Panni sporchi in famiglia e detersivi psicoanalitici

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 9, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009

Fedele alla ideologia fondante del Centro Studi Psicologia e Letteratura mi occuperò in questo articolo di scrittori, registi, musicisti e psicoanalisti che hanno costruito e percorso con le loro opere e le loro esistenze nuove strade artistiche ed umane.

Mi impegnerò a rovistare questa volta nel cesto dei panni sporchi di casa, tra le camicie, le mutande e le lenzuola dei personaggi letterari e cinematografici e dei loro autori e finanche di certi psicoanalisti – tutti a me cari – che hanno vissuto delle vite singolari, fuori delle regole e partorito creazioni letterarie, cinematografiche, musicali e psicoanalitiche meritevoli – sia le loro vite che le loro opere – di un ulteriore, forse nuovo discorso psicologico.

Con questo scritto desidero proseguire il discorso psicoletterario aperto da Aldo Carotenuto, mio maestro, in tanti libri da Lui dedicati alla interpretazione di poeti e scrittori.

La tesi carotenutiana rispetto alla vita di ogni artista è che l’opera, un’opera specifica (cinema, teatro, poesia, romanzo, musica e, perché no? psicoanalisi) richiede un certo tipo di vita, proprio quella vita vissuta dall’autore. Non è quindi la vita che fa l’opera e dunque per intenderci non è vivere da bohemien che ci fa diventare Baudelaire o Rimbaud, ma è l’opera che ci proponiamo, alla quale attendiamo, che pretende una vita da poeta maledetto con assenzio, disperazione, droghe e donnine o maschietti indispensabili al compimento della stessa. Quindi non basta essere stati deportati ad Auschwitz per diventare Primo Levi, o avere l’asma per scrivere La Recherche come Proust.

L’intento di frugare tra i panni sporchi di artisti e psicoanalisti nasce dalla volontà di cercare un po’ di scheletri nell’armadio che altri studiosi e artisti hanno già contribuito con il loro lavoro a far conoscere parzialmente. La nostra differenza, e la nostra distinzione saranno soltanto l’uso della chiave psicoanalitica, un passepartout che consente soltanto alla femme de chambre l’accesso a tutte le camere dell’albergo. Il nostro scopo sarà quello di sorprenderci e capire senza alcun bisogno di mettere in ordine le stanze che andremo a visitare, con l’opportunità di scoprire il genere di indumenti intimi presenti in essa, eventuali prove nelle lenzuola, presenza di libri e medicinali, lettere, appunti sparsi, e tracce significative dei nostri Ospiti.

Sarà dunque questo un diario della femme de chambre, come può essere definito lo psicoanalista al quale viene consegnata dai clienti la chiave del loro inconscio e del loro cuore, attraverso i sogni e le confidenze. Oltre ad essere quindi una prostituta mercuriale, secondo la felice immagine creata da James Hillman, lo psicoanalista può essere per noi anche una perfetta femme (o alternativamente e/o contemporaneamente) homme de chambre, androgino e trans-erotico come deve essere un Sacerdote di Psiche. Benvenuti dunque nel Residence Arte & Psichefuturista.

Abbiamo invitato in questa immaginaria (convinti che tutto quel che si immagina, esiste) Casa del Rendez-Vous Creativo & Psico-Detersivo le seguenti gentildonne e gentiluomini: Jean Cocteau, Luchino Visconti, Louis Malle, Paul Gegauff, Anna Freud, Gisela Palos, Elma Palos, Sandor Ferenczi, Sybille Lacan, Jacques Lacan, Liliane Siegel, Jean-Paul Sartre, Oscar Wilde, Alfred Douglas, Daniel Barenboim, Hilary e Jackie du Prè, e Honorè de Balzac. Sono nostri ospiti ed hanno accettato amabilmente questo appuntamento.

Abstract

In questo articolo l’Autore si prefigge il compito di rovistare nei “panni sporchi” di artisti come Cocteau, Balzac, Chabrol, Malle, Cecil Beaton e Greta Garbo, Camille Claudel, Luchino Visconti, Sartre, Oscar Wilde, Paul Gegauff, Hilary e Jackie du Pré, Daniel Barenboim e psicoanalisti quali Anna e Sigmund Freud, Sandor Ferenczi, Jacques Lacan, con il desiderio di capire meglio le loro vite e le loro opere. L’intento è quello di proseguire il discorso psicologico iniziato dal suo maestro Aldo Carotenuto riguardo l’opera artistica. L’opera d’arte richiede un certo tipo di vita, proprio quella vita vissuta dall’autore. Non è quindi la vita che fa l’opera, ma l’opera che chiama, che necessita di quel genere di vita. Non bisogna temere di osare dove gli altri temono di camminare, soltanto così ci si potrà districare meglio nelle infinite pieghe del mistero della vita e leggere con più luce le pagine della psiche e dell’arte.

Lou Andrea Salomé: Arte Psiche e Libertà

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 8, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2009 – Estratto

Lou nasce a Pietroburgo in Russia, il 12 febbraio 1861. Unica figlia di un generale che la adora e di una madre molto più giovane del marito, Lou ha cinque fratelli, due morti giovani. Il fratello maggiore segue le orme paterne abbracciando la vita militare, quello di mezzo farà l’ingegnere, il fratello minore diventa pediatra.

La perdita della fede in Dio fu il primo grande choc della adolescente Louise, che ricorderà questo momento acuto e terribile in un suo scritto psicoanalitico, quasi lei stessa avesse precorso le idee freudiane sull’esistenza di Dio, come un desiderio di un padre perduto, il bisogno di un padre eterno che ci accolga e ci perdoni. Alla morte del padre infatti dirà a se stessa ( e lo scriverà): “ecco ora sono veramente sola e indifesa”. Con il padre ha un rapporto preferenziale, profondo e passionale, lo adora. C’è un ricordo di un episodio di quando era bambina e viene morsa da un cane di famiglia a cui è affezionata. Non dice nulla e va a scuola. Al ritorno apprende che uno dei servitori di casa è stato morso anche lui dal cane e che l’animale viene soppresso perché sospetto portatore di rabbia. La bambina chiede allora al medico quali siano i sintomi della malattia e viene a sapere che sono l’idrofobia e il desiderio di mordere il migliore amico. A questo punto è terrorizzata perchè teme di voler mordere il padre! Dal padre ancora apprende il valore del denaro. Una volta lui le dona una moneta d’argento da dieci copechi per insegnarle il valore dei soldi. Lei però vuole dare in elemosina la moneta a un mendicante. Il padre si oppone e le spiega che ciò che deve fare e cioè donare al povero solo la metà della sua ricchezza. Così il padre tramuta la moneta da dieci in due da cinque, altrettanto brillanti e in tal modo le consente di fare del bene. Ha invece un rapporto conflittuale con la madre. Prova ne sia una storia della sua prima infanzia, quando vede dalla spiaggia la madre che nuota e le urla “mammina, tesoro, annega, ti prego!”. La madre sbalordita risponde “ma allora morirei” e lei: “non fa niente!”.

