Chi ha paura di Edward Albee? (Da Chi ha paura di Virginia Woolf? a Tre Donne Alte)

dal Giornale Storico di Psicologia Dinamica

Spero ricordiate tutti una tremenda e fantastica coppia del cinema e del teatro e finanche della vita: Elizabeth Taylor e Richard Burton, grandi attori, fenomenali bevitori, splendidi amanti, impareggiabili litigiosi sia sullo schermo che nella realtà. (La Bisbetica Domata non poteva che aspettare loro al cinema). Questa coppia superlativa ha fatto parlare di sé sia per i successi conseguiti insieme sia per la furibonda passione che li ha caratterizzati; sbronze colossali, matrimoni, divorzi, fidanzamenti e ancora matrimoni, che hanno contratto ripetutamente e il più delle volte fra di loro. Per buona pace dei nostri lettori non continueremo in una cronaca rosa postdatata. Vogliamo solo presentare un geniale e terribile figlio adottivo. Che ha scritto due capolavori del teatro di questo secolo. Il primo si chiama Chi ha paura di Virginia Woolf? del 1962 che ha avuto un incredibile numero di repliche ed é stato immortalato per lo schermo proprio dalla coppia Burton-Taylor per la regia di Mike Nichols e che ha fruttato nel 1966 l’Oscar alla bisbetica e indomita Liz e a Sandy Dennis, futura attrice altmaniana. Il secondo, Tre donne alte, è stato scritto nel 1991, dopo quasi trent’anni di sopore creativo, rappresentato in un teatrino sperimentale della 15ma strada, ha vinto nel 1994 il premio Pulitzer. Come non volevamo fare commenti da rivista patinata prima, così ora non desideriamo fare opera di critica teatrale. Quello che ci interessa a proposito di queste opere è un aspetto delicato e spietato contenuto in entrambe. Si tratta del rapporto genitori-figli.

Ci occorre riassumere brevemente il contenuto delle due commedie, che insieme rappresentano un vero trattato di psicopatologia quotidiana della coppia con e senza figli. In Virginia Woolf un opaco professore universitario cinquantenne sposa la figlia viziata del preside della facoltà e ne disattende le aspettative di diventare a sua volta preside, ospita insieme alla moglie-arpia in una serata alcolicissima una giovane coppia, anch’essa universitaria, lui professorino ambizioso, lei tenera, fragile e fresca sposa affetta dall’angoscia della gravidanza vissuta come induttrice di atroci patologie. In un crescente gioco di massacro la coppia anziana si procura dapprima le ferite più cocenti rinfacciandosi debolezze e colpe lontane e presenti per poi coinvolgere i due attoniti pivelli. Sembrano entrambe coppie senza figli, ma ad un certo punto viene fuori un’invenzione tragica: un presunto figlio della coppia più vecchia e più alcolemica viene tirato fuori soltanto per essere ucciso, sempre nell’invenzione, in un tragico incidente, trascinando i due inconsapevoli alla finestra del loro probabile baratro.

In Tre donne alte, recentemente visto anche in Italia per la accorta e sensibile regia di Luigi Squarzina, dopo l’enorme successo americano, si parla di tre donne e si scopre che non sono nient’altro che le tre età di una sola donna, divisa in tre per ragioni drammaturgiche, come Le Tre Età di Casorati, i Sussurri e grida di Bergman, le Tre Donne di Altman. Il partner maschile è assente sulla scena ma si parla di lui (malissimo). Un figlio presente nell’azione drammatica per poco tempo, non parla mai.

Se come dice Keats di Shakespeare ogni drammaturgo è un camaleonte che si trasforma nelle sue creature, qui le creature della vita del drammaturgo lo assillano non per essere trasformate, ma trasportate dalla realtà sulla scena; così il commediografo americano affonda il coltello nella piaga delle relazioni genitori-figli.

Vediamo in queste opere che cosa riesce a fare la sofferenza di un bambino rifiutato dai genitori biologici e adottato dai ricchissimi Albee, eredi di teatri di varietà ed impresari teatrali. Dopo aver vissuto, come tutti i rampolli di famiglie alto-borghesi, un’adolescenza protetta, comoda e ottusa, Edward Albee, oggi sessantottenne, sempre sessantottino, rompe con la sua famiglia adottiva dopo aver tentato disperatamente e senza successo di contattare i suoi veri genitori. Il giovane Edward vive le trasgressioni più in voga al Greenwich Village, fa i lavori più modesti, ma vive una vita tutta all’insegna dell’abbandono, accetta i lavori più umili e pratica per un certo tempo l’omosessualità, che non ha speranza né progetti di figli e poche probabilità (almeno negli anni 60) soprattutto di adozione. Abbandona i genitori adottivi quasi come i genitori biologici hanno abbandonato lui, e accetta soltanto un piccolo aiuto di un parente, quasi a farsi beffe dell’immensa fortuna dei secondi genitori. Intanto però si forma come scrittore ed anche come regista dei suoi lavori, cui la fortuna arride assai presto. Scrive Chi ha paura di Virginia Woolf? attingendo a ricordi e fantasie che lo vedono figlio assente, morto senza nascere così come si immagina essere stato per i genitori che lo hanno creato. Dopo trent’anni chiude i conti (o li apre, che è lo stesso) anche con la famiglia adottiva. Quel figlio muto al capezzale della madre vecchissima è forse lui, senza parole, perché non ci sono parole per descrivere la sofferenza di non aver risposto alla chiamata della madre adottiva moribonda.

Non ci sono proprio risposte? Crediamo di sì. Ci piace pensare che l’unica risposta possibile fosse trasformare questo gioco assurdo di amore materno, paterno e filiale che non ha mai recettori e soltanto anticorpi in una rappresentazione drammaturgica che non ha paragoni. Perché non soltanto di questi rapporti si tratta nelle due commedie, ma di molto di più. Il peso dell’esistenza, la sofferenza dell’invecchiamento, i volti dietro le maschere. L’inferno della coppia si può guardare da tutte le angolature, l’agente segreto teatrale Albee ha frantumato ogni muro della sacra famiglia. Nel dittico in questione nulla è risparmiato a questa istituzione. Un piccolo spiraglio di pacificazione sembra ravvedersi nel dolore di tutti, unico lenitivo delle richieste d’amore mai appagate. Su entrambi i lavori si stende un sudario pietoso di accettazione e nient’altro. Una calma catartica ci riveste alla fine dei due drammi, senza vincitori né vinti, senza più frastuono né urla di dolore. Si scorge soltanto in lontananza un sorriso triste sulla bocca del grandissimo Albee che con la pena della sua infanzia difficile ha consegnato alla sua penna creativa innumerevoli coazioni a ripetere le scene di vita familiare nei teatri di tutto il mondo, per rifletterci e farci riflettere.

