inconfondibile e gradevole odore che dà assuefazione.
Ecco come in Afrodita Isabel Allende descrive la preparazione del pane:
…all’altra estremità della cucina si verificava il semplice miracolo quotidiano della farina e della poesia, il contenuto degli stampi prendeva vita e un processo lento e sensuale si produceva sotto quei bianchi tovaglioli che, come lenzuola discrete, coprivano la nudità delle pagnotte. La pasta cruda si gonfiava in sospiri segreti, si muoveva soavemente, palpitava come un corpo di donna che si dà all’amore. L’odore acido della pasta in fermento si mescolava al respiro intenso e vigoroso dei pani appena sfornati. E io, seduta su una panchetta da penitente, in un angolo buio di quella grande stanza di pietra, immersa nel calore e nella fragranza di quell’evento misterioso, piangevo senza sapere perché…
Semplicemente commovente.
Molti amici conoscono la mia sfrenata passione per l’arte bianca: amo definirmi come una inguaribile panificatrice seriale e “sourdough addicted” ovvero una drogata di lievito madre (concedetemi il vezzo…). Me la cavo benino anche con i dolci, a sentire gli amici del Centro Studi che hanno apprezzato il buffet succeduto all’ultimo nostro incontro del 6 dicembre, la presentazione del n°11 della rivista “Le verità che cambiano”, di cui vi consiglio la lettura e che potete trovare in questo sito. Per me resta un bellissimo ricordo prenatalizio.
Non sono una panificatrice dell’ultima ora, da molti anni mi occupo di pane e lievitati e scrivo le mie ricette nel blog De Gustibus Itinera. Sono in grado di comprendere come fare il pane in casa possa risultare una piacevolissima scoperta e diventare una passione, visto che per me è stato esattamente così.
Ma torniamo ai nostri fornai, chef e pasticceri della quarantena. Abbiamo assistito all’arrembaggio al lievito, con risse nei supermercati per l’accaparramento dell’ultimo cubetto. Abbiamo trovato gli scaffali delle farine letteralmente svaligiati, perché i nostri indomiti panificatori avevano accumulato scorte da far impallidire la Barilla. Abbiamo letto e ascoltato racconti di lieviti madre affamati, che scoppiavano di salute e si gonfiavano come palloni, brulicanti nei frigoriferi di tutta Italia come botti di mosto. Siamo anche inorriditi di fronte a improbabili alchemiche ricette di lievito fai da te in pochi minuti, divenute virali in rete, come l’amuchina fatta in casa. Per fortuna il solerte chimico della porta accanto, come ama definirsi il dott. Dario Bressanini, ha sbugiardato i piccoli chimici.
Sarebbe stato molto più semplice preparare pane azzimo, ovvero senza lievito. Già, ma nessuno ci ha pensato.
Il termine deriva dal greco azymos (privo di lievito) che in ebraico diventa matzah. È il pane della purezza, preparato unicamente con farina e acqua, senza lievito e sale, considerati ingredienti impuri che intaccherebbero l’integrità del cibo da offrire al Signore per il periodo della Pesach. La Pasqua ebraica è la ricorrenza che ricorda l’esodo dall’Egitto, quando il popolo ebraico dovette cuocere in fretta gli impasti non lievitati.
Il pane senza lievito appartiene alla storia dei cibi poveri del mondo. Ricordiamo il chapati e il naan indiani, le cachapas venezuelane, le tortillas messicane, il Kong You Bing, specie di pancake cinesi con scalogno. Spostandoci nel Mediterraneo possiamo trovare: in Grecia la maza sia dolce che salata, con farina d’orzo; in Egitto lo hori, in Marocco il baghrir, in Armenia il lavash.