La madre vivrà fino a novant’anni ma Lou le darà filo da torcere perché non si sottometterà mai alla sua giurisdizione. Giovanissima comincia a viaggiare insieme alla mamma senza mai subire i suoi precetti. Lo spirito libero che è in lei si libra in volo prestissimo. Incontra in Italia Malvida Von Meysenburg, una protagonista della liberazione femminile ante litteram, autrice di un libro che a quei tempi fece epoca, “Memorie di un’idealista” trasferitasi a Roma (“la sola città che come poema vivente possa soddisfare i bisogni estetici dell’anima” secondo Malvida) e che diventò una sorta di madrina spirituale di Lou, ma non per molto tempo. Conosce nel suo salotto in via della Polveriera, poco distante dal Colosseo, Paul Rée, autore di un libretto di aforismi – pubblicato anonimo – dal titolo “Osservazioni psicologiche” con cui aveva conquistato l’amicizia e la stima di Nietzsche. La giovane russa era alta, slanciata, con splendidi occhi azzurri, così brillanti che di lei si diceva che quando entrava in una stanza nella stessa sorgeva il sole, imbastì una tenera affettuosa e complice amicizia – senza alcun risvolto sessuale – con Paul Rée suscitando una campagna di odio e diffamazione contro di lei sostenuta da Malvida Von Meysenburg con lettere offensive alla famiglia di Lou e alla madre di Rée. A questo si aggiunsero poi gli strali di Elizabeth Nietzsche, sorella del futuro famosissimo filosofo, amico di Paul che finirà per andare a vivere con i due nello stesso appartamento. Curioso, davvero curioso: Lou racconta a Rée di avere un sogno ricorrente: divide un grande appartamento con due uomini, due amici, al centro della grande casa con studio e biblioteca. Fiori e libri e ai lati della stanza si aprono camere da letto. Vivono davvero tutti e tre insieme e insieme lavorano in perfetta momentanea armonia senza che l’essere donna fra due uomini turbasse la serenità della convivenza. Una donna scandalosa per quei tempi, non c’è dubbio. Ma forse sarebbe altrettanto scandalosa una donna che si comportasse così ai nostri tempi e agli occhi di chi guarda senza pensare e senza cercare di capire. Quel che segue è abbastanza noto: il ménage à trois regge male perché Nietzsche le chiede per ben due volte di sposarlo ma lei rifiuta. Non riesce a confondere amicizia, confidenza, convivenza, confraternita e matrimonio. Lou ha una concezione molto speciale dell’amicizia e del sesso, nonché del matrimonio. Sta di fatto che non vuole rinunciare all’amicizia con Fritz, ma non vuole neanche scambiare la sua libertà con una fede nuziale. D’altronde ha già rifiutato le profferte di matrimonio di Paul. I due compari dovrebbero aver capito in quale storia si sono infilati accettando Lou come coinquilina. Pare che lo Zarathustra sia un’opera consolatoria di Nietzsche, dove non è tanto tenero con le donne e nel libro aleggiano frasi vendicative forse dirette unicamente a Lou (“Vai con le donne? Non dimenticare la frusta!”). Nietzsche non conoscerà mai la gloria della portata del suo pensiero che invaderà tutto il secolo fino a sfociare nella psicoanalisi. Darà segni di follia baciando un cavallo a Torino, (una lapide nella città, in via Carlo Alberto testimonia l’episodio) vittima della tabe dorsale, ultimo stadio della sifilide contratta probabilmente in Sicilia. Lou andrà diretta verso la psicoanalisi, passando per la poesia. Di lei infatti Freud dirà: “Lou è il poeta della psicoanalisi”. Quando uscì in Italia il film di Liliana Cavani ci fu uno scandalo quasi simile a quello di “Ultimo tango a Parigi” di Bertolucci. Nel film della Cavani si avanza l’ipotesi che Paul Rée ritrovi se stesso nel riconoscimento della sua omosessualità ed esiste una scena che fece inorridire e sgomentò i perbenisti, quella in cui il personaggio viene sodomizzato con il collo di una bottiglia. Felix Guattari in una conversazione con Liliana Cavani nel 1977 pubblicata su “Le Monde” affermava: “devo dire che nel film mi sono sentito scrutare da uno sguardo di donna, una donna che ha per me un’identità composita, che è insieme Liliana Cavani, Dominique Sanda, Lou Salomé, ma anche certe donne con cui ho vissuto situazioni analoghe. Dato che la stampa francese ha accusato Liliana Cavani di preferire il sex shop alla verità storica, c’è una sola risposta possibile – che era già stata di Lou e che oggi è di Liliana Cavani: non dovete rendere conto a nessuno”. Proprio così, Lou Salomé non vuole rendere conto a nessuno a meno che non sia per propria scelta, e questo accadrà soltanto con Freud, quando si sottopone all’analisi con lui. Nell’intervallo di tempo di attesa dell’incontro con Freud che avverrà nel 1911 e che darà un giro di boa, il classico “turning point”, la vita di Lou è semplicemente elettrizzante. Incontra molti uomini, scrive molti libri, ma il libro più importante è quello della sua vita, neanche la sua autobiografia o i suoi scritti su Rilke e i romanzi come “Ruth” o “Fenitschka” lasceranno una traccia così indelebile nella storia del cammino umano e della psicoanalisi. Conosce oltre a Nietzsche e Rée anche Rilke, Wagner e Martin Buber, Strindberg, Wedekind e ancora Stanislavsky, Max Reinhardt, Leonida Pasternak (il padre di Boris) e finanche Tolstoj.

Durante la sua vita le furono appioppati diversi nomignoli e frasi da leggenda, quelli dispregiativi sempre collegati con il suo demonico potere di conquistare gli uomini, di farli innamorare di sé, ma soprattutto inscindibili dall’invidia che li creava: la “strega dell’Hainberg” è quello che le “donano” gli abitanti di Gottingen, la città dove aveva la residenza con il professor Andreas unito a lei da un matrimonio bianco. Non sappiamo chi abbia coniato la frase: “quando Lou si appassiona a un uomo, dopo nove mesi costui mette al mondo un libro!” ma crediamo che sia davvero quella che racchiude tutta la potenza creativa di questa donna fatale, più forte dell’uomo, capace di inventare la nuova donna, un essere in grado di ristabilire l’equilibrio troppo a sfavore del femminile. In questo le sono sorelle Anais Nin, Virginia Woolf e Sabina Spielrein. Indipendente e sicura di sé come Anais, svolge un ruolo fondamentale per Freud e con Freud così come Anais ha fatto con Rank. Le sue idee sulla guerra sono all’incirca le stesse che enuncia Virginia in “Tre ghinee” e la conclusione è unica: fate andare al potere le donne e vedrete che forse guerre non ce ne saranno, ci sarà più dialogo, più pietas per i morti causati da vivi maschi; altrimenti lasciateci in pace, ci tiriamo fuori, la guerra è un affare maschile, ci resta soltanto la possibilità di piangere i nostri figli caduti. Per la psicoanalisi è come Sabina, sarà forse più importante di Marie Bonaparte presso Freud. Così come Sabina è stata importantissima per Jung forse più di Emma o di Tony Wolff. Se Marie Bonaparte ha istituito la psicoanalisi freudiana in Francia e ha prodotto anche la nascita di un Lacan (pensandoci bene), l’apporto di amicizia e solidarietà che Lou regala a Freud è impareggiabile. Se Anais può scrivere nei suoi diari che è pronta per la conquista di Jung (e chissà cosa sarebbe successo se si fossero davvero incontrati!), Lou ha conquistato decisamente Freud, con il quale manterrà un sodalizio – senza sesso – sincero e immutato dal 1911, anno del loro incontro fino alla morte di lei.

Abstract

In questo articolo l’autore Amedeo Caruso si interessa della scrittrice e psicoanalista Lou Andreas Salomé, una delle donne più rappresentative del Novecento e bandiera di tanti movimenti di liberazione femminile sorti intorno al 1968 nel mondo. Nel tratteggiare le opere e i giorni di quella che è stata la prima vera psicoanalista della storia, Caruso sottolinea reale conquista ottenuta da questa artista dopo l’incontro con Freud: la libertà intesa come difesa e garanzia delle proprie idee e azioni lontane dalla morale comune una Weltanshauung frutto di profonde riflessioni e vissuta pienamente, con alta responsabilità e coraggio.

La Psicoanalisi, i Clienti, gli Allievi, il Caso, la Borsa e la Vita

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 7, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2008 – Estratto

La questione “denaro” com’è noto, rappresenta uno dei ploys, (uno stratagemma) dello psicoanalista per mantenere quella che oltre 50 anni fa Jay Haley ha descritto come oneupmanship, la supremazia dello psicoanalista. Cosa dice Haley in questo insuperabile scritto intitolato: La psicoterapia come arte? Semplicemente che lo psicoanalista è un soggetto che deve mantenere la sua supremazia sul paziente, (naturalmente per poterlo curare) ponendolo continuamente in posizione “one-down”, traducibile in italiano con un antipatico assoggettato, sottomesso, fintanto che lo stesso non si arrende a questa condizione; da quel momento comincia davvero l’analisi.

Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.

Questo combattimento è necessario e ineludibile e può durare anche molti mesi e avere perfino delle ricadute durante l’analisi. Lo psicoanalista però ha a disposizione gli stratagemmi indicati da Freud che sono intramontabili e inattaccabili quali il Transfert, il Tempo, la Richiesta e la Motivazione dell’analizzando, l’Interpretazione dei sogni da parte dell’analista, e non ultimo il Denaro che rappresenta lo scambio di energia economica restituita in termini di energia psichica. Insomma, dice Haley, grazie a questi stratagemmi lo psicoanalista può e deve continuamente affermare la sua supremazia (non il potere, si badi bene) ma se volessimo proprio chiamarlo con questa parola va anche bene, purchè aggiungiamo potere a fini terapeutici, dunque non per desiderio crudele di mettere l’altro in stato di schiavitù. Tale supremazia ha lo scopo di aiutare il soggetto richiedente a mettersi nelle mani dello psicoanalista, a lasciarsi andare, letteralmente ad affidarsi e a quel punto comincia il vero lavoro, quello di mettere one-up il paziente, capovolgendo i ruoli lentamente per farlo sentire nella pienezza della sua autonomia seduta dopo seduta.