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in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012 – Estratto

Il mostro di Venezia (ci) colpisce ancora. Appena allagunati vediamo Bad, un polpettone documentario noioso e inutile, confezionato da una stella del cinema statunitense (supernero)americano, Spike Lee, quello di Fai la cosa giusta, per intenderci, ma questa volta l’ha fatta sbagliata. La pellicola è un tormentone di interviste ad amici e collaboratori della compianta rockstar Michael Jackson, ed è insopportabile la pesantezza dei dialoghi, la banalità delle domande, e l’ampollosità lacrimosa delle risposte, tutto un “come era buono, perfezionista, sagace, creativo!”, senza mostrare che qualche spezzone filmato del divo, scelto tra gli insoliti, ma anche insignificanti. Bad, “Cattivo”, è un titolo che si trasforma in giudizio lapidario. Vogliamo credere che Spike Lee sia andato in vacanza, mentre il film si girava da solo malamente. Ci rianima Fill the void (Riempire il vuoto) dell’israeliana Rama Burshtein, che descrive con meticolosa attenzione, e ammirevole eleganza, usi e costumi di ebrei osservanti. È una storia molto, molto tradizionale, lontana mille miglia di pellicola dalle cerimonie yiddish sarcastiche di Woody Allen. In una comunità ortodossa, che sembra uscita dalle due succulente raccolte di racconti Alla corte di mio padre e Altre storie alla corte di mio padre di Isaac Singer, accade un triste evento: una giovane moglie muore, pur dando alla luce il bimbo di cui è gravida. Ma dopo il dolore, dopo una breve sofferenza, bisogna “riempire il vuoto”, e si scatena una sarabanda di intrecci che porteranno la sorella più giovane della morta ad una soluzione che non riveleremo, mentre desideriamo lodare la bravura e la freschezza della stessa interprete Hadas Yaron, che si distingue per la sua recitazione naturale e disinvolta. Vincerà infatti la Coppa Volpi come migliore attrice, ma noi, che l’abbiamo incrociata cinque giorni prima della premiazione, ci eravamo già complimentati con lei, affascinati dalla sua recitazione, e le abbiamo carpito un segreto: la sua mamma è una psicologa! Riportiamo due perle psicologico-religiose di quest’opera: alla famiglia sprofondata nel lutto, il rabbino dice Chi soffre molto è molto vicino a Dio e, sempre per bocca dello stesso, Beato chi riesce a dire una sola parola di verità a Dio! L’ermetico dio del cinema ci conduce presto verso un altro film ebraico, Lullaby for my father di Amos Gitai, un ricordo affettuoso del regista per il padre, architetto del Bauhaus tedesco, sfuggito all’Olocausto, e riapprodato nella Terra Promessa. Si tratta di un film personale e tenero come una ninna-nanna, da cui il titolo. Ma la forza delle parole contenute nella lettera (in apertura del film), che la figlia del regista scrive al padre (il regista), resterà fortemente impressa nella nostra memoria, perché dipinge un ritratto duro, aspro e veritiero della gioventù contemporanea di tutto il mondo, descrivendone liricamente le difficoltà e le incertezze, la crisi di valori e le ansie professionali e occupazionali. Prima di questo lungometraggio viene presentata un’operina (22 minuti) di Liliana Cavani, Clarisse, che si svolge in un convento di suore, intervistate sul ruolo del femminile che prende i voti, e sui massimi sistemi della Chiesa, in modo smaccatamente retorico, dalla stessa regista, ormai lontana, anni Lumière, dall’ispirazione e intensità dei (due!) bellissimi su san Francesco d’Assisi, o Milarepa o I Cannibali, per citare i suoi film molto spirituali, e davvero riusciti. Ma si vede che con le suore il cortometraggio non riesce alle autrici italiane (bruttino era anche Per sempre di Alina Marazzi del 2004, sempre sulle monache, ma di clausura), e Clarisse non è capace di scuotere la nostra anima naturaliter cinematographica; ma essendo la produzione a carico dalla moglie di un certo predicatore catto-televisivo ex-molleggiato, la cosa ci fa temere una sua proiezione in rai e presso famiglie cristiane e luoghi vaticani, con finale distribuzione afilantropica di dvd clan-paolini. Voglio ricordare un amabilissimo documentarietto dell’agnostico Rossellini, quando rivisita i luoghi e i personaggi del suo Francesco, giullare di Dio, che forse le due signore hanno visto (?) svogliatamente, per far tornare la gioia della fede nel cinema. Insomma, la Cavani se la cava male come Spike Lee. Il giorno dopo è il turno di Kitano, che con il suo Outrage Beyond, non aggiunge niente ai suoi precedenti film sugli yakuza, ma riscalda solo una pizza già scongelata e ricongelata, indigesta. Preferiamo i suoi L’estate di Kikujiro e Dolls, che ci hanno ammaliati non troppi film (suoi) fa. Non facendo parte della giuria, ci regaliamo la visione restaurata di un gioiello del cinema, di Joseph Mankiewicz, Il fantasma e Mrs. Muir, del 1947, che è un piccolo capolavoro di interpretazione e dialoghi, tanto da sfidare coraggiosamente gli abissi del più sano sapere psicologico per saggezza, ironia e bellezza. Una triade di attori in stato di grazia, Gene Tierney, Rex Harrison e George Sanders, si miscelano in una storia imprevedibile e fantasiosa. Un film che ci piace pensare sia stato amato anche da Hillman, per la sua forza immaginativa. Dopo le crudeltà di Takeshi “beat” Kitano, siamo pronti alle atrocità di Kim Ki-duk, che vincerà il Leon d’oro, con questo Pietà, ma dobbiamo avvertire i cuori deboli e le anime tenere, che non esiste intrattenimento in questo film, trattandosi di una cruda lezione di anatomia patologica su cadavere, per una matricola di medicina istruttiva e necessaria, ma obbligatoria solo per futuri medici o critici di mestiere. L’amore materno è senza limiti, come è senza pietà la vendetta di un figlio abbandonato per una madre che lo ricerca trent’anni dopo, vuole dirci il regista coreano. Inoltre, in questo lavoro, risulta scottante il tema del denaro, su cui crediamo però che il Bresson de L’argent abbia detto quasi tutto, e perfettamente. Ma non torneremmo a rivederlo, neanche per pietà dello stesso regista, la cui storia personale è invece un compendio di psicopatologie artistico-umane, da studiare e interpretare dagli alienisti, mentre siamo pronti ancora alla re-visione di Bloody Mama di Corman, che tratta all’incirca la stessa faccenda, facendone un trattatello sull’Edipo molto più efficace e godibile, pure violento, ma insuperabile nella sua tessitura da tragedia greca. Se invece volete soffrire accomodatevi, e forse non ve ne pentirete. Sempre più convinti dell’enunciato hillmaniano che il cinema (e la letteratura, naturalmente …ma cos’è il cinema se non letteratura filmata, pagina scritta in sceneggiatura resa visiva?) sia a volte più rapido ed efficace a provocare cambiamenti e riflessioni, di quanto non riescano a far magari ore di analisi, ci consoliamo con un dolce film messicano, No quiero dormir sola, di Natalia Beristain. Questa giovanissima regista racconta del rapporto tra una anziana attrice e la nipote, con un gioco di rispecchiamenti e di ritrovamenti, che le vede litigare e scontrarsi, per poi riconoscersi l’una nell’altra, una senex ed una puella che poi non sono che due profili di un’unica persona, e si integreranno. Sarà mai distribuito in Italia? Ce lo auguriamo. Vedrete però presto sugli schermi, ne siamo certi, un dono serenissimo (come la città che ci ospita) che ci ha fatto Susan Bier, dirigendo Love is all you need, che è una deliziosa ma non superficiale, leggera ma non effimera commedia. L’aver visto tutti i film, un po’ come Mallarmé si vantava a proposito dei libri, ci ha obbligato a ripensare a quanti modelli abbia preso in prestito l’autrice e dunque citabili per questo brillante film, con dialoghi intelligenti ed ironici, e attori tutti perfettamente nelle parti, a cominciare dall’ex 007 Pierce Brosnan, che regge superbamente il paragone con Cary Grant e George Clooney, in film smaglianti del genere, cui strizza l’occhio. E allora, ecco gli archetipi del nostro: Che cosa è successo tra mio padre e tua madre (Avanti! era il titolo originale, molto più giusto e misterioso, mentre quello italiano doveva spiegare già tutto il film ai poveri abitanti dello stivale), sia per la trama che per l’ambientazione, ad Ischia per Billy Wilder, a Sorrento per la regista danese. E ancora Stregata dalla luna, cui ruba sfacciatamente e ripetutamente, la canzone di Dean Martin That’s Amore, ma anche certe atmosfere, e infine Monsoon wedding, per le sorprese matrimoniali. Eppure, nonostante questi sfacciati borseggi, il film è pieno di invenzioni e di simpatia, inclusa la morale dichiarata fin dal titolo (anche questo un furtarello, che mischia soltanto le stesse parole di una celebre canzone dei Beatles), che fa cadere in brodo di giuggiole tutti gli umani, psicoanalisti e pazienti inclusi. Anche questo film è barattabile, hillmanianamente, con circa cinque sedute di psicoterapia. Siamo riusciti a vedere un reperto archeologico di Peter Brook, restaurato, Tell me lies, degli Anni Sessanta, ripreso da uno dei suoi primi spettacoli teatrali, e non vi diciamo bugie se la sua carica pacifista è ancora vigorosa, basta sostituire il Vietnam con le guerre in corso oggi. Concludiamo con la Bella addormentata di Bellocchio, che è insieme uno splendido film politico, bioetico, poetico. È un quadro che va guardato con attenzione e trasporto, perché farà parte dei grandi film italiani di questo secolo, e che potrà raccontare davvero ai nostri figli come eravamo, e come potremmo cambiare, in politica, in bioetica e in amore.