Recentemente ho avuto modo di approfondire storie e tradizioni dei pani senza lievito, grazie all’iniziativa di un gruppo di vulcaniche amiche blogger appartenenti come me ad AIFB, Associazione Italiana Food Blogger. Ci siamo lanciate nelle più varie preparazioni, ispirate ai pani senza lievito della tradizione italiana e del mondo. Tiziana Bontempi, del blog Profumo di broccoli, ha preparato un invitante Libum di Catone, da una ricetta del II sec. A.C.; Natalie Moore del blog Roba da Natti, ha preparato la pizza scima abruzzese, a base di farina integrale, vino e olio; Daniela Pennisi del blog La Boulangerie Pâtisserie ha preparato la pizza assettata molisana, con semi di finocchio e peperoncino, Donatella Bartolomei del blog L’ingrediente perduto, ha preparato il lavash armeno, Marianna Bonello, del blog Dalla Ada, ha preparato la piadina romagnola. Erica Zampieri del blog Sapori e dissapori, si è occupata del companatico. Anna Maria Pellegrino, Presidente di AIFB, del blog La cucina di qb, ha pubblicato un interessante approfondimento sulla storia del pane senza lievito di ogni tradizione. Paola Sartori del blog Prelibata, si è occupata della raccolta di tutto il materiale, per la pubblicazione di un e-book, che si può scaricare gratuitamente dal sito AIFB. Bella idea, vero?
Io mi sono dedicata soprattutto alle “archeoricette” e ho fatto una interessante immersione nel passato, replicando il Libum di Tiziana, dal De agri cultura di Catone, e immaginando tre tipi di pane etrusco, di cui non vi è testimonianza, ma che sono scaturiti dalle mie letture sulle abitudini alimentari dei Rasna.
Per concludere voglio portarvi in Molise, la regione dove sono nata e vissuta nella prima parte della mia vita: voglio invitarvi a provare la pizza di granoturco alla molisana, che potete trovare nel mio blog oppure nel canale youtube di Quel che passa il convento, TV2000.
La pizz ‘e ranedinje nel dialetto locale, accompagna piatti di carne, bollita o grigliata, al posto del pane, oppure viene sbriciolata nella minestra di verdure campestri, e in quel caso diventa un piatto tipico, “pizza e minestra”.
Ranedinje indica appunto il grano d’India, cioè delle Americhe, in altre parole il mais, molto diffuso in Molise e in altre zone d’Italia, soprattutto nell’antica varietà agostinello.
A casa mia la versione era la seguente: la parte morbida della pizza veniva sbriciolata in un piatto di verdura e brodo di quinto quarto di maiale, mentre la parte croccante accompagnava il bollito.
La cottura della focaccia avviene nel camino, direttamente sui mattoni arroventati dalla brace, ben puliti dalla cenere. La pizza viene adagiata sui mattoni, poi coperta dal “sesto” o “campana”, una sorta di grande coperchio cilindrico che viene a sua volta coperto di brace e funziona da camera di cottura.
La preparazione della pizza è molto semplice: si portano ad ebollizione 900 cc di acqua con 5 grammi di sale, si versa l’acqua bollente salata su 500 grammi di farina di granoturco, si mescola e si lascia intiepidire l’impasto. A seconda della capacità assorbente della farina, la quantità di acqua potrebbe variare, quindi è opportuno lasciarne 100 cc e versarli lentamente e solo se necessario. L’importante è che tutta la farina sia ben idratata e lavorabile.
Quando l’impasto si può manipolare, con le mani bagnate si modellano due o tre pizze di forma tonda e bassa, coprendole poi con altra farina. Per la cottura è preferibile usare la pietra refrattaria ben arroventata, all’interno del forno. Le pizze saranno pronte in 30-40 minuti. In alternativa potete usare una normale teglia di ferro.
Se vi interessano le mie archeoricette, potete trovarle nel blog De Gustibus Itinera.
Vi consiglio di curiosare anche nei blog delle mie amiche, troverete tante ricette di pani senza lievito, e molti altri interessanti contenuti.
Ed infine eccovi una notazione psicologicamente appetitosa: tanti sono i modi di fare il pane e tante sono le diversità umane… questione di gusti e di preferenze… la diversità accresce la nostra creatività.