Il denaro dunque è uno degli stratagemmi fondamentali della psicoterapia. È anche naturalmente una forma universalmente riconosciuta di pagamento per qualsiasi lavoro le persone svolgano. Nel caso della psicoanalisi però si tratta anche di uno strumento interpretativo, e se perdiamo questa occasione, ogni occasione per interpretare, è come se lasciassimo passare in silenzio un sogno dove per esempio l’analizzando fa l’amore con la madre. Devo dunque domandarmi perchè l’avvenente fanciulla che ho in terapia da quasi un anno negli ultimi due mesi alla fine di ogni seduta esordisce così: “Le dispiace se la seduta la pago la prossima volta?” e prosegue così per quattro, cinque sedute di seguito adducendo ogni volta una scusa diversa quando invece per i primi otto, dieci mesi è stata sempre puntualissima nel pagamento ad ogni seduta (come pattuito). Naturalmente bisogna rispettare i patti e se il patto la cui forma lascio in genere decidere al paziente, come generoso atto di supremazia) prevede il saldo ad ogni seduta potrei anche passare sopra ad un atto mancato isolato (ma in realtà non ci passo mai: interpreto sempre, prima o poi) ma perderei tempo e lo farei perdere al soggetto se non lavorassi su questo comportamento

Abstract

In questo articolo vengono raccontate diverse storie di psicoanalisi e di vita con particolare riferimento allo stratagemma psicoanalitico del denaro. L’autore si avvale della sua ventennale esperienza come psicoanalista e come analista didatta e supervisore di una scuola di specializzazione in psicoterapia per mostrare come ci si può arricchire anche perdendo l’onorario di qualche paziente.

Il mediatico consiglio del medianico coniglio (una capsula di medi-cine-terapia)

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 4, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2007 – Estratto

L’intento del mio neologismo medi-cine-terapia è quello di combinare – lacaniamente se volete – l’effetto mediatico (e dunque anche del godimento) insieme a quello terapeutico della visione filmica.

Film come medicine, compresse effervescenti ipnotiche che si sciolgono in non più di un paio di ore, farmaci psicologici quasi senza effetti collaterali e privi al 99% di controindicazioni. La pillola che vorrei suggerirvi quest’oggi è una lezione cinematografica a proposito della comunicazione. Sono certo che il pubblico nato intorno agli anni ’50 del secolo scorso avrà senz’altro visto questo film. Per tutti i più giovani mi auguro che questa occasione sia propizia per prendere visione del film in questione, reperibile per un pugno di euro in dvd. Onestamente non so dirvi quanto un film possa essere terapeutico senza una sana, autentica psicoterapia svolta insieme ad un altro essere umano. Personalmente credo che migliaia di buoni film “terapeutici” non valgano il confronto dialettico analista-paziente. Sono però convinto che una psicoterapia nella quale sia presente la prescrizione di film aderenti alle tematiche conflittuali del cliente, come a volte mi capita di fare con i miei pazienti, consegnando loro un film di complemento alla terapia, un contorno extra insomma, non guasti ed anzi contribuisca a sviluppare ed arricchire il nostro lavoro.

Fatte queste premesse non mi resta che raccontarvi per sommi capi la trama. Il film in questione s’intitola Harvey, è stato scritto dal premio Pulitzer Mary Chase e diretto dal regista Henry Koster nel 1950.

Il protagonista si chiama Elwood P. Dowd ed è interpretato da James Stewart. Mister E. P. Dowd è l’unico a vedere Harvey, un coniglio bianco alto quasi 2 metri, del quale è compagno inseparabile. Questa stranezza lo rende inviso a tutti i benpensanti, a cominciare dalla sorella e dalla figlia di questa, che occupano però la casa di proprietà del fratello e zio che ha ereditato tutto dalla madre.

Questa dolce, innocua follia spinge le due megere a far rinchiudere il povero Elwood in un manicomio con l’intenzione di fargli praticare dei farmaci per “curare” questa allucinazione.

La ragione per cui ho scelto questo film come argomento della mia breve conferenza all’ottavo convegno del Centro Studi sulla comunicazione consiste nella mia convinzione che in questa storia c’è molto da imparare sulla psicologia della comunicazione. Credo che la pellicola rappresenti una salutare pillola da assumere per riconsiderare il nostro comportamento nel mondo.

Per fare in modo che la pillola della medi-cine-terapia funzioni, bisogna che facciamo entrare dentro di noi i personaggi del film, a cominciare da quello principale interpretato da James Stewart.

Vediamo allora chi è il candido giovanotto che parla al coniglio invisibile a tutti, tranne che a lui. Mr. Elwood sembra che non abbia alcun lavoro tranne quello di andare in giro con il suo compare dalle lunghe orecchie, recandosi di preferenza nei bar dove trascorrono la maggior parte del tempo bevendo Martini cocktails.

Un’altra attività di Mr. Elwood è quella di dare retta a chiunque e di interessarsi con affetto ai problemi e alla vita degli altri, con particolari preferenze verso i barboni, le persone semplici ed anche ex- galeotti.

Si profila quindi il ritratto di un esperto della comunicazione, che grazie all’amicizia con il fantomatico coniglio riesce a stabilire contatti pregnanti con gli esseri umani mediante vari escamotages vincenti: la dolcezza, l’assenza di malizia, la generosità (quest’ultima intesa sia in senso economico che come donazione di sé). E infatti alla fetta di umanità più sofferente prediletta da Elwood la stramberia del coniglio risulta molto più facile da gestire e accettare. Non accade lo stesso invece per la sorella e sopratutto per la nipote le quali temono l’emarginazione da parte della borghesia che frequentano a causa di questo “zio indegno” (il riferimento ad un’altra giuggiola di medi-cine-terapia, il film omonimo di Franco Brusati, del 1989 è puramente voluta).

C’è un particolare che a me sembra di enorme importanza nel modo di fare di Elwood: a qualunque persona egli incontri, dal postino al tassista, dall’infermiere del manicomio allo psichiatra, fino ad un occasionale avventore del bar, egli consegna gentilmente il suo biglietto da visita, che viene quasi sempre respinto o accettato con bonaria sufficienza.

I tentativi di comunicazione del tenero amico del coniglio sono dunque frustrati e spesso rifiutati, finchè non vengono capiti nella loro intima e profonda sostanza, come accade alla moglie del primario della clinica che rimane stregata dal comportamento angelico dell’uomo che vede e parla al coniglio, ma che sa sopratutto parlare agli uomini con l’esperanto dell’amore, dell’accettazione dell’altro e dell’accoglimento del diverso, specie se sofferente. Ma non è questa in fondo una metafora di un buon lavoro psicoanalitico? Quest’uomo non riesce a sopportare troppa realtà, come l’uccello di T. S. Eliot (Via, via – disse l’uccello – il genere umano non può sopportare troppa realtà, Quattro Quartetti, I). Ma in questa vicenda cinematografica oltre che il poeta inglese viene tirato in ballo anche un poeta irlandese, W. B. Yeats, per la sua passione verso gli spiriti e i folletti. Infatti a un certo punto del film Stewart definisce chiaramente Harvey come un pooka, che è un nome celtico mitologico, riferito a spiriti buoni sotto forma animale, sempre molto grandi che appaiono in luoghi diversi di tanto in tanto, ora all’uno ora all’altro umano; sono creature maliziose ma benigne, amantissime del bere e dei pazzi.

Lentamente in questa deliziosa commedia degli equivoci, non si capisce più chi siano i pazzi perché ciascuno esprime la propria follia personale. Capita quindi che la sorella sia rinchiusa nel manicomio perché appare ai medici più squinternata del fratello, che viene lasciato libero. Così potrà invitare tutti da Charlie, il suo bar abituale, compreso il guardiano del manicomio non prima di averlo munito della sua carta da visita ed essersi attardato e complimentato con lui per l’invenzione del cancello semiautomatico del manicomio. Comprendere, amare, significa comunicare. Non esiste comprensione laddove non esiste comunicazione.