crisi.globale@psiche.cinema

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013

Questo numero del Giornale Storico va in stampa proprio mentre l’Italia sta per configurare il nuovo volto del Governo del Paese, in questi tempi di crisi, con un risultato che di sicuro ci riserverà qualche sorpresa, come quella che abbiamo visto in questi giorni realizzata da un regista-scrittore che conosciamo bene, Roberto Andò. Abbiamo pubblicato sul n. 11 di questa Rivista, nell’ottobre 2010, una lunga intervista con l’artista, che riteniamo tra i migliori metteurs en scène italiani, capaci di rappresentare validamente il nostro cinema nel mondo e che abbiamo scoperto tra i più dotati di cultura e respiro internazionale, nonché tra i più importanti esponenti dell’assorbimento intelligente e creativo del distillato psicoanalitico. Il suo ultimissimo Viva la libertà è appunto un film sulla crisi della politica, che affonda però le sue ragioni anche nella crisi dell’identità non solo politica. Interpretato da un versatile, simpaticissimo Toni Servillo, nel doppio ruolo del politico in decadenza e del suo fratello gemello autore del libro L’illusione di vivere, questo film è davvero una medicina sana e utile per sedare i nervi e portare speranza nei cuori romantici seguaci di Psiche. Guarda caso i due fratelli (la genetica non è acqua) soffrono entrambi di patologie psichiatriche: l’onorevole Enrico Olivieri è affetto da sindrome depressiva che cura soltanto con farmaci; lo scrittore, da poco dimesso da una clinica psichiatrica, ha un importante disturbo bipolare, ma si capisce che oltre i farmaci ha sicuramente ricevuto diverse iniezioni di psicoterapia. Perché sarà proprio lui, Giovanni Ernani (i cognomi diversi sono forse dovuti al fatto che il fratello di successo avrà imposto questo cambio?), a dare il giro di boa del cambiamento al germano omozigote. Giovanni si sostituisce, su proposta del segretario personale (Valerio Mastandrea) del politico, quando quest’ultimo scompare dalla circolazione in preda a un pessimo disturbo dell’umore. Enrico si rifugia in Francia, dove sarà ospitato dall’ex fidanzata (Valeria Bruni Tedeschi), che lavora nel cinema, e in casa di lei ritroverà la pace e i valori perduti. Il fratello burlone – e mica tanto matto – si rende gradito ed amabile nei confronti di tutti gli amici e i galoppini dell’uomo politico. Per quello che dice e fa, commuove finanche il suo fedele collaboratore, l’unico a conoscenza dello scambio, insieme alla moglie del politico. Tra i due gemelli non corre – è il caso di dirlo – buon sangue, non si parlano da oltre trent’anni. Quindi il giuoco delle parti è ancora più intrigante per il soave esule dal manicomio, dove condurrà anche il “suo” segretario per una serata di ballo insieme ai suoi amici matti, un momento davvero esilarante del film. Inoltre, stabilirà un sodalizio dolce e tenero con la cognata-moglie. Strabilierà il solito segretario, che lo scopre sbirciando attonito e compiaciuto dal buco della serratura, mentre ha un colloquio privato con una donna politica tedesca e la invita a danzare un tango a piedi nudi. Sembra quasi una richiesta di perdono, da parte del regista, ma in nome dell’Italia tutta, in ricordo delle cronachistiche gaffes non troppo lontane di un premier che bistrattò la Cancelliera Merkel in più occasioni. Nel frattempo anche il vero politico avrà il tempo e il modo di fare le sue conquiste. Affascina ed è affascinato da una giovanissima assistente di regia del film – diretto dall’attuale marito della sua ex fidanzata – ed avrà anche un ritorno di fiamma con la stessa, che si scopre essere stata amata addirittura da entrambi i fratelli, un’estate al Festival di Cannes. Davvero poetico è però l’incontro con la figlia di lei, che gli si affeziona e con la quale ritrova una dimensione infantile e appassionata della vita. Mentre il finto politico delizia gli astanti con un haiku pronunciato con nonchalance e si ristora con improvvise e tranquillizzanti passeggiate al mare con la falsa moglie, l’esule francese lo chiama al telefono, forse per ringraziarlo, dato che legge gli eventi sui giornali che gli capitano sott’occhio in Francia. Ma ormai la rivoluzione psicologica è scoppiata. Il nuovo-vecchio segretario di partito, ricco della sua follia maniacale, entusiasma il pubblico ai comizi e sbalordisce un giornalista che gli vorrebbe “rubare” un’intervista, che si rivela invece un colpo gobbo contro il partito di maggioranza. Il fratello indegno canticchia o gorgheggia continuamente l’ouverture de La forza del destino di Verdi, che si trasforma in un canto di battaglia e di cambiamento radicale.

Psiche salverà il mondo. Una speranza psicofuturista

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 16, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2013

Le ragioni della crisi globale, che cresce a ritmo di galoppo coinvolgendo una nazione dietro l’altra, riconoscono la principale radice nello squilibrio e nella perdita economici. Nonostante i tentativi di salvataggio da parte degli esperti, economisti e politici in primis, si scivola sempre più in una condizione dove i poveri del pianeta diventano sempre più poveri e una sparuta minoranza di ricchi diventa sempre più opulenta. Non potrebbe questo squilibrio avere un significato anche psicologico? E dunque una conseguente richiesta di interpretazione da parte di noi psicoanalisti? E quali ripercussioni avrà sulle correnti di potere che, come è noto, si basano quasi sempre sull’avere anziché sull’essere? Basterebbe (ri)leggere l’omonimo libro di Erich Fromm Avere o essere? del 1976, dove lo psicoanalista umanista aveva già anticipato molte riflessioni che fanno le persone sagge ed equilibrate oggi, e previsto la crisi globale che ci troviamo ad affrontare attualmente. E quale potrebbe essere il ruolo nuovo della psicoanalisi, vecchia più di centodieci anni? Non potrebbe trattarsi soprattutto di un problema di libertà? Già altrove ho affermato che il fine più importante della psicoanalisi, compreso nella cura, ma indispensabile alla guarigione, è la ricerca e il ritrovamento della libertà dell’individuo. Correlato a questo intento è il problema enucleato da Fromm, se insomma vogliamo avere o essere, e quale differenza passi tra governare il tempo ed essere sottomessi ad esso. Tanto più siamo schiavi del potere e del denaro ed anche del tempo, tanto meno saremo liberi.