Abstract

L’autore dell’articolo (un esperto di “medi-cine-terapia” e appassionato di “film che curano”) propone una visone cinematografica “terapeutica” utilizzando un vecchio film, “Harvey”, del 1950. Questo film – propone l’autore – potrebbe aiutarci, come un buon farmaco, a migliorare le nostre capacità psicologico-comunicative. Il protagonista, interpretato da un James Stewart in stato di grazia, è unico a vedere un grande coniglio bianco e questa stranezza lo porta in manicomio per mano di una sorella e una nipote perbeniste. Grazie a questo animale, però. Ogni personaggio della vicenda – incluso lo spettatore – imparerà una lezione d’amore.

Frammenti di un insegnamento dell’inconscio sconosciuto: Aldo Carotenuto, un maestro paziente

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 2, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2006

Devo confessare che durante quello che noi psicoanalisti definiamo il periodo prodromico dell’analisi, cioè quei giorni, settimane o mesi che rappresentano l’aura della psicoanalisi, insomma quell’anticamera che si definisce preanalitica, l’intervallo che passa tra la decisione di andare in analisi e il momento in cui si entra in analisi gli avevo inviato qualche paziente che ritenevo potesse giovarsi del suo aiuto. Tralascio le ovvie interpretazioni (del resto giustissime) relative a questo comportamento, in quanto i pazienti inviati, sebbene necessitassero davvero di consulti psicoanalitici, rappresentavano anche simbolicamente tutte le parti di me che volevano andare in analisi da lui. Così, attraverso queste persone, ero venuto anche a conoscenza del suo onorario o forse dovremmo dire di quella che era la media del suo onorario.

Il mio futuro maestro aveva richiesto da me un onorario ben più alto di quello stabilito con i miei pazienti. Questa rappresentava davvero una “provocazione”. La mia interpretazione era che io pagassi molto se proprio desideravo avere lui come analista. Ho capito dopo che questa è una mossa sullo scacchiere dell’analisi che lo scacchista-istruttore può adoperare per valutare la motivazione di un apprendista-paziente. Questo sacrificio ha rappresentato anche la mia potenzialità a trasformarmi in paziente – apprendista stregone. Così ho fatto tesoro anche di questo insegnamento. Ho capito che le prime mosse sul campo dell’analisi vanno giocate anche con temerarietà, ben sapendo che, nella conduzione del viaggio analitico, è il cocchiere che decide quando e se frustare il cavallo, per giungere a destinazione insieme al paziente che siede in carrozza. È il conducente che si accorge se sta tirando troppo la corda o quando è il tempo di uno zuccherino per il quadrupede. Voglio dire con questo che, nel lavoro analitico, i patti e le decisioni possono essere sempre riesaminati insieme con il paziente. Questo significa che posso ridurre il mio onorario in occasione di notizie relative a difficoltà economiche di un paziente, come posso pattuire in anticipo un aumento della mia retribuzione, per esempio quando un giovane psicologo diventa un professionista che comincia a guadagnare, oppure se una disoccupata ottiene l’agognato posto di lavoro.

Dunque, dovevo pagare la metà del mio guadagno, dispormi ad una penale consistente per farmi psicoanalizzare. Accettai così il confronto senza naturalmente fare mai commenti su questo aspetto. Si trattava di una lezione ed appresi rapidamente a tenere conto di ogni insegnamento mi potesse pervenire dal mio analista. Avrei imparato in seguito che spesso gli psicoanalisti richiedono alte somme di denaro per farsi ripagare della noia prevista o prevedibile con un paziente che non gli sembra eccessivamente interessante, mentre invece non hanno bisogno di una forte ricompensa economica se si sentono intrigati dal caso clinico. Posso complimentarmi con me stesso, oggi, di essere stato capace di leggere in una chiave diversa il suo comportamento, come un invito a meditare su quanto costasse l’analisi, ed il modo principale consisteva nello sborsare una somma ingente. Non mi balenò in testa, per fortuna, che ai suoi occhi potessi apparire un caso facile, semplice, e routinario. Mi salvò non avere troppo idee o conoscenze riguardo al lavoro ed agli strumenti analitici. Questo indica anche come il soggetto digiuno delle tecniche analitiche ha meno sovrastrutture difensive nei confronti dell’opus analitico, che tradotto in soldoni significa lasciare scivolare più dolcemente la macchina terapeutica. Avrei imparato più tardi, ancora, che l’uso del denaro guadagnato in analisi rappresenta il modo in cui noi psicoanalisti consideriamo il frutto del lavoro dei nostri pazienti. Questo indica un’attenzione onesta e seria a quello che è il lavoro dei nostri pazienti. Ricordo sempre un mio giovane paziente che pagava il suo lavoro analitico, – che avevamo pattuito insieme – con lo stipendio che guadagnava andando a lavare i piatti due sere a settimana in un ristorante. I racconti relativi al tipo di esperienza vissuta insieme a molti extracomunitari che lavoravano nel retrobottega del ristorante, sono diventati per lui e per me poi oggetto di interessanti ed utili conversazioni. Io sapevo che lui faticava manualmente per pagarsi l’analisi e lui ha distillato materiale importante per scrivere. Dal mio canto io ho imparato da allora a considerare meglio il valore del denaro. Così è l’analisi: si lavora in due e bisogna imparare anche in due.

Potrei giurare che durante le mie letture adolescenziali l’incontro con il pensiero junghiano mi lasciò esterrefatto, tanto da subire una fascinazione così forte e profonda che decisi, stranamente ma saggiamente (oggi posso dirlo con sicurezza e soddisfazione) di seppellirlo come un tesoro al quale si dà un appuntamento più tardi. Questa era la mia isola del tesoro, verso la quale avrei navigato dopo il giro di boa dei trent’anni. Non fanno forse così anche i cani che, per istinto nascondono un osso per poterlo poi ritrovare nel momento del bisogno? In quel tempo ero alle prese con studi di greco e latino, scienze e letteratura, e davvero non rimaneva uno stralcio di tempo per studiare quello che avevo intuito che potesse diventare una fonte per me meravigliosa di conoscenza e probabilmente di lavoro.

Mentre spolvero questi ricordi sugli scaffali della memoria, mi sento quasi incredulo nel pensare che già intorno ai miei sedici anni riuscivo a leggere in lontananza qualche spiraglio di luce del futuro che mi attendeva.

Quando intorno al 1990 seguivo – senza che se ne accorgesse – le conferenze che Aldo Carotenuto svolgeva in giro per l’Italia, affamato come ero di conoscenza del suo pensiero e del suo lavoro, mi sono trovato di fronte a un pensatore formidabile, che argomentava a Bologna in modo celestiale e soave a proposito dei legami e delle connessioni tra psicologia e religione, denunciando l’anima naturaliter religiosa dello psicoanalista e poi, il giorno dopo, a Venezia argomentando sottilmente sulle caratteristiche mefistofeliche dell’amore, operando quasi un’apologia del tradimento.

Aldo Carotenuto non seppe se non molto più tardi che spesso, quando potevo, mi recavo ad ascoltare, il più possibile mimetizzato fra il pubblico o i suoi studenti nelle ultime file, le conferenze che teneva a Roma e in giro per l’Italia oppure le lezioni che svolgeva all’università.

Non a caso infatti dopo circa due anni di analisi feci questo sogno:

Stavo discutendo di nuovo la tesi di laurea in medicina e questa volta il relatore era lui e l’argomento era di carattere psicologico.

Io ero raggiante, e lui si trasformava nel preside della facoltà e mi conferiva la lode.

Bisogna dire che dopo questo sogno Carotenuto mi fece balenare in mente la possibilità di lavorare anche come psicoanalista.

Da quel momento i nostri rapporti diventarono molto più stretti ed io entrai nella seconda fase di apprendimento psicoanalitico che fu davvero memorabile in quanto in seguito alla comparsa di certi sintomi medici mi chiese di visitarlo. Da allora diventai ufficialmente il suo medico curante.

Intorno al 1991 dunque, quasi 15 anni or sono, quando per note vicende Aldo Carotenuto decise di uscire dall’Associazione Italiana di Psicologia Analitica da lui fondata, ricordo che non avevo parlato con lui di questa faccenda ed avevo apprezzato il suo silenzio riguardo alla storia, poiché ero stato accettato proprio quell’anno ai corsi dell’AIPA. Indipendentemente da ciò che accadeva, lui non mi aveva mai spinto a lasciare questa associazione. Mi resi da solo, però, che si trattava di un’istituzione dove la psicoanalisi veniva trattata – secondo me – a livello liceale e di fare ancora lo studentello non avevo proprio intenzione. Resomi conto poi dell’inutilità di appartenere a un’istituzione nella quale non mi riconoscevo, scoprii che la mia impazienza e la mia noia rispetto a docenti e argomenti erano giunte al limite. Mandai dunque un telegramma di congedo deprecando il comportamento ”maccartista” – insomma di caccia alle streghe – del consiglio direttivo. Mi convinse un sogno sul quale Aldo rise di cuore:

Sentivo una mano che mi strizzava i testicoli.

Comiciò così l’avventura del Centro Studi Psicologia e Letteratura.

Sulle tracce psicologiche del serial-killer dentro e fuori del cinema

in Giornale Storico del Centro Studi di Psicologia e Letteratura, 1, Giovanni Fioriti Editore, Roma, 2005 – Estratto

Questa storia per noi psicoanalisti ha origini lontane. Non certo soltanto negli anni ’70 quando tre ragazzi della cosiddetta “Roma bene” perpetrarono le follie assassine del Circeo, ai danni di due povere ragazze, una sola delle quali sopravvissuta miracolosamente. Erano già i tempi in cui impazzava sempre a Roma una banda definita dell’Arancia Meccanica che compiva furti e violenze carnali tenendo in ostaggio coppie o famiglie minacciandole poi con la promessa di ritorsioni se avessero parlato.

In quegli stessi anni veniva barbaramente massacrato il poeta Pier Paolo Pasolini. Il suo ultimo film, un vero e proprio testamento artistico-psicologico, coniuga, illustrandoli, il piacere del male e la pazzia del potere. Salò-Sade, le 120 giornate di Sodoma è un film disgustoso come i campi di sterminio dei nazisti. Non è bello, niente affatto godibile, è insopportabile, ma è vero, come vere sono le immagini dei corpi ammassati e macerati di scheletrici ebrei annientati prima ancora di essere eliminati fisicamente – immortalati, è il caso di dirlo, da vecchi preziosi videofilmati che fanno il giro del mondo.

I giornali continueranno a sbattere il mostro in prima pagina. I magistrati, gli avvocati, i preti, i direttori degli istituti di pena, i reporters, i mass-mediologi continueranno ad esercitare il loro mestiere con tutte le difficoltà umane, gli errori, le carenze, i limiti della nostra specie.

Le diagnosi possono essere inesatte, il rischio delle condanne carcerarie potrà sempre oscillare tra Scilla e Cariddi, tra la severità della pena come spauracchio per eventuali proseliti e la pietà morbida che riposa nell’idea del recupero.

Sì, a nome degli iniziatori della psicoanalisi che hanno capito di dover combattere il proprio irrazionale malato in prima battuta e quindi quello degli altri, fino a noi eredi moderni della psicoterapia (a cui hanno passato il testimone ben quattro generazioni di studiosi dell’inconscio) dobbiamo urlare, ripetere il lamento di Cassandra. L’ignoranza da parte del mondo dell’utilità curativa del lavoro psicologico è purtroppo il disastro peggiore della società dei consumi, che alimenta il desiderio di avere anziché di essere, che sostiene l’affanno per il potere a danno della supremazia dell’amore.

È una storia antica, vecchia di secoli, ma che si ripete ogni volta. In questa triste occasione ritornano gli identici totem: il controllo sulle persone, la tirannide assoluta sui corpi e sul pensiero, uno scettro sanguinoso in grado di controllare la vita e la morte, il respiro e le lacrime di chi viene fatto prigioniero. Parole-simbolo come denaro, orologi preziosi, auto lussuose, sono solo maschere per nascondere personalità inesistenti. Il mostro diventa un burattino creato dalle alte scuole di specializzazione come l’imperialismo, il consumismo, il colonialismo, il razzismo, l’egoismo.

Naturalmente non vogliamo, non possiamo divagare, ma se queste vi sembrano storia di un altro mondo procuratevi per favore una copia del film Cose di questo mondo per apprendere il valore della vita in Afghanistan di questi tempi e come la fuga per la vita di chi non vuole marcire nella povertà e nell’ignoranza spesso si trasforma in un incontro con la morte.

Lo psicoanalista, si sa, quando piove non può che agire come tutti gli altri: aprire l’ombrello, o bagnarsi se non ce l’ha. Il che significa piangere e disperarsi per eventi tragici come la distruzione delle Torri Gemelle con tutti i nostri simili dentro o morire con loro se fossimo capitati l’11 settembre 2001 lì sopra. Soffrire per i bombardamenti in Afghanistan o restare vittima delle bombe se ci fossimo trovati da quelle parti.

Il misero aiuto, il sincero impegno che possiamo dare è prima o dopo, mai durante.

“Durante” si svolge soltanto l’opera dei santi, dei martiri, dei vigili del fuoco, dei soccorritori, dei medici dentro e senza frontiere, della Croce Rossa, di Amnesty International.

Per quanto riguarda il prima, la musica è sempre la stessa: bisogna occuparsi con una strategia capillare di curare ogni singolo individuo, educandolo a cercare la pace dentro di sé prima che fuori; e a combattere il male dentro di sé anziché puntare il dito contro la cattiveria altrui. Questo non significa spedire tutti dallo psicoanalista, ma disporre la presenza dello psicoanalista nelle scuole prevalentemente, e quindi nelle fabbriche, negli uffici; organizzare un esercito pacifico di civilizzazione della psiche per arginare la violenza interna. Freud ha descritto questa opera come una bonifica dell’acquitrino interiore (lo Zuiderzee interiore) esistente in ogni individuo. Abbiamo scritto individuo proprio perché Jung ha definito il compito finale di ogni coscienza: l’acquisizione di un’armonia tra la dualità bene-male insita in ciascuno di noi.

Individuo, in-dividuus, significa infatti essere non diviso, non scisso, non schizofrenico.

Il raggiungimento dell’individuazione si realizza in un traguardo: la scoperta dell’identità.

Quattro passi nel futuro della psicoterapia

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 57 Roma, Di Renzo Editore, 2005 – Estratto

Scavando nel passato della psicoanalisi, diciamo poco più di mezzo secolo dopo la pubblicazione dell’Interpretazione dei sogni di Freud, qualunque studioso può accedere ad un prezioso scritto di Jay Haley che quando mi capitò tra le mani mi sembrò assolutamente sorprendente e modernissimo. E questo articolo ricordo di averlo letto per la prima volta una ventina di anni fa. Ogni tanto vado segretamente e voluttuosamente a ripassarmelo. Ed ogni volta trovo che sia un lavoro davvero rivoluzionario, un vero diamante per perfezione e lucidità.

Che cosa dice in sostanza? Che la psicoanalisi, sulla base di un lunghissimo studio (qualche anno) basato su interviste che il redattore definisce top-secret (in quanto mai pubblicate come tali, ma prese in considerazione nella loro totalità), effettuate a seri ed affermati professionisti della psiche in Europa e nelle Americhe (i cui nomi restano segreti), che la psicoanalisi, ripeto, è paragonabile all’invenzione del martello.

Da quando il martello è stato inventato poco o nulla è stato aggiunto alla sua utilità e funzionalità.

Semplicemente l’uso del martello è rimasto lo stesso nel tempo. Non esiste ancora, infatti, uno strumento capace di sostituire il vecchio martello, se escludiamo utensili di fortuna come il tacco della scarpa maschile o qualche altro corpo contundente schiacciato come potrebbe essere il batticarne del macellaio.

Entrambi i due esempi naturalmente non riescono a reggere il paragone con il buon martello, che resta lo strumento di elezione per piantare un chiodo o schiodarlo.

Così è la psicoanalisi, conclude Jay Haley. L’invenzione di Freud rimane imbattibile e insuperabile perché è semplicemente inespugnabile.

Ed è inespugnabile perché è costruita con degli stratagemmi che se ci facciamo caso sono decisamente perfetti.

Forse non sarà superfluo ricordarli: il setting, i tempi, i modi, il denaro, gli intenti, il lettino o la poltrona.

Questi stratagemmi, che l’autore definisce ploys, contribuiscono tutti ad un fondamentale esercizio professionale che viene chiamato supremazia.