La psicoterapia è una professione che non può, non deve basarsi su aspettative di ricchezza, ma soprattutto su gratificazioni impagabili e spesso inenarrabili che rendono questo lavoro ˗ questa inclinazione ˗ entusiasmante. E naturalmente senza nulla togliere alla professionalità e all’etica professionale, che meritano un giusto onorario.

Devono dunque disperare, anzi temere, di diventare ricchi gli aspiranti psicoanalisti o i presunti tali, pena la loro dannazione professionale. In psicoanalisi non si può ragionare con il dio denaro in testa. Lo scopo dell’analisi riguarda principalmente e sempre l’analista, che non potrà essere dunque schiavo né del denaro, né di alcuna persona.

Lo stesso Freud effettuò qualche psicoterapia a prezzi davvero ridicoli o addirittura gratuitamente, e non fu il solo nella storia della psicoanalisi. Freud praticò l’analisi gratuitamente ad Eva Rosenfeld (amica di Anna Freud) e a Marianne Kris. Forse avvenne gratuitamente l’analisi cui Anna Freud si sarebbe sottoposta con Lou Andreas Salomè. Freud non divenne mai ricco, se pensiamo che gli ultimi anni della sua vita era costretto a pagare alte parcelle mediche per i trattamenti oncologici cui veniva sottoposto (chemio e radioterapia inclusi i ricoveri); una volta commentò che tutto un trattamento analitico al quale avrebbe sottoposto un medico americano, sarebbe costato quanto un suo breve ricovero in clinica!

Qual è dunque il grande insegnamento-scopo dell’analisi? Il recupero, la ricerca di tutti i valori che non hanno prezzo: l’amore, l’amicizia, la generosità, l’onestà, la stima, il rispetto, l’onore, il sacrificio, l’integrità professionale. La frequentazione di Psiche deve condurre al ritrovamento di se stessi, esaltando e rinforzando le fibre che costituiscono il tessuto connettivo nobile di ogni individuo.

Abstract

Amedeo Caruso, fondatore del Movimento Psicofuturista, si domanda se Psiche salverà il mondo. Non propone la psicoanalisi ˗ l’amabile signora che ha ormai centodieci anni ˗ come salvatrice, ma una Nouvelle Psyche, la giovane figlia della psicoanalisi, che ha imparato la lezione della madre e cerca di diffondere il sano contagio per il mondo. Le istruzioni per l’uso consistono nel nutrire e far risorgere gli aurei valori incontaminati appresi dalla madre: l’amore, l’onestà, la saggezza, la generosità, l’amicizia, la stima, il rispetto, l’onore, il sacrificio, l’integrità professionale. Questa è una speranza psicofuturista.

Hillmania

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 15, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2012

Quando intervistai Hillman a Torino nel 1995, grazie alla generosa e amichevole mediazione di Carotenuto, gli rappresentai la mia gratitudine per aver scritto un libro così bello. Trascrivo un breve pezzo della nostra conversazione di quel giorno al Convegno sui colori:

Dottor Hillman, la lettura de “Il suicidio e l’anima” mi ha cambiato notevolmente, ha rigenerato il mio rapporto con la medicina. Da Medico Internista, stretto osservante di canoni organicistici quale ero, dopo aver letto il suo libro ho capito quale fosse, per dirla con Pirandello, “il dovere del medico” …

E Hillman: Vede, scrivere quel libro ha cambiato anche me. Perché si deve assolutamente affermare il problema del suicidio, della morte, se si vuole diventare un vero terapeuta. Altrimenti, in realtà, si fa solo un lavoro di igiene e pulizia. E pensi che questo libro è stato scritto trent’anni fa. E io ancora la penso esattamente così. Tutto è rimasto uguale come allora. Ancora adesso ricevo lettere di gente che mi dice la stessa cosa, mi ringraziano per aver offerto delle idee che cambiano la vita.

Un altro aspetto entusiasmante del colloquio con il fondatore della psicologia archetipica è stato quello enucleato sempre nella nostra conversazione a Torino. Quando gli chiesi a proposito dei valori della vita anteposti al consumismo, mi rispose che oltre alla natura e all’anima, andava mantenuta viva la morte! E che bisognava resistere … Preservare, proteggere. Tornare insomma all’antico compito rivoluzionario, essere dei sovversivi, come ha fatto Freud, che era visto come un sabotatore del mondo medico dei suoi tempi …

Ho preso allora a leggere tutti i libri che riuscivo a procurarmi di Hillman, e devo confessare che, se non fosse per merito di Giorgio Antonelli, la mia frequentazione hillmaniana si sarebbe fermata a Il sogno e il mondo infero, che trovai ostico e legnoso. Ne parlai così con Giorgio, che mi consigliò semplicemente di rileggerlo. Cosa che feci, e devo ringraziarlo, perché mi sono ricreduto totalmente, ed ho capito che occorreva soltanto una ulteriore riflessione sul testo. Sento di poter affermare con sicurezza che un vero e decisivo passo avanti nella interpretazione onirica (e dunque nella psicoterapia) è stato compiuto soltanto da Hillman, dopo Freud e Jung. La sua re-visione della psicologia ha spostato il campo da un orizzonte e un obbiettivo soltanto terapeutici ad una lettura e ad una comprensione della sofferenza umana – o forse dovrei dire semplicemente dello status umano – che si dissocia dalla necessità assoluta di guarire a tutti i costi. Dunque i sogni possono essere terapeutici, ma possono riguardare non soltanto o non esclusivamente il sognatore, come ci spiega nella collezione di sogni sugli animali intitolata Animali nel sogno del 1982, dove i problemi con gli animali diventano anche i problemi dell’umanità con il mondo animale, e dunque con l’ecosistema. Come mi diceva, sempre nell’intervista rilasciatami: Cosa ne facciamo degli animali degli nostri sogni? Li uccidiamo? Scappiamo via da loro? Questo, come vede, è un problema ecologico. Quando ho scritto a proposito degli insetti, è perché lo ritenevo di estrema importanza, infatti gli insetti inquinano il cibo, e così fanno i pesticidi, e la stessa cosa facciamo noi con la paura degli insetti, che è nella nostra psiche (avere gli insetti in testa, “bugs in the head” è una frase idiomatica americana per indicare il massimo della confusione, nda). Oggi, negli Stati Uniti, si usano troppi pesticidi, agenti chimici nel cibo, nel mais, nel pane, negli animali… così avviene per la nostra paura degli insetti… Noi stra-uccidiamo, capisce cosa intendo? Stra-uccidiamo la Natura… questo è un problema psicologico! Ecco perché lo psicoanalista, colui che interpreta i sogni, deve ragionare ecologicamente.

Sempre nello stesso colloquio, il futuro autore di Un terribile amore per la guerra, mi confidò che un suo maestro di circa cinquant’anni prima (Jung stesso?) era solito dirgli che ogni sogno nel quale non camminiamo, è un disastro! E Hillman mi confidò, sorridendo, che anche sognare di andare in bicicletta può essere un segnale di salvezza.

Abstract

In questo articolo l’autore, che si proclama senza vergogna “hillmaniaco” fin dal titolo, percorre a ritroso un cammino che lo ha condotto, dalla lettura dei libri di James Hillman, fino alla sua conoscenza personale, sfociata in un’intervista pubblicata in anteprima sul Giornale Storico del 1996 e poi nel suo libro Di che sogno sei? La scoperta del pensiero hillmaniano diventa un tesoro e un’eredità che qualunque medico e psicoterapeuta può fare suoi, arricchendo felicemente la sua professionalità e la sua vita interiore. Vengono inseriti nello scritto due esempi artistici – Patti Smith e Chet Baker – che potrebbero essere facilmente considerati delle postille al Codice dell’anima. Il racconto è condito anche da un saporito ricordo hillmaniano che lo psicoanalista Luigi Aurigemma ha confidato all’autore..

Uccidere chi? Una risposta femminile psicofuturista dal XX secolo

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 14, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

La condizione femminile è in forte disparità, e grave sofferenza – dall’alba del genere umano – rispetto a quella maschile. Lo scopo di questo scritto è di ricordare, tratteggiandone brevi aspetti biografici, alcune donne del secolo scorso, le cui caratteristiche psicologiche e comportamentali ci sembrano così speciali da poterle definire creature psicofuturiste “ante litteram”. Il movimento psicofuturista da me fondato nel 2009, riconosce e propugna, sulla base dell’idea junghiana di animus e anima, una piena uguaglianza e commistione, rispetto e comprensione tra l’universo maschile e quello femminile, che, pure nella loro anatomica e fisiologica diversità e differenza, meritano gli stessi diritti ed hanno le medesime necessità. Personaggi psicofuturisti sono dunque tutti quegli esseri viventi che nel corso della storia hanno contribuito a una reale crescita e ad un vero progresso del genere umano, soprattutto perché dotati di qualità psicologiche eccezionali e animate da rispetto e considerazione per il diverso sesso. Lo statuto fondativo del CSPL fa riferimento costante agli artisti, e non è quindi casuale l’attenzione precipua che viene dedicata, anche in questo scritto, a tre personaggi della letteratura, Lillian Hellman, Simone de Beauvoir, e, nel caso di Mae West anche del cinema, pur essendo quest’ultima autrice di testi teatrali e autobiografici. Le lettrici e i lettori dovranno riconoscere insieme a me che la politica, anche quella più democratica, non è riuscita a parificare onestamente i rapporti tra i sessi sia a Casa che a Scuola, non in Parlamento e neanche nella Società. Ci riferiamo naturalmente solo alla condizione femminile occidentale, perché sul mondo orientale possiamo pronunciarci solo con prudenza ed i necessari limiti di un occidentale (psicofuturista, però, quale spero possa essere considerato ogni autentico psicoanalista), esprimendo un sentito dissenso e un fiero sgomento per la realtà femminile indiana, cinese, araba, ma anche giapponese, dei paesi dell’Est, dell’Africa ed anche del Sud-America, così come la conosciamo, sia per esperienza diretta che per informazione ed approfondimenti culturali.

La vita di Lillian Hellman è stata da lei raccontata in alcuni notevoli libri, usciti a distanza di tempo l’uno dall’altro, costituendo una vera e propria tetralogia autobiografica. La Hellman è uno dei primi esempi di donne che definiamo psicofuturiste per merito delle sue scelte professionali, sentimentali e politiche. La lettura dei volumi che scrisse tra il 1969 ed il 1980 ci fa scoprire un grande talento senza inibizioni né paure, e rivela la storia di un personaggio speciale e indipendente. Il primo libro, che si intitola Una donna incompiuta, vinse lo stesso anno della pubblicazione il National Book Award, a questo seguirono Pentimento, Il tempo dei furfanti e un’ultima breve, significativa appendice che è Una donna segreta, edito quando lei ha 75 anni e può davvero fare un bilancio del suo cammino umano ed artistico. Questi scritti contengono moltissime pagine estratte dai suoi diari e ci consegnano il ritratto di una figlia della buona borghesia vissuta e allevata in uno stato del Sud Americano, la Louisiana, e poi trasferitasi a New York, dove comincia a lavorare collaborando con l’editore Liveright e studiando letteratura e filosofia. A vent’anni sposa l’agente teatrale Arthur Kober, si lancia nel mondo della scrittura recensendo libri per il New York Tribune e ha l’incarico di scegliere copioni teatrali, facendone una vera e propria indigestione che però esiterà nel suo primo lavoro teatrale, L’ora dei bambini, che avrà un successo clamoroso. Ancora oggi, nella sua trasposizione cinematografica, rimane di una modernità sconvolgente, trattandosi di una storia omosessuale al femminile, che ebbe addirittura due versioni, dirette entrambe da William Wyler, nel 1936 e l’altra nel 1962 (con Audrey Hepburn e Shirley MacLaine), quest’ultima senza il lieto fine imposto dal produttore Sam Goldwin nella prima. Dopo questo successo teatrale (nel quale si trovano evidenti richiami alle buie atmosfere di quel tempo americano dove si dava la caccia alle streghe comuniste anche tra gli artisti) Lillian, che nel frattempo si è già separata dal marito – e ha già incontrato colui che definirà sempre l’uomo della sua vita: Dashiell Hammett – si accinge a compiere molti viaggi in Europa e in Unione Sovietica fino al 1937. Nel 1941 scrive un dramma politico intitolato Veglia sul Reno, dedicato alla sua amica scrittrice Dorothy Parker, un’altra vera donna psicofuturista e antifascista. Lo scritto verte sulle responsabilità americane nei confronti del fascismo e le fa guadagnare l’ambìto Premio della Critica Teatrale di New York. A trentaquattro anni compone, sempre per il teatro, Piccole volpi che, oltre ad essere un successo strabiliante al botteghino, le fa vincere il premio Pulitzer. Anche questa pièce provoca scandalo e rimostranze nella classe conservatrice e perbenista americana, ma la Hellmann si diploma così tra i drammaturghi più incisivi e corrosivi dei suoi tempi. Convive già insieme a Dashiell Hammett, anche lui reduce da un divorzio e soprattutto armato di una geniale attitudine per la scrittura (sarà un maestro della giallistica hard-boiled mondiale, che non teme il confronto con la cosiddetta Letteratura di serie A, al pari di Raymond Chandler e S. S. Van Dine, Georges Simenon e Agatha Christie, Conan Doyle e E. A. Poe) e di una caparbia convinzione politica filocomunista, che gli farà scegliere la prigione piuttosto che finire delatore di amici sospettati. La loro convivenza stabilisce anche un binomio artistico di una creatività eccezionale. Non sarà un caso che tutta la produzione teatrale della Hellmann coincide con il periodo della loro vita insieme. Consiglierei Chi mi sta leggendo di andarsi a cercare un vecchio film di Fred Zinneman, Giulia, del 1977, con protagoniste Jane Fonda e Vanessa Redgrave, è ispirato a una storia vera che la Hellmann ha scritto su una sua grande amica, il cui testo è contenuto nel libro già citato Pentimento (1973). Chi avrà la curiosità di vederlo mi perdonerà se cito (a memoria) una sola pregnante scena nella quale la protagonista (una Lillian Hellmann interpretata da una superba Jane Fonda) litiga con Hammett che vorrebbe impedirle di partire nuovamente in Europa, nella speranza di ritrovare la sua amica, che lui dà sicuramente per morta, uccisa dai nazisti; e lei, che non si lascia convincere, mentre fa le valigie – quando lui le consiglia di lasciar perdere – gli ribatte: Vuoi che mi dimentichi così anche di te? Inoltre pregherei quei volenterosi cinefili che riusciranno a conquistare il film di fare attenzione alla scena in cui viene delineato a tutto tondo il forte legame artistico fra i due – quando lui si fa aspro critico di un pezzo che lei gli sottopone – per capire proprio bene di che cosa parliamo quando parliamo d’amore, come direbbe Raymond Carver. Hammett muore nel 1961 e lei gli dedicherà poi nei suoi libri appassionati capitoli e citazioni, più una splendida introduzione pubblicata nel libro di Dashiell Hammett, edito da Mondadori, L’istinto della caccia (1974). Lillian diventa un’attivista pacifista ed è a fianco del movimento studentesco americano del 1968, nonché una tenace testimone dell’opposizione alla tirannia americana della polizia e delle sue “zie” bellicose e reazionarie FBI e CIA. Si scontrerà anche duramente con Nixon, che aveva già affrontato durante la repressione maccartista di cui il presidente era stato un membro attivissimo e spietato. Nel 1970 la Hellmann fonda il Comitato per la Giustizia Pubblica per la Difesa dei Diritti Costituzionali. Ne Il tempo dei furfanti osa scrivere: “Siamo un popolo che non vuole serbare il ricordo di gran parte del suo passato. In America si considera malsano ricordare gli errori, nevrotico pensarci, psicotico rifletterci”. Stiamo raccontando la storia di una donna e di una scrittrice, di una donna che ha amato e che ha sofferto, ma che non è stata né una santa né un’eroina, e di sicuro non ha desiderato mai essere né l’una né l’altra. Chi affronterà il piacere della lettura dei suoi libri incontrerà anche pagine piene di storie di sbronze, di tristezze, di rancori, di rimpianti. Ma scoprirà, come è avvenuto per chi scrive, un’anima capace di fronteggiare le avversità della vita con coraggio (che erroneamente il mondo maschile definisce esclusivamente “virile”) e un confronto con gli uomini della sua esistenza, basato sull’apprendimento continuo di una complicità cameratesca, a cui mirano tutti gli amanti che si rispettino, ed anche di un sano rispetto per se stessa.