Il lavoro analitico consiste nell’effettuare continuamente un’opera di supremazia sul cliente per consentire allo stesso di raggiungere questa stessa supremazia che coincide con la conquista della salute mentale e della autonomia psichica e relazionale.

In altre parole lo psicoanalista lotta apparentemente contro il paziente (ma a suo favore in realtà) per metterlo continuamente al tappeto.

Ciascuno può scegliere i modelli di riferimento che preferisce oppure crearne uno nuovo in barba a tutti gli altri: va bene lo psicoanalista comprensivo, quello feroce, il compagno di giochi, il padre o la mamma che non ci sono stati, la perfetta padrona di casa, il dandy o lo snob aristocratico com’era il principe Masud Khan.

Ciascuno può essere un giusto archetipo ma l’importante è essere e non simulare.

E’ difficile spacciarsi per uno psicoanalista se non si è capaci di fare lo psicoanalista. E l’unico modo reale per essere uno psicoanalista del presente e del futuro credo sia quello di essere capace di costruire e stabilire relazioni di affetto, di amore, con se stessi e con gli altri, fuori e dentro l’analisi.

In questo credo che il più moderno, esemplare futuristico psicoanalista sia stato Sandor Ferenczi. E’ stato lui per primo ad affermare che non poteva esserci relazione oggettuale terapeutica dove non fosse presente l’amore. Chi non è in grado di costruire una relazione di affetto, di amicizia, d’amore non è in grado di costruire il futuro ma è soltanto incline a promuovere conflitti.

Lo scrittore latino Terenzio nel Punitore di se stesso ha enunciato uno dei principi basilari della psicoanalisi (che poi coincide con le basi della comprensione umana) e che recita: “homo sum, nil a me humani alienum puto”. In queste otto parole è condensato il senso della vita umana: non c’è niente di umano che non mi appartenga. Ed il concetto di alieno, di marziano che aleggia in queste parole come rivale dell’umano, come contrario agli aspetti sani del genere umano, fa appunto pensare alla necessità di noi alienisti (una volta eravamo chiamati così, ma pensate quanto futuristico è il termine) di stabilire un contatto, di aprire un dialogo con quelli che hanno perduto molte o quasi tutte le caratteristiche umane.

Per questo si è fatta strada dentro di me che la ragione di coloro che intendono continuamente generare conflitti risiede in nuclei malati che meritano la possibilità di essere curati e non importa se i fallimenti saranno troppi, se possiamo contare su qualche sudata vittoria isolata. Come spesso si sente dire al cinema dobbiamo imparare a non farne una questione personale, ma capire che i disastri analitici o le ingratitudini che subiamo fanno anch’essi parte del nostro iter professionale e umano, e riusciremo a capirne il senso, sia noi che i nostri pazienti, forse in tempi diversi e più lunghi. L’arte è lunga, la vita è breve, recita il vecchio adagio e la vera luce che deve guidarci nel cammino è quella della nostra coscienza che ci consentirà sempre di illuminare il buio.

Ipnoautica per principianti

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 56, Roma, Di Renzo Editore, 2004 – Estratto

Partiamo subito con un celebre assioma che ha la forma di un aforisma: “Non esistono gli ipnotizzatori ma soltanto gli ipnotizzati”. Questa asserzione, che sembra scimmiottare quella sarcastica di Karl Kraus sulla psicoanalisi (la psicoanalisi è una malattia della quale pretende di essere la cura) si rivelerà invece sempre più vera man mano che l’apprendista ipnonauta si impossesserà dell’arte della transe. Si è deciso di utilizzare il termine transe (anziché trance) per ricordare ed enfatizzare l’etimologia della parola. Transe da trans-ire, andare oltre, termine giustamente prediletto da un grande studioso e conoscitore di stati alterati della coscienza, Georges Lapassade, forse il più eminente studioso occidentale del fenomeno, che chi scrive ha avuto l’onore ed il privilegio di conoscere e frequentare. L’ipnonauta diligente cercherà al più presto di leggere l’opera Stati alterati e transe del Predetto.

Invitiamo a diffidare di coloro che temono la transe. La transe è uno stato naturale, frequente, pluriquotidiano nel quale ci imbattiamo tutti. Solo che molti, forse la maggior parte, resistono e vi si oppongono cercando la cosiddetta lucidità. Sognare ad occhi aperti, farsi scoprire “imbambolati” da qualcuno sul lavoro, a scuola, non ricordare mentre guidiamo che cosa è successo negli ultimi due, cinque, o cento chilometri; sentirsi incatenati a un libro, inebriati da una musica, innamorati di una donna o di un uomo, estasiati da un tramonto, magnetizzati da un oratore; cullarsi in un ricordo, vagare nel futuro, perdersi nel presente: tutto questo è transe.

Non c’è bisogno di essere psicologi per aiutare qualcuno a scivolare dolcemente in uno dei quadri appena descritti. E infatti l’ipnosi è una tecnica nella quale sono molto bravi soprattutto i non addetti ai lavori e cioè i maghi, i prestigiatori, gli illusionisti, gli uomini di spettacolo che riescono ad accumulare sul campo una grande esperienza e sono in grado di farlo quasi sempre meglio degli psicoterapeuti. Non lo diciamo soltanto noi ma anche uno dei pionieri dell’ipnosi, Sandor Ferenczi, che il bravo psiconauta avrà la curiosità di andare a interpellare sull’argomento. Per anticipare qualcosa ricordiamo che il grande psicoanalista – del quale si è detto: Freud ha inventato la psicoanalisi ma Ferenczi l’ha fatta (!) – ha sottolineato la sua bravura come ipnoterapeuta da adolescente con gradi mai più raggiunti come medico e psicoanalista.

Facciamo un po’ i monelli, i provocatori e togliamoci finalmente questo peso dallo stomaco, dicendo che sono fin troppi i nostri colleghi che si trincerano dietro uno scetticismo inutile per proteggere il loro tallone d’Achille, la assenza di pratica dell’ipnosi, una grave ignoranza, a parer nostro. Abbiamo udito centinaia di pazienti riferire che il loro stesso psicoanalista alla richiesta di un tentativo di lavoro in ipnosi ha cominciato a vacillare, adducendo le ragioni più pretestuose ma rivelando soltanto una mancanza di esperienza. Secondo noi è sempre possibile verificare con facilità le reali intenzioni di un paziente che desidera lavorare anche o soltanto con l’ipnosi. Bisogna però sapere come si fa. Il metodo non è difficile, ma come per la psicoanalisi, bisogna che il terapeuta cominci a sperimentarlo su di sè. Pertanto ora non chiedeteci come si fa, perché non osereste chiedere a uno psicoanalista come si fa la psicoanalisi, ma vi porreste umilmente nella condizione di apprendere da chi è stato riconosciuto capace di effettuarla. Non pretendereste di apprendere la psicoanalisi leggendo i testi di Freud, Jung e compagni (e chi lo fa è davvero pazzo) ma sapete bene che dovrete sottoporvi a un duro lavoro analitico personale per conoscere gli strumenti della disciplina e valutare la vostra inclinazione alla professione.

Siamo stufi, noi ipnonauti, di sentire nei nostri studi le lamentele di clienti che vengono da noi con il permesso del proprio psicoanalista che controllerà il nostro operato arrogandosi il diritto di giudicare e supervisionare qualcosa di cui non sa nulla! Il nostro parere è che ogni sano psicoterapeuta debba fare esperienza personale della transe, con tutti i metodi, le tecniche e le strategie possibili, perché questo è uno strumento imprescindibile del nostro lavoro. Vogliamo citare qualche esempio famoso? Uno dei più importanti ri-scopritori dell’ipnosi si chiama Chertok; questi era un allievo di Lacan (ricopritore a sua volta della “cosa” freudiana) e rimase di stucco quando chiese al suo vanitoso maestro se poteva provare con l’ipnosi in un caso che gli era stato affidato. La risposta fu picche, ma il nostro uomo non si lasciò intimorire nè infreddolire dal silenzio glaciale del Seminarista e utilizzò di nascosto la tecnica che aveva appreso da qualche anonimo, pedante psichiatra della scuola di Charcot e ottenne non solo un successo clamoroso ma scrisse poi dei magnifici libri che lo sveglio ipnonauta si procurerà in un baleno e li divorerà.

Una spia nel tempio della psicoanalisi

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 55, Roma, Di Renzo Editore, 2004

Prometto che la storia che sto per raccontare sarà fedele (ma appassionatamente) ai fatti che coinvolsero, circa 70 anni fa, una donna di nome Anais Nin, due psicoanalisti, Renè Allendy e Otto Rank, e uno scrittore, Henry Miller.

Costoro non sono i soli personaggi di questa inchiesta psico-letteraria.

Le altre comparse, con ruoli non sempre marginali, rispondono ai nomi di Hugo, marito di Anais, June Mansfield, moglie di Henry Miller, Antonin Artaud, scrittore ed attore francese di teatro e cinema, Eduardo Sanchez, cugino di Anais, Joaquin J. Nin, padre di Anais.

Mi è sembrato quasi più onesto far raccontare parte di questa tranche de vie al personaggio principale, Anais Nin, perché, oltre ad essere la protagonista ed il soggetto della mia esposizione, ne è la vera autrice ed anche l’unica fra tutti che abbia avuto il coraggio e la capacità di narrarla man mano che si consumava nei giorni e nei cuori, nei corpi e nei pensieri di ciascuno di loro.

E che Anais Nin mi tormenti, dovunque Ella sia, con gli incubi più paurosi, se le farò dire qualcosa di non realmente accaduto.

Ma che mi accompagni in questa rievocazione se la trova onesta, di “quelli sì che furono giorni” ( those were the days! ) accettando questo ingaggio letterario.

Mi affaccerò, come cantore di questa epopea, a qualche piccola finestra per dei b

revi commenti e chiuderò la porta del discorso come la sto aprendo ora alla mia eroina preferita. Il mio debito e la mia riconoscenza verso Anais Nin sono di immensa gratitudine ( nel mio primo libro Viaggio nell’ipnosi, ho avuto l’onore di ospitarLa come unica attrice femminile nell’odissea dell’astronave che compiva un breve volo nei cieli dell’ipnosi ) ed oggi sono lieto di farLe da navigatore nel resoconto della Sua missione segreta che potrebbe intitolarsi Agente Anais Nin, dalla psicoanalisi con amore.

Immaginiamo allora che l’agente segreto con licenza di amare Anais Nin, si introduca nel Tempio della Psicoanalisi per compiere una missione di conoscenza di questa dottrina, per capire come questa invenzione possa aiutare il genere umano.

Ormai diventata analista non smette di apprendere da Rank perché lui tocca tutte le cose con la magia del significato. Quelli che vengono da lui sono come ciechi, sordi, muti. Quando lui scopre l’intreccio delle loro vite, loro cominciano a trovarle interessanti e questo interesse li salva. L’intreccio creato dall’inconscio si rivela più interessante di qualsiasi storia poliziesca. Rank scopre i legami, le trame, i modelli, e tutto diventa di un interesse inesauribile, pieno di sorprese.

Ma Anais è delusa anche da Rank. Lo abbiamo già detto, e lei lo ha scritto un’infinità di volte in mille modi diversi. È capace di amarli tutti, riesce a descrivere una giornata come il 6 giugno 1934 vissuta senza ritegno all’insegna della fellatio prima con Henry e poi con Rank.

Di ritorno confida ad Henry: una donna dovrebbe nutrirsi esclusivamente di sperma e subito dopo parlano di psicoanalisi. Ma lei ha bisogno di inventare sempre la vita. Rivolge un pensiero finanche a Dio reputandolo forse geloso della sua venerazione per l’uomo. E si domanda: se Dio mi vuole esclusivamente per Lui, è questa la rete che mi porterà a Jung?

Ha già scritto nel febbraio 1933 che suo marito le ha detto che lei dispone di un harem e a ciascuno dice: “sei tu il favorito”. Se prima il vero re era Henry, poi lo è stato Allendy e quindi Rank e poi di nuovo Henry che ha dovuto lasciare un po’ di spazio per Artaud e ancora per Hugo e tutti insieme per Joaquin. Ed abbiamo già assistito alla sua tentazione per Jung e alla gelosia percepita addirittura nell’Onnipotente.

È la fine per Rank, che morirà davvero poco dopo Freud nel 1939. Ma lasciamo di nuovo la parola alla scrittrice:

Dopo Rank, vivrò solo per gli altri, questa è la mia gioia.

La psicoanalisi mi ha salvata perché ha permesso la nascita del mio vero io, religioso. Non posso diventare una santa. Ma sono pienissima e ricchissima e ho molto di cui scrivere. Mi accontenterò di un po’ di pace e di qualche preciso ricordo. Non posso insediarmi definitivamente nella vita umana. Non mi basta. Devo ascendere a regioni più vertiginose. La psicoanalisi mi ha salvata dalla morte. Mi ha permesso di vivere e, se abbandono la vita, sarà solo per mio volere, in quanto non contiene l’assoluto. Ma quanto amo ancora il relativo, la banalità e il calore di un fuoco, e una bella raccolta di orecchini, ed Haydn ascoltato con il fonografo, e le risate con Eduardo, e le battute su Mae West, e il nuovo completo di lana nera con enormi maniche e scollatura sensuale dalla gola ai seni, e il braccialetto e la collana di pietre azzurre, incastonati di stelle, e la nuova biancheria, e la nuova vestaglia di velluto nero e il cassetto pieno di copie di Tropico del Cancro con la mia prefazione, e l’ultima lettera di Rank, e il telefono che squilla tutto il giorno, addio addio addio…

Amore.

Psicopatologia della guerra e del terrorismo

in Giornale Storico di Psicologia Dinamica, 53, Roma, Di Renzo Editore, 2003 – Estratto

Freud nel 1932 in risposta a Albert Einstein sul quesito “C’è un modo per liberare gli uomini dalla fatalità della guerra” partendo dalle sue riflessioni su Eros e Thanatos e sull’aggressività umana, afferma che ”una prevenzione sicura della guerra è possibile solo se gli uomini si accordano per costituire un’autorità centrale, al cui verdetto vengano deferiti tutti i conflitti di interesse”. Ma la vera difficoltà, continua Freud, non consiste tanto nel creare una tale istituzione, ma di conferirle il potere necessario e incontestabile per agire.

Nel 1945 Jung sconvolto dalle sventure e dai lutti bellici, inorridito “dall‘irresistibile fascino del male” che aveva condotto alla trance possessiva delle masse, pur ammettendo l’importanza del fattore economico, affermerà che “al disopra e al di là di ogni fattore esterno, le decisioni ultime risiedono sempre nella psiche umana” e che dunque “affinché si muti l’intera realtà deve prima mutare l’individuo singolo”.

Il post-freudiano Franco Fornari ha dedicato ben due libri all’argomento guerra: Psicoanalisi della guerra atomica e Psicoanalisi della guerra . I due libri rappresentano un corpus unico (buona parte del primo confluirà nel secondo).

L’excursus storico parte dalla nota e provocatoria interpretazione di Freud sulla guerra: “In realtà i nostri concittadini non sono sprofondati così in basso come temiamo perché non erano mai saliti così in alto come credevamo… Questa guerra rappresenta per il cittadino di qualunque nazione l’occasione per capire ciò che in tempo di pace potrebbe capire solo per caso: cioè che lo stato proibisce all’individuo di commettere iniquità non perché desideri abolirle ma perché vuole averne il monopolio come per il sale e i tabacchi.”

Fornari esamina le tre teorie della guerra esposte da Money Kyrle che si dimostrano ancora intramontate senza che una escluda le altre. La prima è quella sessuale (armi come falli); la seconda è definita edipica (legami omosessuali tra gli individui passando da posizione ostile verso il padre a posizione passivo-femminile): “la cooperazione e la lealtà richieste nella convivenza del gruppo, e in modo specifico nella cooperazione degli individui in guerra, sarebbero rese possibili dai legami omosessuali tra gli individui di uno stesso gruppo e nel rapporto col capo”. La terza teoria, chiamata paranoica, deriva dagli studi di Melanie Klein sullo sviluppo iniziale del bambino. Secondo questa studiosa della psicoanalisi infantile per il bambino la madre è il primo contenitore di ogni cosa buona ma anche, può sembrare assurdo, di ogni cosa cattiva che lo riguardi. Così il bambino può sviluppare ansie persecutorie create da lui stesso identificandosi, attraverso un processo maniacale, con il nemico interno e aprendosi quindi alla guerra.