Abstract

L’autore racconta la vita e l’opera di tre donne straordinarie del Novecento: Lillian Hellman, Simone de Beauvoir e Mae West, ritrovando nella loro vita e opere le radici di un femminile che ha saputo gestire con equilibrio psichico e intelligenza i rapporti con il “sesso forte”. Questi tre personaggi, che Caruso annovera tra le donne “psicofuturiste” ante-litteram, hanno anche svolto un fondamentale ruolo educativo ed esemplare per le generazioni del loro tempo e del futuro. Si tratta dunque di donne che hanno saputo amare ed essere al contempo protagoniste della loro vita sentimentale e professionale senza essere vittime del maschile.

Presenze e assenze divine nel diabolico mondo del cinema: un’occhiata psicoanalitica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 13, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

Lo psicoanalista che si occupa di cinema si domanda in tutta umiltà: perchè mi occupo di questo o quest’altro film? Perchè inseguo il tema del “doppio” o del serial-killer nel cinema? I film, come i romanzi, parlano di personaggi che vivono delle storie, qualche volta ispirandosi alla vita, altre volte creando esistenze e situazioni che la realtà stessa non ha ancora conosciuto. Sembra però che non vi sia migliore forza immaginativa di quella che scaturisce e si snoda nella apparente “quotidianità” del vivere. L’arte non trova migliore fonte di ispirazione che dalla vita, cucinata però con quel tocco personale che può trasformare ogni individuo in un essere creativo. È forse lo psicoanalista un critico cinematografico? Sì e no. Lo è nella stessa misura in cui un critico cinematografico è un po’ psicoanalista quando usa griglie del nostro mestiere per parlare di cinema. (Penso alla vena poliedrica di Guido Aristarco ed al suo saggio strepitoso su Sussurri e Grida di Bergman letto in chiave junghiana). È pacifico però che nessuno dei due si sognerà di rubare il mestiere all’altro. Ecco perchè, se vogliamo fare psicoanalisi ci rechiamo da uno psicoterapeuta, se vogliamo critica filmica acquistiamo riviste specializzate, recensioni presenti ormai su tutte le testate giornalistiche o ci rechiamo alle loro conferenze, e magari ai festival. Naturalmente gli appassionati e gli studiosi di cinema non cercano soltanto chiavi di lettura psicoanalitiche per capire, apprezzare o giudicare i film. Al contrario gli esperti dell’inconscio ed i cultori della “materia” psichica sono maggiormente intrigati dai significati reconditi o simbolici che appaiono nei film, curiosi come sono di scoprire meglio l’animo umano, con un intento che ci piace definire decisamente terapeutico. È storia nota, fin dai tempi di Freud, che l’analista si avvicina ad un’opera d’arte con lo scopo precipuo di rinvenire reperti che possano aiutarlo nel suo lavoro, con i suoi pazienti e con se stesso: come fruitore di un piacere estetico, ma anche come distributore e consigliere di film che aiutano a guarire ed a vivere. Se Wim Wenders ha scritto che il rock ha salvato la sua vita, credo sinceramente di poter affermare che il cinema ha contribuito e contribuisce a salvare molte vite anche per merito della recente scoperta della filmterapia, compresa la mia, salvata inizialmente dalla psicoanalisi, vissuta sempre come una entusiasmante avventura cinematografica. Ecco un’altra possibile definizione della filmterapia: prendere visione di tematiche specifiche affrontate da diversi artisti, con il desiderio e l’impegno di arricchire le proprie vedute. Con questa necessaria premessa mi occuperò “con occhio professionale”, di demoni e dei nel cinema.

Abstract

L’autore Amedeo Caruso, medico psicoterapeuta esperto di filmterapia e di bioetica, prende in esame quelli che secondo lui sono tra i più importanti film a carattere divino e diabolico cominciando da maestri quali Bergman, Bresson, Buñuel, Dreyer, Capra, Lubitch, Carné, per arrivare ai contemporanei Wenders, Besson, Beauvois, Groning, fino a Lars von Trier, alla cui pellicola dedica il discorso più lungo, perché perfetta e giusta per un lavoro psicoanalitico e filmterapeutico. In questo articolo vengono precisati i limiti dello psicoanalista rispetto al critico cinematografico, ma c’è una strizzata d’occhi psicoanalitica per ogni pellicola esaminata.

Jung e l’ipnosi

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 12, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2011 – Estratto

Ciò che Jung difende strenuamente non è solo il diritto di contestare Freud, ma anche e soprattutto la difesa della sua personale libertà di pensiero e di applicazione clinica. Non può sopportare un “giuramento da adolescenti” in cui non si può discutere il Verbo pronunciato dal Messia dell’Inconscio! Tale era anche il “patto” sulla sua teoria della sessualità, ed anche a questa Freud voleva costringere il futuro erede a genuflettersi e a considerarla intoccabile e impeccabile.

Così Freud perse la stima di Jung, che si ritirò consapevolmente dalla schiera dei suoi allievi, e proseguì solitario e sicuro il suo cammino, apportando alla pratica clinica ed alla teoria dell’inconscio il suo gigantesco e fertilissimo contributo.

Se ci siamo soffermati sul dissidio Freud-Jung è perché questo contrasto segna – secondo noi – un grosso punto a favore non soltanto di Jung, ma evidenzia anche tutto ciò che è importante, sostanziale per l’ipnosi.

Illustri studiosi di formazione psicoanalitica freudiana e lacaniana, come Leon Chertok, Raymond de Saussure, ed Isabelle Stengers hanno capito e dimostrato in scritti imprescindibili per chi voglia interessarsi al problema, le motivazioni del rifiuto di Freud nei confronti dell’ipnosi, e non staremo qui a ripetere le loro difficilmente confutabili teorie che noi condividiamo in pieno, ma accenneremo soltanto ad esse, integrandole con la nostra modesta aggiunta della teoria della libertà dell’inconscio in ipnosi. Se Freud inventa la psicoanalisi è proprio grazie all’ipnosi. Dall’ipnosi che per lui è troppo sfuggente e indomabile, incontrollabile e misteriosa, irripetibile in tempi e modi sempre uguali, e soprattutto incostante nei suoi effetti, ecco che, pur conservando e onorando la trance che definisce transfert, Freud trasforma un metodo troppo libero e apparentemente fumoso in una disciplina composta da quelli che Jay Haley nel suo libro Strateghi del potere definisce “gli stratagemmi della psicoterapia” e che considera dei pilastri incrollabili e intramontabili nei tempi, nei luoghi e nelle persone. Insomma un’invenzione perfetta, come quella del martello, che pur avendo origini antiche resta insostituibile e immutevole e soprattutto sempre efficacissimo. Questa scelta, direbbe Aldo Carotenuto, dipende dalla metapsicologia personale di Freud, che sentiva di dover controllare completamente il setting – peraltro da lui escogitato – per ottenere gli effetti terapeutici desiderati.