Fornari da parte sua ritiene che “ciò che espone l’uomo alla guerra non è tanto la sua dotazione aggressiva originaria, una sua particolare malvagità, ma una specie di pazzia innata con la quale egli costituisce i suoi rapporti primitivi con il mondo, che originariamente è la madre”. Dunque mentre l’esperienza amorosa considera l’altro come indispensabile all’esistenza del Sé fino a farla diventare costitutiva del Sé, l’esperienza di odio rappresenta la radicalizzazione distruttiva del rapporto con l’altro come uno degli aspetti più tipici della guerra intesa come paranoia persecutoria e quindi negatrice della esistenza del Sé. L’intento di Fornari è quello di dimostrare che solo una lettura che sia anche cura psicoanalitica della necessità di violenza e della necessità di colpa degli esseri umani può trasformare le loro ansie distruttive in propositi e necessità di pace. Ne consegue, come processo terapeutico psicoanalitico, una possibile responsabilizzazione dell’individuo, che prendendo coscienza attua un processo riparativo dell’era catastrofale. Fornari conclude indicando la necessità di costituire un’organizzazione – da lui battezzata Omega – che sia difensiva, giuridica, repressiva all’interno dei gruppi del crimine guerra, e da considerare come desiderio delittuoso dei singoli individui anziché funzione dello Stato.

Lo studio più ammaliante in materia di guerra è forse quello dell’inglese post-junghiano Anthony Stevens, autore di numerosi saggi tra cui il fondamentale Le radici della Guerra, una prospettiva junghiana . Il suo discorso si articola prendendo ovviamente le distanze dalla visione freudiana: “Mentre Freud assumeva che il nostro patrimonio mentale viene acquisito da ciascun individuo nel corso del suo sviluppo, Jung sosteneva che le caratteristiche essenziali che contraddistinguono l’essere umano sono già presenti dalla nascita. A questi attributi tipici della specie umana Jung diede il nome di archetipi. L’archetipo del nemico è soltanto uno di questi.

Gli archetipi, sosteneva Jung, sono alla base di tutti i fenomeni più comuni dell’esistenza umana. In quanto strutture innate, gli archetipi posseggono la capacità di originare, controllare e mediare esperienze e comportamenti caratteristici e comuni a tutti gli esseri umani. In particolari occasioni, gli archetipi generano pensieri, immagini, sentimenti e idee che appaiono fondamentalmente simili in individui diversi, indipendentemente da variabili quali classe, razza, religione, posizione geografica e periodo storico. Accettare l’ipotesi degli archetipi significa in ultima analisi adottare una visione della psiche essenzialmente filogenetica, poiché gli archetipi possono essere considerati come entità biologiche che si sono evolute nel corso della selezione naturale”.

L’analisi di Stevens si basa sulla sua conversione alla teoria degli archetipi di Jung (una storia affascinante che meriterebbe un capitolo a parte . Come per tutti gli archetipi, anche quello del nemico ha un ruolo importante nel comportamento degli umani e si manifesta sin dalla primissima infanzia. Il bambino, nei primi mesi di vita, mentre dimostra gioia nell’avvicinarsi della propria madre, ha parimenti circospezione se estranei gli si approssimano. Appena più grande, intorno al primo anno di vita, il suo atteggiamento di timore si trasforma in ostilità non disgiunta da paura vera e propria. È questa una predisposizione innata nel bambino che non è assolutamente influenzata dalle sue condizioni di nascita o dal modo in cui è stato fatto crescere. È lecito chiedersi il perché si possa sviluppare questo “complesso” di sensazioni associate e legate tra loro da una comune carica emozionale. Le componenti che lo sviluppano sono due: l’indottrinamento culturale e la repressione familiare.

La prima, quella dell’indottrinamento, deriva direttamente dai concetti, a volte anche di natura teologica, che vengono volontariamente e involontariamente inculcati nel pargolo dalle persone che normalmente lo circondando. Quindi il Male, il Diavolo, ma anche coloro e tutto ciò che non è gradito dagli “allevatori” o dai consueti frequentatori del bambino, vengono fatti apparire come un potenziale “nemico” da evitare sempre e comunque. La seconda componente, quella della repressione familiare, è frutto tipico di tutte le prevenzioni e di tutti i moduli comportamentali che in qualsiasi nucleo familiare esistono. Jung, che riteneva quest’ultima componente di interesse primario per l’analista, vuoi perché rappresenta aspetti della personalità repressi, vuoi perché è lasciata allo stato embrionale nell’inconscio per le condizioni della realtà in cui l’individuo cresce, la definì ombra. L’ombra non riesce quasi mai a “realizzarsi”, resta sempre racchiusa nell’autorità “paterna” che Freud indicava come il Super-io e Jung come complesso morale.

Per Stevens l’archetipo del nemico, frutto naturale delle componenti di cui abbiamo parlato, si manifesta in forme varie, ma sempre molto aggressive. La forma onirica, basilare, forse l’unica che abbia una maggiore incisiva valenza comportamentale, immagina il nemico sempre sotto forma sinistra e minacciosa e, normalmente, sempre dello stesso sesso del sognatore ma parimenti di nazionalità, colore, razza diversi. Questa è la tipica manifestazione di supervalutazione dei propri ”inculcati” valori tribali. Così quando ci abbandoniamo ai nostri istinti più incivili e barbari vuol dire che siamo preda dell’ombra, un’ombra tutta umana e niente affatto animale (tanto è vero che gli animali non sono capaci di perpetrare misfatti pari a quelli umani).

L’inclinazione umana a compiere atti feroci e assurdi, anche di massa (come l’Olocausto e le altre stragi di cui la Storia è triste testimone) dipende dalla incapacità di controllare la propria ombra. Goethe con il suo Faust, Oscar Wilde con il Ritratto di Dorian Gray, Stevenson con il Dr. Jekyll e Mr. Hyde, Mary Shelley con il suo Frankenstein ci hanno dato un esempio in letteratura di quanto potente e terribile possa essere il lato segreto di ciascun di noi. Hitler, Mussolini, Stalin, Pinochet, Lenin, i Cristiani alle crociate, i Turchi in conquista, i Colonnelli greci – e aggiunga a piacere il lettore i suoi criminali favoriti – hanno dimostrato concretamente, e sanguinosamente, di quali atrocità sia capace l’uomo. Nei casi in cui viene coinvolta la massa, l’uso pervicace dei media è in grado di suggestionare un intero popolo a proiettare, spostandola lontano da sé, la propria ombra sul cosiddetto nemico, come è avvenuto per gli ebrei demonizzati dal nazismo. Così se è vero, come predicava Konrad Lorenz, che solo l’animale capace di aggressività verso i suoi conspecifici è anche capace di affettività, così anche per la specie umana la bravura nel farci degli amici corre sullo stesso filo che produce anticorpi antiumani, creandoci dei nemici.

Sembra quasi che le due rette parallele di Fornari e di Stevens si incontrino a questo punto: entrambi sono convinti che bisogna fare i conti con la nostra personale e innata cattiveria per migliorare i rapporti con la nostra anima naturaliter religiosa. E così per chiunque abbia un rapporto con un credo buddista, cristiano, scintoista, musulmano, ebraico, induista, politeista, agnostico, ateo, mi sembra opportuno ricordare che il filosofo Luigi Pareyson considera sconcertante, ma attendibile, il voler far risalire a Dio la creazione del male perché anche se ammettiamo Dio come sua origine è pur sempre l’uomo il suo vero artefice. Il problema sta nel libero arbitrio. Noi conosciamo il bene e il male perché, sempre come dice Pareyson, la realtà suscita al tempo stesso stupore e orrore, angoscia e meraviglia: la sua caratteristica essenziale è l’ambiguità… Dunque dobbiamo scegliere con dolore perché il dolore è il luogo dove uomo e Dio si ritrovano. La sofferenza che il dolore genera può essere lenita solo dal ritrovarsi tra l’uomo e il suo Signore. Il dolore, unico mezzo che riesca a superare il male, è anche l’unico trait d’union sempre vivo che può collegare divinità e umanità come una nuova copula mundi. Non esiste via d’uscita dalla guerra e dal male senza sofferenza e confronto con i nostri simili. Noi tutti siamo corresponsabili in prima persona dell’attuale stato del mondo, non i partiti politici, non gli Stati, non il Diavolo, né gli Angeli, noi con il nostro dolore senza il quale e con il quale non possiamo vivere. Per dirla con Marziale: Nec tecum, nec sine te vivere possum.