Abstract

Nel suo articolo, l’autore Amedeo Caruso inquadra i rapporti tra Jung e l’ipnosi attraverso una sintetica rivisitazione della carriera scientifica del fondatore della psicologia analitica. Inoltre spiega le ragioni che lo hanno spinto alla riscoperta dell’ipnosi, sull’onda di esperienze freudiane e junghiane refrattarie all’utilizzo della trance. Partendo dalla sua curiosità per l’ipnosi e dallo stupore per l’imprigionamento della stessa in un dimenticatoio, Caruso spiega come l’incontro con Ernest Rossi, il più famoso allievo di Erickson, e il lavoro svolto insieme a lui, lo abbiano convinto a riflettere su quanto e come Jung abbia soltanto “trasformato” l’ipnosi appresa da Janet a Parigi nel cosiddetto metodo dell’immaginazione attiva, tesi avvalorata anche dallo psichiatra James Hall. L’ipnosi, cacciata dalla porta sia da Freud che da Jung, è in realtà sempre rientrata, soprattutto ai tempi odierni, mascherata da magico transfert e colorata da immaginazione attiva, dalla finestra di ogni studio psicoanalitico.

I Nove Peccati Capitali dello Psicoanalista

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 11, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010 – Estratto

Perché nove? Per arrivare al “decalogo” potevo inserire La manipolazione, ma mi sembra che sia già contenuta nell’Onnipotenza; oppure mettere al decimo posto l’incapacità di interpretare i sogni, che è però da considerare più un bagaglio scontato del vero psicoanalista che un errore peccaminoso. Se non sappiamo entrare personalmente anche nelle porte della percezione di trance, siamo inabili a condurvi i Pazienti, e così se non abbiamo dimestichezza con i nostri sogni (vie regie all’inconscio, secondo la intramontabile definizione freudiana) non capiremo niente dei sogni dei nostri Pazienti e perderemo tutto il materiale che ci offrono per aiutarli. Ritengo quindi l’interpretazione dei sogni un postulato della psicoterapia e non un possibile peccato per chi l’ignora, una mutilazione che impedisce quasi ogni possibilità di successo o di cura. Eppure devo constatare per esperienza che esistono “psicoterapeuti” che non sanno cosa diavolo farsene dei sogni. In accordo con Lucrezio mi sembra che gli psicoanalisti inter se mutua vivunt. Gli psicoanalisti vivono gli uni degli altri, in condizioni di uguale sofferenza e di reciproco, necessario, aiuto. Siamo insomma tutti sulla stessa barca. Il rischio più grave che si corre è quello di trasformare il nostro lavoro in un vero inferno umano, e spero che questo mio “annoverare” (parola che deriva dal numero nove, dai numerologi definito il numero dei numeri) solo nove voci, più vicino alla simbologia dantesca che a quella sacra, possa rappresentare un modesto elenco, redatto da un compagno di strada e non da un giudice, per espletare il nostro compito psicoterapeutico su un terreno di libertà, lontani dalla paura e rivolti ad una felicità operativa “che intender non la può chi non la prova”. Riguardo a coloro che scelgono invece l’inferno psicoanalitico, non è perché qualcuno ce li ha mandati, penso solo che quello è il posto in cui hanno scelto deliberatamente di abitare.

La noia è la nostra nemica più viscida. Se ci annoiamo con un Paziente dobbiamo capire perché, interpretare la cosa, valutare se è soltanto quel paziente che ci annoia, o dipende da noi che siamo annoiati del nostro lavoro o addirittura della vita. In questo peccato non ci sono mezzi termini: il nostro mestiere di analisti potrebbe finire qui. Esistono troppi racconti di psicoanalisti che si addormentano, che sono depressi, che appaiono svogliati ai loro pazienti. Quindi o la noia scaturisce da un rapporto particolare con uno o due Pazienti, e bisogna venirne subito a capo, comprendendo le ragioni della nostra emozione spenta, oppure dobbiamo interrogarci sul perché siamo annoiati svolgendo il lavoro più bello del mondo. È lecita la noia in tutti quei mestieri, ed ho profonda commiserazione per coloro che li svolgono, dove la motivazione è pari a zero. Non sto a citarli, perché mi assale una sgradevole malinconia, ma ciascun lettore o lettrice potrà pensare a quelli che gli mettono più tristezza. Per la verità forse non esistono in assoluto lavori noiosi, ma soltanto uomini e donne che svolgono noiosamente, per tartarughesca inerzia, questo o quell’altro lavoro. Quindi non si scappa: per definizione, il nostro è un lavoro nel quale non ci si può annoiare, o meglio, quando ci si annoia, è davvero divertente e intrigante e appagante, scoprirne le cause. Quando un Paziente segnalò a Freud il fatto che si era addormentato, mentre lui stava parlando, il Padre della psicoanalisi rispose: È vero, ma il mio inconscio era sveglio! …Lei mi stava annoiando!

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La Paura è figlia della Morte e lo psicoanalista che non sa giocare una partita quotidiana con la morte non può dirsi tale. Ho incontrato la Morte tre volte prima di incontrare la psicoanalisi, non prevedendo che da allora l’avrei incontrata quasi tutti i giorni nelle vite e nelle storie dei miei Pazienti. Un incidente stradale a circa 21 anni, dove mi sono salvato miracolosamente dopo essere finito con l’auto in un canale di acqua profondo e guadagnando a nuoto la riva, dopo aver abbandonato il veicolo quando si inabissava inesorabilmente; sono sopravvissuto nel 1985 al sequestro della nave da crociera Achille Lauro, (un evento che ebbe risonanza mondiale, tutti rischiammo di morire, e l’ebreo Klinghoffer fu ucciso) dove viaggiavo come medico di bordo e che mi ha ispirato la sindrome del Giudizio Universale, il mio primo scritto di psicoanalisi; mi sono addormentato mentre guidavo nel 1987, reduce da un incontro sentimentale assolutamente distruttivo, svegliato miracolosamente da un santo travestito da camionista, che mi lampeggiava furiosamente e suonava una benedettissima sirena fuori ordinanza che mi ha svegliato in tempo, pochi secondi prima dello scontro frontale. Fu allora che decisi di entrare in analisi, appena sbarcato dalla nave con sogni premonitori di terapia psicologica e strapazzato da un amore che amore non era, ma soltanto infatuazione da aspirante poeta maledetto per una ammaliante, bellissima strega malvagia e soprattutto squilibrata. Ho capito poi che la vera Morte si nasconde dietro la malattia psichica, dentro comportamenti inconsci che ci fanno credere di essere vivi, e invece sono soltanto mine nascoste di follia che non abbiamo saputo riconoscere e che ci hanno sgretolato il cervello. La paura è la nostra incapacità di mantenere e gestire un equilibrio, è l’ostacolo che non vogliamo affrontare per scioglierci dal giogo della schiavitù. Aiutare una donna ad affrontare e liberarsi di un marito violento; sostenere dei giovani che hanno famiglie spaventose e spaventevoli; risollevare un uomo che è in preda alla depressione; incoraggiare chi ha perso la stima di sé; riportare sui binari un giovane che delira; confortare e curare chi non ha più speranze; assistere chi è affetto da patologie organiche serie o esiziali: di questo non dobbiamo, non possiamo avere paura. Sentirsi liberi di aiutare a trasgredire, quando trasgredire o tradire vuol dire avviarsi alla libertà ed alla realizzazione di sé, imparare a dialogare con la diversità, politica, religiosa, sessuale, etica, affrontare la morte che si cela dietro la maschera di queste patologie. Questo significa non aver paura, perché lo psicoanalista, come abbiamo visto finora, è un cavaliere con qualche macchia, ma senza paura. Impariamo ogni giorno di più che il nemico più forte da sconfiggere insieme ai nostri analizzandi è la paura di vivere, e solo chi ha paura di vivere ha paura di morire. Lo psicoanalista è un nuovo eroe nato nel XX secolo che ha ancora molto futuro e tante battaglie da combattere. Soltanto con questa immagine mitica di riferimento potremo affrontare le disgrazie e i dolori che tormentano i nostri assistiti. Un papa, non ricordo più quale, era solito predicare semplicemente così: non abbiate paura, non temete di amare. Soltanto così la morte sarà una nostra cara amica e compagna di viaggio, anzi una sorella, come la definisce san Francesco, forse l’uomo più psicologicamente sano mai esistito, come affermò una volta il mio professore di psichiatria Leonardo Ancona. Ho citato un papa e un santo, e mi convinco sempre più che la nostra è una missione “laicamente religiosa”.

Abstract

In questo articolo l’autore, Amedeo Caruso, enuncia, forse per la prima volta nella storia della psicoanalisi, quelli che sono, secondo lui, i nove peccati capitali della psicoanalisi: Vita Privata, Menzogna, Attaccamento Infinito, Noia, Cupidigia, Paura, Seduzione, Onnipotenza, Ignoranza dell’Ipnosi. Se ne occupa come un compagno di strada e non rivestito dalla toga di un giudice, con un tono accattivante ed anche un po’ cattivo, severo, perché nella sua idea chi pratica la psicoanalisi deve essere un cavaliere con poche macchie e nessuna paura. Con riferimenti alla storia della psicoanalisi ed alla sua propria esperienza personale, condensa in nove brevi capitoli le insidie ed i pericoli del mestiere. Nessuna pena capitale viene comminata, però. Il rischio è soltanto la perdita dell’ars psychoanalytica, da lui definita il vero inferno del terapeuta.

La morte al lavoro: accostamenti psicoanalitici alla tanatologia cinematografica

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 10, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2010

Torniamo indietro nel tempo incontro a uno dei film più intensi e memorabili della storia del Cinema: Il settimo sigillo di Ingmar Bergman, del 1956. Ho rivisto intenzionalmente il film in occasione di questa disquisizione psico-cine-tanatologica, e ho capito perché, con sorpresa e soddisfazione dello stesso regista svedese, il film “attraversò il mondo come un incendio”. Ispirato a Pittura su legno, atto unico dello stesso Bergman, fu girato con poche risorse in appena cinque settimane, quasi interamente in studio con minime riprese all’esterno. Quest’opera rimane un capolavoro perché nella sua intensità scarna ed essenziale riesce a rappresentare, in un bianco e nero nitido e significativo, l’incontro dell’Uomo con la Morte – e tutta l’angoscia umana relativa alla fine – e per la prima volta assistiamo a una lotta giocata sulla scacchiera (la morte pesca il colore nero e il cavaliere commenta che le si addice) ma che si basa su un rapporto dialettico sui massimi sistemi del vivere e morire, che nessun regista era mai riuscito a mettere in scena in modo così magistrale. Reduce dalle crociate insieme al suo scudiero (che ricorda un Sancho Panza o un Leporello, in bilico tra l’umorismo della spalla di Don Chisciotte e il cinismo del servo di Don Giovanni), il difensore della cristianità, che ha sulla coscienza l’uccisione di chissà quanti infedeli in nome del Santo Sepolcro, è pervaso dalla straziante ferita del dubbio, che lo spinge a pregare con la disperazione di chi sta perdendo la fede. Così ingaggia questa partita con la Morte per dimostrare, quantomeno a se stesso, che non può essere soltanto una sua vittima, ma anche un difensore della Vita intesa come puro amore per tutte le espressioni del creato. Nei vari incontri a scacchi Bergman riesce a fare esprimere al Cavaliere tutto il suo dolore e tutta l’angoscia per un mondo che anela al divino, ma ne sente tragicamente l’assenza. Insieme al suo scudiero deplorano inermi la messa al rogo di una presunta strega. Il tempo stringe, ma sebbene la Morte vincerà con uno scacco al re, il protagonista indimenticabile di questo film riuscirà a ingannarla consentendo all’unica coppia giovane della brigata – che si è venuta a formare lentamente durante il ritorno a casa e che è tutta condannata a morire – insieme al figlioletto di fuggire e sfuggire alla morsa della Padrona delle Tenebre. Questo è il modo in cui l’insuperabile talento di Bergman chiude i conti con l’Esecutore Ufficiale della Fine Umana: alla domanda del Cavaliere se sappia qualcosa di Dio le fa rispondere che a Lei non interessa sapere, ma che ciò che deve fare è soltanto portare a termine il suo compito. Lo spettatore viene lasciato in bilico tra la pietà per il dolore umano, spesso assurdo e incomprensibile e il desiderio di dare un assenso alla verità divina, sospeso tra il coraggio e la forza di chi si sente perduto e abbandonato nell’universo da un Dio muto e crede soprattutto nel futuro dell’uomo (come sembra propendere il regista con il messaggio di speranza espresso nella salvezza della coppia di attori – l’arte insomma) e l’atto di fede di chi si lascia andare, disarmato dalla ragione, alla fede e alla Divina Provvidenza. Ingmar Bergman coesiste in entrambe le figure e ci dimostra che ciascuno di noi vive sempre nel contrasto e nel dubbio, che sono gli unici valori che possono aiutarci a vivere coscientemente.

Dopo la morte di Bergman (che incontrò e affrontò la morte in compagnia di Antonioni il 30 luglio 2007) il regista tedesco Wim Wenders ha realizzato un film che ripropone oltre cinquant’anni dopo un nuovo incontro dell’Uomo con la Morte cominciato nel Settimo Sigillo. Nel film Palermo shooting del 2008 l’ultima mezz’ora (a nostro parere la più bella e drammatica nonché la più incisiva di tutta la pellicola) l’autore fa impersonare la Regina della Notte Eterna da un perfetto Dennis Hopper che sembra completare dopo mezzo secolo il discorso iniziato ne Il settimo sigillo di Bergman. Wenders riesce a dare un senso compiuto, quasi fraterno e cameratesco all’ignaro oscuro Padrone del Mondo Infero con un dialogo che riportiamo nei passi più significativi: La morte è un freccia dal futuro che vola verso di te. Un amico, una guida, il guardiano del tempo. Non c’è nessuna uscita, non c’è uscita dall’uscita, sono io l’uscita. Io sono dentro di te lo sai. Perché hai tanta paura? Non sostenevi di aver perso ogni paura della morte? (…) È soltanto un passaggio, io sono la tua uscita, devi passare attraverso di me, lo fanno tutti. Non chiamare felice un uomo finché non è morto…

Abstract

In questo articolo l’autore Amedeo Caruso sceglie un insieme di film di vari registi cinematografici italiani e stranieri che nelle loro opere hanno toccato con particolare sensibilità e profondità il tema della morte. Da Bergman ad Antonioni, da Fellini a Truffaut con l’inclusione di un film di Mike Nichols mai proiettato nelle sale in Italia e di qualche altra rara perla o dimenticato gioiello della cultura di celluloide, Caruso adopera il suo occhio psicoanalitico per scandagliare i migliori fotogrammi tanatologici inseriti nei film di questi autori.